di Stefano Gallerani
[Oggi a Stoccolma Peter Handke riceverà il Premio Nobel per la Letteratura].
Queste mie brevi note, colpevolmente in ritardo rispetto all’invito che mi è stato rivolto da Massimo Gezzi – con il quale mi scuso e che ringrazio… Queste mie note, dicevo, su Peter Handke – e anche sul “caso” che lo ha coinvolto nelle ore immediatamente successive all’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura di quest’anno – hanno trovato modo di redimersi – in termini di tempestività – nella lettura tenuta dallo stesso Handke presso l’Accademia di Svezia venerdì scorso, il giorno dopo il suo settantasettesimo compleanno… Discorso che non commenterò perché ritengo sia più giusto parli da solo… (https://www.nobelprize.org/uploads/2019/11/handke-lecture-english.pdf)
La cosa che più mi preme, personalmente, non è fare chiarezza su temi che, per resistenze le più diverse, non credo saranno mai del tutto svolti. Quello che mi sta a cuore è altro: ovvero restituire – sebbene in parte e per sommi capi – Peter Handke alla sfera d’azione – quella dell’espressione artistica – dalla quale, pure, mai si è mosso (sebbene non cessando, nell’arco di un’intera esistenza votata alla scrittura, di alzare l’asticella della sua ambizione creativa). Questo, però, non esclude che spieghi, almeno per quello che mi riguarda – come scrittore, come lettore ma, soprattutto, come uomo – la ragione di alcuni equivoci. Quando Handke, che mai si è nascosto dietro il velo di una qualsiasi causa – vera o presunta – ha ribadito, rispetto ai suoi scritti relativi alla guerra iugoslava, la sua posizione di “scrittore”, lo ha fatto in modo del tutto coerente con la sua stessa vita, prima ancora che con la sua poetica. In questa prospettiva, lo scrittore agisce con gli strumenti che gli sono propri, ovvero quelli artistici. L’equivoco per cui uno scrittore sia necessariamente anche un intellettuale è figlio dell’altro-ieri della storia letteraria (dell’engagement, dell’impegno di stampo secondo novecentesco etc.). Ciò non toglie che uno scrittore possa essere ANCHE un intellettuale, ma i due campi, pur confinanti, non si sovrappongono. Quando un artista interpreta il mondo lo fa senza ridurlo a categorie ideologiche – quelle cui, giocoforza, ricorre un intellettuale impegnato – ma abolendo il concetto stesso di categorie e di ideologie. La sua prospettiva rispetto, a esempio, un conflitto bellico di scala internazionale, non è quella verticale della geopolitica, ma quella radente, orizzontale, del viandante, dell’uomo che cammina. Un artista restituisce di un paesaggio – geografico, umano, spirituale – ciò che la sua sensibilità coglie. Come si formi e in cosa consista questa sensibilità è parte essenziale del mistero della creazione. Quando Cezanne apre il cavalletto di fronte a una collina e la dipinge una volta, e un’altra e un’altra ancora, cosa sta facendo se non creando il mondo che osserva? Diversamente, se volessimo solo capire perché i colori di quella collina cambino da un giorno all’altro o da una stagione all’altra potremmo rivolgerci a un geologo… o a non so quale scienziato si occupi di queste cose. Ma l’artista… L’artista mostra, attraverso il mutare del paesaggio, altro: connette quel paesaggio esterno con un paesaggio interiore che diventa, poi, parte di una sensibilità: una sensibilità nuova e trans-individuale. È il meccanismo per cui, in poche parole, i crucci di Amleto diventano i nostri: è il cuore dell’immedesimazione tra lettore e pagina scritta. Non ci sono complotti critici o egemonie culturali che tengano: l’opera d’arte spiega il contesto e si spiega nel contesto. Ma, allo stesso tempo, lo trascende. E l’opera ci mostra, per questo, della realtà, una verità ben più duratura di qualsiasi analisi obbiettiva. Se ci capiamo su questo, bene, altrimenti si consideri pure l’arte una mera ricreazione per menti sofisticate. Ma come tale trascuriamola tutta, non solo quella che ci turba o quella che richiede un nostro sforzo
L’aver rivendicato, Handke, rispetto alle pagine che ha scritto e alle parole che ha speso sul conflitto iugoslavo, la loro paternità come scrittore non è altro che la rivendicazione di un’autonomia che non può e non deve essere ridotta a altro. Se non si comprende questo non si possono comprendere quelle pagine né, tantomeno, quelle parole. Che poi si condividano o meno, è questione mal posta. Lo scrittore, ripeto, non è un intellettuale, non è un comunicatore, non è un opinionista… Può essere tutte queste cose, certo, ma sempre in quanto scrittore; se grande o meno, è un’altra tazza di tè. Dopotutto, nel corso dei secoli si è assistito alla rivalutazione o al ridimensionamento di nomi ben più altisonanti di quello di Handke: è parte del gioco. Lo sa lui e lo sanno tutti gli artisti che rispettano il gioco. Scorretto è, invece, prima ancora di prendere posizione, non considerare le parole di uno scrittore, ma affidarsi, come è stato fatto con lui negli ultimi due mesi, a articoli di seconda, terza o quarta mano, senza verificarne fonti o attendibilità. Quello che Handke ha sempre pensato delle cose che ha visto nella penisola balcanica dagli inizi degli anni Novanta in poi lo ha sempre scritto e stampato. E a ha sempre risposto alle domande che ha ritenuto, come è nel suo diritto, legittime. Basta leggerlo. Condividerlo o meno, dopo, è talmente altra questione che è anche fuori questione. Quello che ha detto in occasione del funerale di Milošević, cui ha partecipato non tra la folla, protetto da un ombrello o dietro un paio di lenti scure, ma significativamente salendo su un palco e parlando a un microfono, si può facilmente reperire. Basta ascoltarlo. Come basta leggere queste righe da lui pubblicate su Die Zeit nel dicembre di ventotto anni fa: “Ecco, ho perso le dieci parole di preferite di Camus. Proprio così. Perché di certo in tedesco appaiono diverse da come si presentano nel suo francese. E poi, spetta piuttosto ai giovani il diritto di entusiasmarsi per delle singole parole. In seguito, quest’entusiasmo diventa pericoloso: quanto più l’autore, ormai adulto, utilizza certe parole come le sue preferite, tanto più queste si ritraggono con il tempo. Di conseguenza, se lo scrittore s’incaponisce su di esse, loro addirittura pungono o muoiono o, come dire, diventano inconsistenti; e, forse, colui che le ha amate perisce con loro. Non è successo qualcosa di simile allo stesso Camus? Era così follemente innamorato di parole come soleil, enfant, mer, che il sole, il bambino e il mare, alla fine, si dileguarono dai suoi scritti: non gli rimase altro da raccontare che il monologo della caduta scura come la notte, la chute, e poi – com’era ancora giovane a quel tempo – nemmeno più la notte. Parlo per esperienza diretta: “Esci dalla lingua, fermati alle cose concrete e al loro aspetto!”. Uno degli sforzi dello scrittore è forse quello di non cadere vittima del magnetismo delle parole; questo “non” è proprio il segno di distinzione dell’autore. Chi scrive, a differenza di chi parla, non dispone liberamente delle parole, non si limita a usarle; le scopre: meglio questa, meglio quella, una sola parola, e solo in quel momento, in quel punto del testo, senza mai ripeterla meccanicamente”.
Ebbene, se i nomi sono conseguenza delle cose, sostituendo in questo testo “idee” a “parole”, avremo una prospettiva diversa attraverso cui interrogare il rapporto di uno scrittore con ciò che, da viandante, osserva e, da artista, interpreta. Uno scrittore non usa le idee, le scopre, senza ripeterle meccanicamente. Per tornare all’attualità e sospendere il giudizio che da troppe parti e troppo arbitrariamente ha condannato Handke, limitiamoci a pensare a alcuni casi esemplari della storia letteraria del secolo scorso. Pensiamo a Borges: quante volte il panno del biasimo politico è stato steso sul suo corpo per avere, lui, cenato o incontrato questo o quel dittatore? Non voglio dire che, ove veri, tali fatti non abbiano una loro rilevanza, ma ricordo solo che la stessa riprovazione di cui è stato, al tempo, vittima Borges, non ha colpito i suoi illustri “colleghi” sedutisi al tavolo di Castro. E non è solo la distanza temporale, oggi, a rimettere in discussione quelle gerarchie morali. C’erano scrittori che Cuba la conoscevano bene e che le nefandezze castriste le hanno sempre denunciate. I nomi? Uno su tutti quello di Guillermo Cabrera Infante. E ci sono casi che sono stati ampiamenti discussi: l’ “affaire Padilla”, per citarne solo uno. Avemmo dovuto, allora, smettere di leggere Garcia Marquez, che si rifiutò di firmare l’appello per la liberazione del poeta cubano? Per me la risposta è no. Dobbiamo, oggi, accettare la gogna a cui si è cercato di esporre Peter Handke per quello che ha detto di una situazione e di un momento storico rispetto ai quali nessuno detiene la verità? Per me la risposta è ancora no. Per me, che quella situazione e quel momento li interrogo da venticinque anni, la verità è anche nelle pagine di Handke. Per me, insomma l’unica risposta resta sempre e comunque quella che, sì, ho ascoltato tante volte proprio dai libri di Peter Handke: viaggiare, leggere, conoscere e non rimanere mai, ripeto MAI, vittime delle “parole” o delle “idee” predilette.
“[Enrico Filippini] – Ma per uno scrittore, l’identità e la patria sono la lingua…
[Peter Handke] – Si, un marocchino una volta mi ha detto in francese: lei tratta la sua lingua come il suo popolo.”
Enrico Filippini, La caffettiera e l’estasi [La Repubblica, 14 giugno 1979] in La verità del gatto, Einaudi, Torino, 1990. p. 52
“ Domenica 6 settembre 2009 – Ieri, al mercatino, ho comprato un vecchio libro di Peter Handke, che, probabilissimamente, possiedo già: Breve lettera del lungo addio (1972). Che bel titolo… L’ho comprato per il titolo, per onorarlo, per celebrarlo. Un bel titolo: è sempre meglio di niente. Breve/lungo… Triste/furbo… “.
Non si tratta semplicemente di partecipare o no in un funerale. Non si tratta di “categorie ideologiche”. Peter Handke è un negazionista della PULIZIA ETNICA serba nei Balcani. Per me è come dare il Nobel a un negazionista della shoah. Per questo mi sembra del tutto inadeguato il paragone con il signore anziano e non vedente seduto nel tavolo dei dittatori.
Si possono fare compromessi con i più feroci per salvare la pelle, mentre Peter Handke, con le sue dichiarazioni non rischiava nulla.
Io mi rendo conto della suddivisione tra l’opera artistica e politica, ma un premio – ancor di più uno così prestigioso – è sempre politico. E, infatti, tante Accademie hanno boicottato, ci sono state dimissioni interne e restituzione di Nobel vinti.
“Decise che gli altri non dovevano possedere più storia, poiché lui stesso non ne possedeva una: in questo modo poteva tollerarli, poteva vederli veramente e avere desiderio di descriverli. Solo dal momento in cui loro non avevano più storia cominciavano a contare, liberati da ogni carattere aneddotico che rischiava di comprometterli e allora il panorama si espandeva attorno (la mia origine senza origine mi impedirà di scrivere un ‘testo’, una ‘story’ uno ‘ studio di costumi’, una ‘introspezione’ e pure una ‘poesia’ ; d’accordo, ma dunque cosa ? Un racconto che trasformi il vuoto in una fonte durevole di energia).”
Peter Handke, Die Geschichte des Bleistifts, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985, p. 16
“ Senza data [1981] – Handke scrive « ininterrottamente ». È il nulla dies sine linea di D’Annunzio? Piuttosto penso a quei disturbati mentali, vecchiette, pensionati, ma da qualche tempo anche ragazzi e ragazze, che scrivono dappertutto, su quaderni, notes, agende e dappertutto, su treni, scalini, giardini. Quasi sempre all’aperto, come se un pensiero li avesse sorpresi nel mezzo di una passeggiata, di un vagabondaggio. Pensieri, va detto, oziosi. “
“Ieri, domenica sera 12 ottobre 2014, ho ‘incontrato’ una speciale bellezza, non mi è ‘venuta incontro’ come NEFERTITI, eppure appena mi è venuta incontro mi ha commosso istantaneamente come bellezza. Ero salito sul treno locale a destinazione Versailles e nel vagone con me quasi vuoto, erano seduti tre uomini abbastanza giovani. E leggevano tutti e tre. E ciascuno di loro leggeva un libro ed era un libro serio. Era – bellezza dei libri e dei tre lettori – la seria, e la sempre nuova letteratura. E così nello spazio del vagone si è creato un particolare spazio . E quando, verso mezzanotte, sono tornato con un altro treno, accanto al muro della stazione, era seduto un altro lettore, così luminosamente serio, in attesa dell’ultimo autobus per il distretto di Villacoublay.
Ecco il mio saluto a tutti i lettori seri”.
Peter Handke, Tage und Werke. Begleitschreiben, Suhrkamp Verlag ,Berlin, 2015 p. 11
Quante alate parole, e la stremata idea dell’arte come torre eburnea. Se c’è una cosa che l’arte dovrebbe fare è aiutare ad aprire gli occhi, qui parliamo di un signore che gli occhi li ha chiusi di fronte al genocidio. Però l’importante è capire se li ha chiusi da intellettuale, da scrittore o da viandante. Quale dei tre avrà tenuto l’orazione sul palco del funerale di Milosevic? Vallo a sapere! E l’argomento? Anche altri hanno ucciso e fatto pulizia etnica (ancora oggi Handke non vuole parlare con una madre bosniaca se non è presente anche una madre serba), benché su scala minore e in modo meno efficace. Nobile motivazione! La stessa logica è riproposta nell’articolo: Handke è un negazionista? E la cena di Borges allora? E l’appello non firmato da Garcia Marques allora? E via con la prospettiva radente, il mistero della creazione, la trascendenza del contesto, la sacra autonomia dello scrittore e, dulcis in fundo, la verità storica che non esiste. In fondo anche i Protocolli dei Savi di Sion e Mein Kampf sono letteratura: visto il loro perdurante successo e date le incertezze della storia, cosa impedisce di attribuirgli un Nobel alla carriera? O vogliamo negarglielo solo perché è cattiva letteratura?
“Quanto ho annotato qui, non è destinato soltanto al lettore di lingua tedesca ma è destinato anche al lettore della Slovenia, della Croazia, della Bosnia o della Serbia; attraverso la deviazione, attraverso la conservazione di dettagli secondari, assai più durevoli del martellamento dei fatti essenziali, si risveglia questa memoria comune, si risveglia questa infanzia comune. […]
(O semplicemente deviare dalle nostre chiacchiere, prigioniere della storia e dell’attualità, rivolti ad un presente più fecondo: ‘Guarda, nevica. Guarda i bambini che giocano laggiù’. L’arte della deviazione, l’arte come essenziale deviazione)”.
Peter Handke, Eine winterliche Reise zu den Flüssen Donau, Save, Morawa und Drina oder Gerechtigkeit für Serbien, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996. p. 134-5