[Zurita. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita, uscito qualche settimana fa, è l’ultima pubblicazione, in ordine di tempo, della collana di poesia “Caratteri”, curata da Paolo Maccari e Valerio Nardoni per Valigie Rosse. Naturale prosecuzione del lavoro inaugurato, nel 2010, con l’istituzione del Premio Ciampi per la poesia, la collana è dedicata ad autori italiani (già pubblicati Fabrizio Dall’Aglio, Marco Simonelli e Luciano Mazziotta) e stranieri (con l’antologia di sonetti di Luis de Camões tradotta da Federico Bertolazzi, e la videoantologia della poesia spagnola contemporanea a cura di Valerio Nardoni).
Zurita. Quattro poemi è una selezione antologica dell’opera di Zurita – poeta che ha ricevuto numerosi premi internazionali: tra gli ultimi, il Premio Iberoamericano de Poesía Pablo Neruda, nel 2016, e il Premio Alberto Dubito International, nel 2018 – ideata dall’autore stesso e tradotta dal poeta Alberto Masala, per la cura di Lorenzo Mari. Si propone qui l’introduzione, in versione integrale].
Lorenzo Mari
Sì, dice… (Zurita!)
Dopo la traduzione italiana di alcuni volumi sparsi nel corso degli ultimi venticinque anni[i], l’opera del poeta e artista visuale cileno Raúl Zurita si propone ora al pubblico italiano in una speciale selezione antologica, realizzata dall’autore stesso, che permette di esplorare alcuni momenti cruciali della sua produzione letteraria e allo stesso tempo di ripercorrere alcuni snodi della sua ricca vicenda biografica, fortemente intrecciata alle sorti del suo paese in seguito all’arresto e la tortura subiti dal poeta dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet.
Il libro si apre con la sezione LVB, acronimo di Ludwig van Beethoven, soprannome affibbiato a un internato dei campi di prigionia del quale Zurita offre un’alta testimonianza poetica. A seguire, si aprono Le cateratte del Pacifico, visione sublime della Natura che, al tempo stesso, resta indissolubilmente legata anche alla fine tragica dei desaparecidos. La terza sezione è dedicata invece ai Barcaioli della notte, che svolgono le funzioni del Caronte dantesco, portando il lettore verso la visione finale del Canto al suo amore scomparso, l’immenso cimitero latinoamericano e mondiale nel quale Zurita stesso si confronta, a tutti i livelli, con l’ingiunzione etica, politica e letteraria, a dar conto delle migliaia di vite desaparecidas.
In particolare, si ritroverà qui, in tutta la complessità della sua elaborazione, uno dei suoi temi fondamentali, ovvero la riflessione sullo statuto della parola poetica durante e dopo la repressione pinochetista, come particolare declinazione del sintagma adorniano «la poesia dopo Auschwitz» (mancante qui, in modo sintomatico, di una precisa collocazione spaziale, nel caso del massacro dei desaparecidos cileni).
D’altronde, come ha osservato Miguel Alvarado Borgoño, Paul Celan, la cui opera risulta tradizionalmente associata al commento di Adorno, e Raúl Zurita presentano più di un’affinità, a partire da una comune, ed estremamente paradossale, «esplosione di metafore» (metapherngestoben, nel testo di Celan citato dallo studioso cileno, con l’uso di una parola che non sembra avere possibili equivalenti nelle lingue romanze)[ii]. Quest’ultima è agita e al tempo stesso sofferta, nelle carni e nella parola, dal poeta che, nella propria esperienza della storia, si trova a dover fare i conti con un trauma individuale e collettivo di portata immane.
Benché nel caso di Zurita si tratti più specificamente di un’esplosione allegorica e non metaforica, si può comunque osservare come in entrambe le scritture si verifichi un’oscillazione potente e rapsodica tra due polarità – la manifestazione della rigogliosità del linguaggio e quella della sua scarnificazione[iii] – che mira, in ultima istanza, a porre le basi per una rifondazione, o riarticolazione, del linguaggio stesso.
Tale fenomeno è visibile fin dentro il singolo stilema: nelle Cataratas del Pacífico, seconda sezione di questa selezione antologica, alla monumentalità paesaggistica delle “immani cateratte del Pacifico” è associato un verbo di viva e quasi dilaniante espressività. E il “mugghiare” della traduzione viene certo a corroborare la maestosità della scena, ma nasconde anche, nel riferimento animale, una relazione profonda con l’originale bramar, ossia con un bramito che squarcia il verso, dilaniandolo.
A guidare questo esercizio di lettura è L’odio della musica di Pascal Quignard, che non a caso è un’esplorazione profonda del rapporto tra musica e terrore: «Il bramito è il rimpianto del canto degli uomini. La muta vocale dei ragazzi non può superarne la profondità e la violenza paralizzante. Per l’uomo, il bramito è il canto impossibile. Fu il canto identitario ed è al contempo il canto inimitabile affidato al segreto invisibile della foresta»[iv].
Tornare a quel canto è un’impresa antropologicamente impossibile. Ne è un esempio certamente rilevante anche LVB, sigla che riprende le iniziali di Ludwig Van Beethoven nell’ambito di una paradossale assenza-presenza della sua musica: vi si legge, infatti, di un prigioniero della repressione pinochetista che dirige orchestre fantasmatiche davanti ai suoi aguzzini, mentre si nega, in prima persona, a cantare (svelando, così, la propria posizione politica rispetto al regime, nonché normalizzando e neutralizzando il proprio comportamento, apparentemente patologico e in realtà intrinsecamente sovversivo).
A questo proposito, se di personaggi si può parlare, è perché un’altra dimensione ricorrente in queste quattro sillogi è quella della narrazione, spesso giocata in modo polifonico e spiazzante, di una storia costretta in molti modi al silenzio. Allegorismo e narratività, senza rinunciare per questo ad alcuni squarci su una possibilità di sublime, caratterizzano, in fondo, la ricerca del poeta. Lemma, questo, che può generare, e in effetti genera, infiniti dibattiti nell’ambito della poesia o post-poesia contemporanea, ma che in Zurita si avvale di un percorso particolarmente chiaro e riconoscibile: la ricerca linguistica e formale si radica e trova legittimazione in un altro tipo di ricerca, determinata da una storia politica che è sia individuale che collettiva.
Di questo secondo livello della ricerca è eticamente e politicamente irrinunciabile definire il mandato, che è chiaramente esplicitato all’inizio di Canto a su amor desaparecido, con queste parole: «Ahora Zurita – me largó – ya que de puro verso y desgarro te pudiste entrar aquí, en nuestras pesadillas: ¿tú puedes decirme donde está mi hijo?»[v]. È al poeta stesso – entrato in forza dei suoi versi, ma anche della sua sfacciataggine, nel cuore della tragedia storica dei desaparecidos cileni – che la voce di un genitore chiede di cercare e ritrovare il figlio scomparso. Intimazione, questa, che resta comunque in qualche modo intima, per non venir meno all’etimologia: pur non rivolgendosi all’uomo che, all’anagrafe, risponde al nome completo di «Joan Raúl Zurita Canessa», ma alla parola letteraria che ne è la firma – «Zurita», appunto – si tratta di un appello che non può essere in alcun modo trascurato. Riguarda, d’altronde, l’esperienza biografica dello stesso Zurita come prigioniero politico, per breve tempo, nelle carceri di Pinochet: in questo senso, ogni eventuale simulazione metterebbe in crisi l’autenticità del suo stesso percorso individuale e della sua parola.
Com’è prevedibile, poi, l’inchiesta sul singolo individuo desaparecido è immediatamente superata da un tipo di indagine che è più specifico e più facilmente compatibile con la scrittura poetica: davanti all’enormità di un lutto la cui elaborazione è costantemente interrotta e messa in crisi dall’assenza dei corpi da seppellire e piangere, Canto a su amor desaparecido costruisce uno spazio – dalle sembianze ora di luogo di detenzione, ora di cimitero, ora di Paese, ora di intero continente – dove questo lutto può radicarsi. Spazio immaginario che, tuttavia, è radicalmente trasformato, dalla presenza, sin dal titolo, di Eros: come ha osservato Barbara Fraser-Valencia, Zurita costruisce un vero e proprio «Tao of love»[vi] che aspira a trascendere, senza per questo cancellare o neutralizzare, i fatti umani. Lo spazio paradigmatico di questo inaspettato e spiazzante incontro con Eros sono i nichos, le nicchie del cimitero del Canto. È una necropoli dalle dimensioni continentali, che riguarda tutta l’America del Sud e, non di rado, chiama in causa anche l’America del Nord: le nicchie costituiscono, infatti, anche uno spazio geopolitico nel quale si dipana l’esito tragico del famigerato Plan Condor, frutto della dottrina geopolitica kissingeriana e fattore trainante nel golpe cileno dell’11 settembre 1973.
Questo immaginario cimiteriale, tuttavia, non si limita al periodo della dittatura, risalendo sino ai tempi della colonizzazione ispanica e al massacro delle popolazioni indigene – eliminazione non soltanto fisica, ma anche linguistico-culturale, destinata a restare indelebilmente impressa (poiché legata ad un lutto che non può ancora essere compiutamente elaborato) nella memoria ispanoamericana e nella lingua in cui questa si trasmette. Come osserva lo stesso Zurita nel saggio Poesía y nuevo mundo:
De [Ercilla] en adelante la misión del poeta no será otra que la de darle sepultura, nombre de sociedades que no han querido o podido hacerlo, a toda esa fila interminable de cuerpos que caídos, victimizados, arrasados por y en la lengua que nosotros hablamos continúan deambulando en el eje de nuestro idioma sin encontrar siquiera la sanción de un entierro[vii].
Tuttavia, i nichos si possono anche tradurre come ‘alcove’, ed è così che si rinnova l’attenzione e la passione con la quale Raúl Zurita si è sempre avvicinato all’opera di Dante Alighieri[viii]: non soltanto per rifunzionalizzare la catabasi come operazione in primo luogo memoriale, ma anche per lasciarsi guidare da una forma trascendentale d’amore.
Un simile titanismo estetico, dai tratti, in ogni caso, spiccatamente resistenziali, si ritrova in vari momenti dell’antologia che qui si propone, con riferimento particolare agli scenari grandiosi e talvolta annichilenti delle Cataratas del Pacífico. Tuttavia, il rapporto di Joan Raúl Zurita Canessa/“Zurita” con questo spettacolo della natura che è anche incombenza della morte non configura un soggetto lirico parimenti smisurato, né alcun ritorno di fiamma di un qualche tipo di sensibilità romantica. Sì, dice, sono le ultime parole del Canto a su amor desaparecido, ma non si tratta di un sì che prefigura, agonisticamente, una completa accettazione della sfida della morte o del Male storico, né di un sì nietzscheano. È, piuttosto, la risposta di Joan Raúl Zurita Canessa/“Zurita” al mandato della sua poesia, umanamente preso in carico, con tutto il suo peso di dolore e responsabilità, con uno sguardo tenero e al tempo stesso capace di trascendere i più ristretti orizzonti individuali.
Sì, ha detto anche il traduttore di quest’antologia, Alberto Masala, che anzi ne è stato fin dal primo momento sostenitore e promotore. Non si è trattato solo del legame di amicizia che da qualche anno unisce i due poeti, ma anche di un’affinità profonda tra due esperienze di poesia pubblica, ossia pubblicamente detta e performata, sempre capace di guardare negli occhi il Male della contemporaneità e anche quelo del passato1[ix]. Vincolo di prossimità che è anche di natura specificamente linguistica, se si considera la stretta parentela tra la lingua sarda, già praticata e variamente tradotta in italiano da Masala, e il castigliano, a partire dalla dominazione spagnola sull’isola del diciassettesimo secolo (ultima conquista, tra l’altro, prima di quella del regno sabaudo).
Il libro, che si consegna alla lettura in italiano con testo originale a fronte, reca traccia consistente di questi amori promiscui tra lingue sotterranee e non ufficiali (né ufficializzate dall’atto della traduzione), realizzando, così, nel plurilinguismo uno dei principi di fondo comuni a ogni atto di traduzione.
A queste tracce s’intende, da ultimo, unire la citazione di un testo del poeta e critico Antonio Prete, fra i pochissimi autori italiani a porre un lacerto della poesia di Raúl Zurita in epigrafe a un proprio componimento, nel libro del 2012 Se la pietra fiorisce. «Il rumore del mare / è il compianto dei sommersi»[x], scrive Prete dopo aver ricordato in apertura le parole: El mar se volvía a cerrar sobre ellos («Il mare tornava a chiudersi su di loro»), da Los países muertos di Zurita. Desaparecidos e desaparecidas che qui tornano, nel compianto marino, in quei sommersi che oggi sono gli uomini, le donne e i bambini migranti. Una ragione in più per considerare, nella lettura, non solo l’universalità, ma anche la vicinanza al nostro presente, umana e trascendente, dell’opera di Raúl Zurita.
Note
[i] Si tratta di: Canto de los ríos que se aman (Le parole gelate, Roma, 1994), Purgatorio (Raffaelli, Rimini, 2009) e Desiertos de amor (Squilibri, Roma 2018, con poetry comics di Massimo Giacon e disco di González y los Asistentes).
[ii] M. Alvarado Borgoño, Joan Raúl Zurita, poeta de la compasión y de los desiertos capitales, Hispanic Poetry Review, 12.1, 2016, pp. 52-53.
[iii] Come ricorda il titolo della selezione antologica messicana Mi mejilla es el cielo estrellado (Aldus, 2004), Zurita ha eseguito tale scarnificazione anche sulla propria pelle, sfregiandosi la guancia con un ferro rovente nel maggio 1975, poco dopo l’esperienza di detenzione ad opera della polizia cilena.
[iv] P. Quignard, L’odio della musica, EDT, Roma, 2015 [1996], p. 43.
[v] «E dunque Zurita – mi apostrofò – dato che solo per i versi e la sfacciataggine sei potuto entrare qui, nei nostri incubi: puoi dirmi dov’è mio figlio?» (tr. A. Masala).
[vi] B. Fraser-Valencia, Eros, Mourning, and Transcendence in Raúl Zurita’s Canto a su amor desaparecido, Canadian Journal of Latin American and Caribbean Studies, 39, 2014, pp. 282-298.
[vii] In traduzione di servizio: «Da [Ercilla] in avanti la missione del poeta non sarà altro che quella di dare sepoltura, in nome di società che non hanno inteso o potuto farlo, a tutta quella serie interminabile di corpi che, una volta caduti, diventati vittime, fatti tabula rasa dalla e attraverso la lingua che noi parliamo, continuano a deambulare intorno all’asse della nostra lingua senza trovare neanche la sanzione delle esequie». Cfr. R. Zurita, Países muertos, Libros de la Resistencia, Madrid, 2014, p. 21.
[viii] Se non è possibile pensare ai Boteros de la noche senza evocare la traversata infernale dell’Acheronte, i luoghi danteschi, nella produzione di Zurita, sono molto più numerosi, come si può osservare nella lettura delle sue opere poetiche fondamentali – Purgatorio (1979) e Anteparaíso (1982) – insieme alla successiva Vida nueva (1994), già titolo di una performance realizzata nel cielo di New York il 2 giugno 1982.
[ix] Si veda, a titolo di esempio, A. Masala, TALIBAN. I trentadue precetti per le donne, ETL, Bologna, 2007 (libro bilingue italiano-inglese, con le traduzioni di Jack Hirschman e Raffaella Marzano).
[x] A. Prete, Se la pietra fiorisce, Donzelli, Roma, 2012, p. 25. In entrambi gli autori è evidente il calco dantesco, dal verso: “infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso” (Inf., XXVI, v. 142).
Paul Celan nn fa mai deportato in nessun campo di concentramento. Lui restò nel ghetto i genitori morirono nei transiti nei campi cosa che lui mai si perdonò di nn averli fermati nascondendoli. [cosa tra l’altrò che amplificò il suo ultimo letto: la senna]
giorgio stella
Grazie per la precisazione: in effetti, si tratta di una leggerezza effettivamente commessa al riguardo.