di Gianluigi Simonetti

 

Il nuovo libro di Bret Easton Ellis, Bianco, comincia più o meno come uno dei suoi vecchi – Lunar park, di quindici anni fa: come l’autobiografia di uno scrittore che ha conosciuto il successo ma attraversa una crisi creativa. Ma se Lunar park abbandona la pista del (finto) memoir per diventare subito un romanzo horror, Bianco si costruisce proprio sulle ceneri di un romanzo impossibile. La narrativa di spessore, nota Ellis, non fa più effetto sul pubblico contemporaneo – e qualcosa di simile succede al cinema e alla musica; alcune forme d’arte che sembravano cruciali fino a poco fa ci appaiono improvvisamente invecchiate, legate a un altro secolo. Per questo Bianco imbocca la strada del saggio, o meglio del pamphlet, dello scritto polemico a sfondo autobiografico; bersaglio della satira sarà proprio questo cambiamento. Viviamo una crisi della sensibilità estetica che nasce, paradossalmente, da un’estetizzazione diffusa: Instagram e i reality al posto della letteratura e del cinema non sono che una tappa di quel processo di «democratizzazione delle arti» che grazie al sovraccarico sensoriale e alla libertà di scelta garantite dalle tecnologie mira a depotenziare i veri artisti – e, in prospettiva, a ridurli al silenzio.

 

Per sviluppare questa tesi Bianco comincia dall’infanzia di Ellis, dai primi anni Settanta: un mondo fatto per gli adulti, che ancora non ruotava intorno all’infanzia (e all’infantilizzazione della cultura), e in cui i genitori, dal punto di vista dei figli, «in pratica non esistevano». I libri e i film di cui quei ragazzini si appropriano suggerivano che dietro l’agio della quotidianità occidentale c’è un altro mondo, arbitrario e crudele; la fiction è al servizio della «dura realtà», non dispensa ottimismo, non offre risposte. Una volta diventato scrittore (nel 1985, ad appena vent’anni, con Meno di zero) per Ellis sarà naturale assumere lo stesso atteggiamento provocatorio e sincero. Meno di zero, Le regole dell’attrazione e American Psycho – tre romanzi molto letti, molto imitati, molto sottovalutati dai critici ‘seri’ – da un lato denunciano la passione consumista per le superfici e le merci (e la ferocia latente che essa contiene); dall’altro ne celebrano l’energia seduttiva attraverso una scrittura a contrasto, insensibile e glaciale. Ellis è uno scrittore voyeur, con modelli cinematografici più che letterari (Hitchcok, Kubrick, forse Warhol, quando filma impassibile ragazze e ragazzi che fanno l’amore); i suoi romanzi sono politicamente interessanti proprio perché privi di un messaggio politico esplicito. Libri contradditori, anche, che ci chiedono di confrontarci con situazioni ambigue, sgradevoli ma affascinanti, in sintonia con una tradizione americana d’arte godibile, e accessibile a tutti, ma anticonvenzionale e in fondo minacciosa. Che quella tradizione stesse collassando, Ellis lo intuisce proprio ai tempi di American Psycho, quando il suo fidanzato di allora leggendo le bozze del libro gli dice che sta per mettersi nei guai. Siamo solo nel 1989 (e il romanzo verrà effettivamente respinto dalla casa editrice); il punto di vista di Ellis – «volevo essere sconvolto e perfino ferito dall’arte» – in fondo simile a quello del giovane Joyce («Non riesco a scrivere senza offendere qualcuno») – comincia in quel momento a invecchiare.

 

Oggi, a quasi trent’anni di distanza, nessuno vuol più sentirsi offeso da un romanzo; quando succede si esigono scuse dall’artista che ha varcato i limiti. Nella nostra epoca «del consenso» tramonta l’idea che l’arte debba scaraventarci in un altro mondo, con regole morali tutte sue. A definire la nostra idea del bello, secondo Ellis, è piuttosto la crescente incapacità di accettare un punto di vista che differisca da ciò che la società – e le società: le multinazionali dello spettacolo integrato – considerano giusto. In vari modi l’autore di Bianco raffronta la sua vecchia idea d’arte come sorpresa o ferita con l’attuale bisogno – urgente soprattutto negli USA, ma ormai forte anche in Europa e in Italia – di confermare esteticamente le nostre identità e le nostre fedi. Nel Novecento l’artista trovava nell’originalità e nella forza dello stile il senso della sua presenza; nel nuovo millennio il bello si decide a maggioranza e di solito coincide con il giusto. Ma «anche se è bello sentirsi virtuosi», osserva Ellis, «vale la pena di chiedersi se sentirsi virtuosi ed essere virtuosi siano proprio la stessa cosa». L’illusione di una bellezza integerrima e di massa si paga col prezzo che il bello stesso, plasmato dai mille rimproveri del pensiero di gruppo, risulta omologato e insipido, privo di spigoli e di spessori, bisognoso di approvazione. Una specie di «sindrome di Tripadvisor» conferisce un enorme potere d’interdizione estetica, se non di vera e propria repressione, al senso comune (a scapito delle idee dei competenti). Che è poi quello che accade, prima ancora che nel dibattito sull’arte, nella comunicazione social, che oggi per Ellis è il modello latente di ogni altra esperienza di cultura: espressione democratica, gratuita, orizzontale, apparentemente pluralistica e inclusiva, in realtà intollerante, individualistica e gretta. «Dopo che hai creato la tua personale bolla che riflette solo ciò a cui tu ti rapporti e con cui ti identifichi, dopo che hai bloccato o smesso di seguire le persone le cui opinioni o la cui visione del mondo condanni o non condividi, dopo che hai creato la tua personale piccola utopia fondata sui valori che ti sono cari, una sorte di folle narcisismo inizia a deformare quest’immagine così carina».

 

Le conseguenze di questa deformazione impressa all’arte e alla cultura sono ormai ben note: interpretazione moralistica dei fatti estetici, indignazione facile, sentimentalismo, ipocrisia; identificazione rigida e parossistica con le vittime, ipersensibilità verso qualsiasi affermazione identitaria, tendenza alla censura e (soprattutto) all’autocensura. Ellis non dice molto di nuovo sui caratteri generici di questi fenomeni, ma da romanziere è bravo a metterli in situazione, cioè a renderli specifici: a riconoscerli quando guarda un film pluripremiato (Moonlight), quando intervista un attore di successo (Jason Schwartzman), quando parla col suo agente, quando litiga col suo fidanzato (un millenial socialista ossessionato da Trump). Twittatore complusivo a sua volta, Ellis sa bene di far parte della deriva che descrive (lo sapeva già ai tempi di American Psycho, quando prestava non poco di se stesso al distinto serial killer protagonista del romanzo); sa di essere in scena a sua volta, sa che la maschera del piromane è pur sempre una maschera. Ma se la provocazione è studiata e può irritare alcuni, la paura di perdere l’anima suona sincera e ci riguarda tutti: «Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell’arte».

 

[Questo articolo è uscito sul Domenicale del «Sole 24 Ore»].

 

[Immagine: Alberto Burri, Cretto bianco, 1974].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *