di Cristiano Poletti e Fabio Pusterla (introduzione di Francesco Ottonello)
[Nel 2018 e nel 2019, a Milano, sono state condotte le due edizioni della rassegna MediumPoesia: Poesia e Contemporaneo, organizzate da Lampioni Aerei, con la partecipazione dell’omonimo progetto MediumPoesia. L’idea era portare i poeti viventi a dialogo, tra loro e con noi (del gruppo studentesco dell’Università degli Studi di Milano, ora Associazione, Lampioni Aerei) sulla complessità del contemporaneo, con un’attenzione ai nuovi media e al fare poetico. I primi poeti chiamati a dialogo sono stati Cristiano Poletti e Fabio Pusterla – con i relatori Francesco Ottonello e Michele Milani – in un incontro dal titolo Strumenti critici e diffusione della poesia.
Quello che segue è un estratto di una trascrizione di un dialogo viva vox, improntato al momento, intorno al tema “Poesia e Contemporaneo”. Per altro, fino a esaurimento copie, ci sarà la possibilità di ricevere Poesia e Contemporaneo vol. 1. A dialogo con i poeti contemporanei, durante la serata di raccolta fondi, La parola insorge, del 12 dicembre presso Campus Cafè (via Festa del Perdono 12).
Il volume si apre con due incontri di ampio respiro, in un confronto intergenerazionale: quello tra Cristiano Poletti e Fabio Pusterla (Strumenti critici e diffusione della poesia, I edizione) e quello tra Franco Buffoni e Guido Mazzoni (Poesia e critica del mondo, II edizione). Successivamente, troverete dei dialoghi con tre ospiti a incontro, poeti delle ultime generazioni, in un dibattito sulla possibilità di fare poesia nel nostro tempo: Tommaso Di Dio, Franca Mancinelli, Giuseppe Nibali (Prospettive nuove della poesia, I edizione) e Gabriele Galloni, Giulia Martini, Giovanna Cristina Vivinetto (Poeti degli anni Novanta, II edizione). In conclusione, un incontro tra due diverse generazioni, intorno al macrotema dell’oralità in poesia, con i poeti Umberto Fiori e Julian Zhara (Poesia, musica e performance, I edizione). La nostra volontà non era di condurre presentazioni stantie e statiche di libri, autoreferenziali sulla poesia, ma di fornire stimoli e provocazioni per riflettere, dialogare, incontrarsi – e anche scontrarsi – attraverso la parola e nella parola. Nel successivo volume, invece, troverete i seguenti dialoghi: La poesia di oggi: introduzione (Lorenzo Cardilli e Paolo Giovannetti), Poesia e identità (Maria Borio, Marco Corsi, Massimo Gezzi), Poesia tra dimensione drammaturgica e teatro (Franco Buffoni, Vincenzo Frungillo), Poesia, stile e cura (Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi), Poesia tra avanguardia e transmedialità (Biagio Cepollaro, Italo Testa).
Ci tengo a ringraziare i tanti ragazzi di Lampioni Aerei che, con la loro passione, hanno lavorato a titolo gratuito per realizzare le trascrizioni degli incontri fino a giungere alla forma libro e alla sua pubblicazione (Francesco Ottonello)].
Francesco Ottonello: Inizierei con delle domande preliminari su “Poesia e Contemporaneo”, a partire da una citazione. Il filosofo Giorgio Agamben, in Che cos’è il contemporaneo? (Nottetempo, 2007), scrive: «Contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda, e non cessa di interrogarlo, contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo». Vorrei chiedervi: cosa significa per voi essere contemporanei e, nello specifico, poeti nel contemporaneo?
Cristiano Poletti: Sembra fatto apposta. Prima, al bar, quando abbiamo preso due Cynar (uno a testa) dicevo a Fabio: “guarda, ieri sul tema del contemporaneo rileggevo Che cos’è il contemporaneo? di Giorgio Agamben”. Voi direte: “si sono messi d’accordo”. No, non è così. Perché questo testo mi era stato suggerito a suo tempo da Damiano Scaramella, che è un bravo poeta romano di stanza a Milano. E allora io ho riflettuto e ho ripreso quel bellissimo testo e ho trovato alcune cose che andavano a comporsi benissimo con quello che io penso e che adesso vorrei cercare di dirvi. Agamben parla di una necessaria discronia, di una distanza temporale. Come se dovessimo dire che occorre non essere alla moda per essere alla moda, questa è un po’ l’aporia filosofica, il paradosso. Parla di un presente che può essere letto solo da dentro il buio dell’inattualità. Occorre non essere attuale. Io su questo mi sono interrogato e dissento. Quello che è attuale è quello che è “in atto”. E quello che Agamben chiama arcaico – adesso sembra che stiamo a fare una piccola lezioncina di filosofia, ma è fondamentale questo nodo, almeno per me – quello che lui chiama il presente come un’archeologia, per cui è l’arcaico che è da cercare dentro il presente, per me, in verità, è l’originario. Quindi se devo pensare alla poesia che mi strega, che mi chiama in gioco, che mi interessa, non parlerei tanto di originalità, ma di originarietà. Per me questo è attuale, è in atto. Ciò che originario è sempre in atto. Cos’è che è originario? Il miracolo della voce. Certo, bisogna porsi questo come obiettivo, averne una, riconoscerne una, criticamente parlando. E quella per me è voce e vocazione. La parola vocazione non è solo ex vocare, chiamare fuori, evocare. La vocazione, la chiamata, per me è anche azione della voce, messa in atto della voce. Ecco, per me questa è l’attualità, quando c’è una voce che si richiama sempre all’origine, all’originarietà come a una sorgente. E per me comunque è un abbandono, che contiene la parola dono, il dono della fede: per me viene da Dio. Io sono credente, questo mi sento di dire oggi. Mi viene in mente Wallace Stevens, grande poeta americano, che spiegava come la più grande idea poetica del mondo è, ed è sempre stata, l’idea di Dio. E non lo dico in modo così convinto, lo dico in mondo tremante e tremendo, terrestre e terribile, ma lo dico con tutto l’abbandono “preghieroso” – per inventare questa parola un po’ brutta. Per me contemporaneo è ciò che riesce a portare alla luce una parola autentica, originaria.
Fabio Pusterla: La domanda è una domanda difficile, ed è posta in maniera difficile, con le parole di Agamben, che sicuramente è un autore interessantissimo, importante, che ogni tanto parla come se fosse un poeta. E in effetti le parole che abbiamo sentito sono fascinose e sfuggenti. Mi verrebbe quasi voglia di dire, provocatoriamente: contemporanei? Ma certo viviamo nell’oggi, ci mancherebbe altro che non fossimo contemporanei. Forse non c’è poi così bisogno di scomodare le grandi metafore, l’impatto col buio. In realtà credo che Agamben dica qualcosa di importante. Dicevo, viviamo nel nostro tempo. Io credo che la dimensione del tempo, cioè la dimensione della memoria e della storia, debbano essere considerate con attenzione e non facilmente eliminate. Le elimina facilmente, per esempio, un filone della cultura degli ultimi decenni, con il quale non mi trovo particolarmente a mio agio. È una cultura, uno sguardo critico, che viene sostanzialmente dall’America, e che va sotto il nome di Postmoderno. A me non piace questa categoria, o perlomeno non mi piacciono alcune delle sue declinazioni. Come se, mi pare d’aver letto in alcuni saggi, questa idea di Postmoderno volesse dire che siamo oltre tutto ciò che è la modernità, diciamo, tutto quello che, dalla fine del Settecento agli anni Sessanta, ha prodotto nel mondo occidentale e che questo significasse una libertà totale di mixaggio degli elementi. Io non credo che questo sia giusto né particolarmente auspicabile. Temo che dietro ci sia una sottovalutazione della categoria del tempo e della memoria. Commette lo stesso errore chi parla con eccesso metaforico del tempo. Quando ero studente a Pavia – a Pavia, come in tutte le università ci sono piccole tradizioni, a volte un po’ ridicole – alla facoltà di Lettere c’era la voce che non bisogna nominare il nome di Torquato Tasso, perché porta male. C’è qualche ragione: una serie di studiosi che si sono occupati del Tasso e che sono finiti malissimo (infarti, divorzi, uno anche in galera). Sia pure sorridendo, si evitava di farne il nome. E un giorno è arrivato un poeta allora molto in auge, di cui non farò il nome, che si alzò in piedi, e disse alla sala gremita “cos’è il tempo, il tempo per un poeta non è nulla e io posso sentirmi contemporaneo del Tasso”, e ci fu una risata omerica che lo spiazzò completamente. Noi siamo contemporanei del Tasso e allo stesso tempo viviamo nell’oggi. Allora che cos’è il contemporaneo? Farò due esempi. Ieri sera leggevo il racconto di una giovanissima studentessa, si chiama Lucrezia Fontanelli (ma non la conosce nessuno, ha ventidue-ventitré anni), che certamente parte da una sua dolorosa esperienza di vita. Ma leggendolo mi è parso che quel testo parlasse di qualcosa che va ben al di là della dimensione soggettiva dell’autrice e che riguarda il nostro stato d’animo, qualsiasi sia la nostra età. La condizione esistenziale d’oggi, dominata almeno in parte dalla difficoltà e dallo spaesamento, dalla difficoltà di guardare con un po’ di fiducia il futuro, mi pare l’esempio di una voce che, come diceva Cristiano, è riconoscibile, originale e originaria, ma che non è prigioniera di se stessa, che parla – non lo direi mai di me, ma posso dirlo di altri – che parla per tutti. L’altro esempio che avrei voluto fare è quello di un grande poeta, Andrea Zanzotto. Proprio quando si pensa a queste dimensioni mi viene da pensare a lui sempre più spesso. Il presente di Zanzotto – lo sanno tutti quelli che l’hanno letto – è un presente stratificato, è un presente assolutamente contemporaneo, in cui però emergono costantemente sotto forma di tracce, detriti, insensatezze, i frammenti del passato. E a me sembra che questo sia il mio, forse posso dire il nostro, rapporto con la tradizione, che continua a esistere forte, indissolubile dietro le nostre spalle e dentro il linguaggio che usiamo – le parole che usiamo le hanno usate prima di noi – e tuttavia siamo anche molto coscienti di una frattura che è avvenuta e che ci impedisce di essere esattamente in sintonia con la grande tradizione che abbiamo alle spalle. E queste due cose non sono in contraddizione, coesistono in maniera strana. Del resto, uno dei versi credo fondativi della modernità, almeno poetica, l’ha scritto Hölderlin, in una poesia famosa di cui si è molto occupato Heidegger, la poesia si intitola Andenken. In italiano bisognerebbe dire “ricordanza”: non è esattamente il ricordo, è l’atto del ricordare. In questa poesia, dopo aver riattraversato, in maniera un poco enigmatica, le esperienze maggiori della sua vita, disegnandone grosso modo il fallimento, arriva all’ultimo verso davvero enigmatico, che dice, in tedesco, «Was bleibet aber, stiften die Dichter». Alla lettera, «Quello che rimane, tuttavia, fondano i poeti», che in realtà è un’ambiguità. In che senso i poeti fondano quello che rimane? Fondano ciò che è destinato a rimanere, a eternarsi nella poesia? Oppure fondano su ciò che rimane, sulle macerie di un mondo distrutto? In un modo o nell’altro, quel verso scritto nel 1802 o 1803, se ricordo bene, mi sembra estremamente contemporaneo e risponde a ciò che suggerivo poco fa.
Michele Milani: Viviamo in un mondo in cui ormai c’è un netto predominio dei nuovi media (televisione, cinema, musica, web 2.0) e viviamo in un periodo in cui assistiamo sempre di più al radicarsi dei loro modelli culturali. Guido Mazzoni, ad esempio, parla della mancanza di rispetto che questa cultura mediatica esercita su tutti gli altri modelli culturali. Quindi la mia domanda è: sentite che oggi la poesia, la poesia contemporanea, ne rimanga influenzata? E in che modo? E voi in che modo vi ponete di fronte a questo cambiamento culturale, a questo specifico periodo?
Cristiano Poletti: La domanda è giusta e pertinente. Ma la risposta è alquanto difficile, per quello che mi riguarda. A proposito di Andrea Zanzotto – giusto per riprendere quello che diceva poco fa Fabio Pusterla – so che aveva una grande curiosità per i mezzi del presente, per i pixel, e credeva che la poesia potesse essere quell’arte, quella composizione veloce, concentrata. Io ho sempre l’impressione che quello che conti davvero sia la pagina, non la pagina in quanto carta, quello che conta sono i testi. Che poi i testi passino in modo dignitoso attraverso il mare magnum di Facebook e internet, che qualcuno li intercetti e gli possano piacere, che li possa toccare… il collegamento che puoi fare attraverso il motore di ricerca Google è preziosissimo. In questo momento io sto scrivendo una cosa su Aldo Moro (sempre per dire che è bene distanziarsi dal presente, ma d’altronde quella figura ha un lascito con la modernità), perciò sono andato a riascoltarmi la telefonata di Valerio Morucci, che telefonava al professore Franco Tritto per comunicargli dove la famiglia avrebbe potuto trovare il corpo di Moro: «Lei dovrebbe portare un’ultima ambasciata e la famiglia potrà trovare il corpo dell’onorevole Moro». E con Fabio prima pensavamo: tu lo puoi riascoltare un milione di volte. Ti fermi, torni indietro, sul telefono, perché poi quando Tritto non capisce, dicendo «scusi, ma chi è?», Morucci fa prima un sospiro e poi risponde: «Brigate Rosse». C’è questa specie di sfogo, che si dovrebbe poter studiare. È già un mondo lì, è già un mondo sonoro dentro. E voi, capite, anche solo la possibilità di poter mettere insieme tutto questo… Poi vado a cercare e vedo che oggi è consulente informatico, con libertà condizionata. Vado a vedere se c’è qualche intervista, lo voglio ascoltare, lo voglio vedere. Queste possibilità sono fondamentali anche per un poeta. E, per rispondere all’altra domanda: sì, perché non entrare in dialogo con queste forme, come il cinema? Credo che molte poesie possano partire da una fotografia. Sì, sono cambiati i mezzi, ma io credo che poi alla fine l’indole di quello che si va scrivendo non cambi. Io posso relazionarmi con l’ultimo film che ha vinto l’Oscar come con il Settimo Sigillo di Bergman.
Fabio Pusterla: Credo sia un’opportunità affascinante quella che i nuovi media ci offrono. Anch’io uso il computer. Lo uso anche per usufruire di queste connessioni velocissime. Mi piace anche molto scrivere sulla tastiera. Non avrei mai pensato di farlo, ma vedere le parole che salgono su velocemente come pesciolini nell’acqua mi sembra una cosa affascinante, non mi fa nessuna paura. Però la domanda alludeva ad un’altra cosa, cioè all’influsso nefasto che avrebbe questo nuovo linguaggio mediatico. Sicuramente è così, Mazzoni ha ragione. Però io non ho l’impressione, per quello che posso vedere, che per il momento tutto questo tocchi particolarmente il linguaggio della poesia, né in chi scrive né in chi legge. Bisogna anche dire che la poesia ha una bolla di sopravvivenza piccola, ma proprio per questo abbastanza solida. Non credo che siamo particolarmente devastati da questa specie di orrore, di mancanza di rispetto. Penso piuttosto che tutto questo vada posto su una dimensione più ampia, che non riguarda più soltanto il computer, la televisione, i media, ma quello che Pasolini, per esempio, avvertiva come il grande mutamento antropologico. Mi pare che lui usasse la distinzione un po’ manichea tra la lunghissima durata di quella che chiamava “era del pane” (cioè l’età che è stata, per secoli e forse per millenni, la condizione di vita dell’umanità dominata dai bisogni primari, come il pane); dentro a questa età dei bisogni primari, diceva Pasolini, la necessità del pane rendeva necessaria e utile la nostra vita. L’età del pane è finita da un pezzo ed è stata sostituita dall’“età della merce”: è questa l’età in cui noi oggi ci troviamo, non c’è dubbio. E nell’età della merce, in cui tutto è merce, lo siamo anche noi. E la nostra vita ci sembra molto meno sensata e utile di prima. In questa nuova condizione, di cui naturalmente fanno parte i nuovi linguaggi, a me sembra che la condizione di asfissia e di solitudine delle persone, quindi il loro bisogno di una parola che ci riconduca alle profondità che stanno dentro di noi, sia paradossalmente aumentato. E in questo senso, se le condizioni esterne sembrano più avverse di quanto non lo fossero in passato, nello stesso tempo sono invece quasi più favorevoli alla sopravvivenza, alla permanenza, al bisogno che c’è di quella cosa che chiamiamo “poesia”, di parola. Dunque, non vorrei sembrare troppo ottimista, ma penso davvero che sia così.
Francesco Ottonello: Vorrei insistere su un ultimo punto. Esiste un bisogno di poesia? Questo bisogno di poesia può essere alimentato attraverso altri media? Si usa il termine “poetico” a volte generalmente, a proposito di qualcos’altro (di un film, di una canzone, per esempio), quindi oggi che cosa si può intendere per “poetico”? Forse ci si rivolge ad un bisogno diverso rispetto a quello della poesia? Oppure non è così?
Cristiano Poletti: Sì, hai fatto bene a sottolineare questo aspetto del “poetico”. Prima ho citato Bergman. Quando morì Bergman, un titolo recitava così: «Il cinema ha perso la sua anima». Qualche altro titolo diceva: «Il poeta del cinema» e così via. C’è sempre il “poeta” di qualcosa.. Quante canzoni (per esempio Amerigo di Guccini, che so essere molto cara a Pusterla) hanno una capacità evocativa, poetica. La poesia è un’arte, quindi la poesia non è che deve occuparsi del poetico, deve essere poesia, o deve tentare di esserlo. Zanzotto dice: «parlo in questa lingua che passerà». Tutta la lontananza che sta dentro a questo giro di parole… c’è il suono, il ritmo, ci sono le immagini. Io credo che fondamentalmente sia ineludibile il significato poetico che noi cerchiamo nella nostra stessa vita, ma il paesaggio che noi cerchiamo di essere – Proust diceva «a me interessa il paesaggio che c’è in quella donna» – questo è il poetico. Noi evidentemente cerchiamo una profondità, il peso specifico delle parole, come queste parole finiscono a mettere insieme, a riunire quello che ci sembrava perduto o ad avvicinarcelo. Io penso che questo sia ineludibile. Poi ovviamente la poesia è l’arte, ma la poesia è evidentemente nella vita. Ed essendo nella vita non può che essere vita.
Fabio Pusterla: Anch’io penso che non ci sia alcuna difficoltà ad usare il termine “poetico” o “poesia” in senso approssimativo, a proposito della poesia di un film o di qualcosa del genere. Bisogna riconoscere che quel bisogno di poesia di cui parlavamo molto spesso trova una sua risposta (soprattutto nei giovani, penso ai molto giovani) in zone che non intendono la poesia in senso tradizionale, in altre forme di espressione artistica, per esempio la più ovvia da dire è la canzone. La canzone d’autore. Fernanda Pivano, una delle grandi figure della storia della poesia europea del Novecento, la traduttrice della Beat Generation, e prima ancora di Spoon River, ha detto più volte: «secondo me oggi i veri poeti sono i cantautori». Io penso che avesse torto. E che avesse ragione contemporaneamente. Aveva ragione, se il discorso è: in che modo un vasto pubblico di giovani e di potenziali lettori avvertono in sé e credono di soddisfare il loro bisogno di poesia? Lo fanno ascoltando De Andrè, De Gregori, Guccini e tanti altri. Questo è un dato di fatto inoppugnabile. Però aveva torto, secondo me, confondendo troppo i linguaggi. Io sono (e sono stato) un grande ascoltatore e amante di alcuni cantautori. Forse quello che ho amato di più e con cui sono a lungo cresciuto è De Andrè, che è anche uno di quelli la cui testualità è forse più vicina a ciò che noi di solito chiamiamo “poesia”. Ma se io penso ad una canzone di De Andrè, o meglio a un testo di De Andrè, posso sforzarmi e quasi riuscire a dimenticare la musica che lo accompagnava, ma non riesco assolutamente a fare astrazione dalla voce che cantava quel testo. Ma se riuscissi, se togliessi la musica e mettessi la voce e vedessi il nudo testo sulla pagina come vedo una poesia di Eugenio Montale o di Andrea Zanzotto o di Cristiano Poletti, otto volte su dieci dovrei dire che quel testo è debole. Mentre diventa fortissimo con la voce e musica insieme, con le quali dialoga. Allora, ciò che capita al lettore di poesia, solo, di fronte alla nuda pagina è qualcosa di profondamente diverso, ed è ciò che capita a chi ascolta una canzone. Io non ho mai sentito la voce di Leopardi, ma di fronte ad un testo di Leopardi non c’è dubbio che questo processo di messa in gioco del testo, ma anche del lettore, sia profondissimo e dura nel tempo. A me sembra più di quanto duri, in maniera diversa, l’ascolto di De Andrè o di Bob Dylan, dei quali ho il massimo rispetto.
Link utili:
https://www.lampioniaerei.it/2019/03/07/strumenti-critici-e-diffusione-della-poesia/
https://www.lampioniaerei.it/evento/la-parola-insorge-raccolta-fondi/
https://www.lampioniaerei.it/2019/11/27/poesia-e-contemporaneo-volume-1/
[Immagine: © Uta Barth, …and to draw a bright, white line with light (2011) (mge)].