Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
I Fridays for Future in Italia e nel mondo

di Giulia Arrighetti, Emanuele Leonardi e Federico Scirchio

 

Qualche mese fa, alla vigilia del secondo sciopero climatico globale del 24 maggio, uno di noi scrisse una breve analisi sullo stato di salute del governo climatico globale (il cosiddetto sistema delle COP – conferenze delle parti) e delle prospettive a breve-medio termine dei movimenti per la giustizia climatica (Fridays for Future, Extinction Rebellion, comitati contrari alle grandi opere inutili e dannose, Gilets Gialli “ecologisti”). Ora, con ancora negli occhi la marea umana – oltre mezzo milione di persone – che si è presa le piazze di Madrid per ribadire l’insufficienza delle ricette in discussione alla COP 25 (poi fallita miseramente, come non era difficie prevedere) – proviamo a fare un bilancio delle ipotesi di ricerca avanzate a sei mesi fa, a ragionare sullo sviluppo dei Fridays for Future in Italia – sulle ricchezze di questa esperienza, ma anche sui suoi limiti – e infine a indicare alcuni nodi problematici che a nostro avviso influenzeranno il percorso del movimento nel 2020. Certo, parlare di “bilancio” a un semestre di distanza dallo scritto di partenza può sembrare eccessivo: si tenga conto, tuttavia, che in questi duecento giorni scarsi si sono succeduti eventi di enorme portata: l’Amazzonia che va a fuoco (o: la crisi climatica invade il G7 di Biarritz); Greta Thunberg che attraversa l’Atlantico, snobba l’establishment del Partito Democratico e s’incontra con Naomi Klein e Alexandria Ocasio-Cortez (promotrici del Green New Deal) per poi pronunciare l’ormai noto “How dare you?” [come osate?] al Palazzo di Vetro; il terzo, immenso sciopero climatico globale del 27 settembre e poi il quarto, ridotto nei numeri ma approfondito in radicalità, del 29 novembre. Infine, pochi giorni fa, la già citata folla oceanica che ha invaso Madrid e la resa incondizionata della governance climata guidata dall’ONU.

 

L’idea alla base dell’articolo intitolato “Verso il secondo sciopero globale per il clima” si sviluppava in tre passaggi, che riletti oggi appaiono rafforzati:

1) Il sistema delle COP è stato egemonizzato da una scommessa teorica al tempo stesso elegante (ai limiti della genialità) e rischiosa (ai limiti dell’incoscienza): la green economy. Il ragionamento è semplice: si tratta di trasformare ciò che fino a quel momento era stato percepito come una crisi del capitale (il danno ecologico) in una crisi per il capitale (il green business). In termini climatici, si tratta della convinzione che benché il riscaldamento globale sia da concepirsi come un fallimento del mercato – storicamente incapace di contabilizzare le esternalità negative (in questo caso le emissioni di anidride carbonica) – a esso si possa porre rimedio solo per mezzo di un’ulteriore ondata di mercatizzazione. Tale mercatizzazione – che rappresenta il filo rosso che lega il Protocollo di Kyoto (1997) all’Accordo di Parigi (2015) – può assumere la forma del ‘dare un prezzo alla natura’ (trasformata da base materiale della riproduzione biosferica in capitale naturale) oppure quella di nuove merci da scambiare su mercati esclusivamente dedicati (si pensi ai permessi/crediti di emissione).

 

2) Dopo quasi quindici anni di implementazione (il Protocollo di Kyoto è stato ratificato nel 2005), la COP 24 di Katowice ha certificato la fine del sistema delle COP (per come l’avevamo conosciuto fino ad allora). La green economy in cui affondava le radici si è dimostrata una scommessa persa: si era certi che si potesse stabilire una proporzionalità inversa tra profitti (in ascesa) ed emissioni di gas climalteranti (in calo); ci si è dovuti accontentare e prendere atto che se da un lato i profitti non sono mancati (sebbene in quantità ridotte rispetto alle aspettative, e soprattutto in forma esclusivamente finanziaria), dall’altro le emissioni non hanno cessato di aumentare (come certificato poche settimane fa dalla World Meteorological Organization, nel 2018 la concentrazione di CO2-equivalenti in atmosfera ha raggiunto la cifra record di 407,8 parti per milione – nel 1997 era 362,5; nel 1958 era 313,3). La consapevolezza di questo malfunzionamento ha minato alla base l’egemonia di quello che Nancy Fraser ha definito neoliberalismo progressista – un’agenda politica orientata al riconoscimento dei diritti individuali attraverso la centralità del mercato, vale a dire attraverso una redistribuzione della ricchezza e del reddito verso l’alto. Non è un caso che i volti più noti e amati nella storia del sistema delle COP siano stati americani e democratici: Al Gore (in nome di Bill Clinton) e Todd Stern (in nome di Barack Obama). Non è casuale nemmeno che il volto corrucciato del campione del neoliberalismo progressista post-COP 24 sia quello di Macron, azzoppato dalla convergenza sempre più pronunciata tra Gilets Gialli ed Extinction Rebellion in Francia. Sullo sfondo della crisi di questa opzione di governo, a Katowice sono emerse due risposte diametralmente opposte: ricorrendo nuovamente alla terminologia proposta da Fraser, si tratta di un populismo reazionario, scettico sull’origine antropica del riscaldamento globale, guidato da Donald Trump e composto da un buon numero di Paesi fortemente legati all’industria fossile, o brown economy (due nomi su tutti: Jair Bolsonaro e Vladimir Putin – ma non vanno dimenticate le monarchie del Golfo); e di un populismo progressista, incarnato dalla strategia delegittimante di Greta Thunberg.

 

3) A un anno di distanza dalla cesura della COP 24, del fronte negazionista si può registrare la costanza: al netto di alcune acquisizioni tutt’altro che banali (Australia, Canada), la strategia prevede sempre un doppio movimento di sabotaggio interno (evidentissimo a Madrid nei giorni scorsi) finalizzato al ritiro dall’Accordo di Parigi non appena tecnicamente possibile (novembre 2020). Molto più interessante è stata la parabola dei movimenti per la giustizia climatica che nello schema fraseriano comporrebbero il populismo progressista: non solo i FFF, ma anche le opposizioni alle grandi opere inutili e dannose, Extinction Rebellion, e altri movimenti. In questo testo ci focalizziamo sui FFF (prima a livello mediatico-internazionale, cioè in relazione alla figura di Greta, poi rispetto al caso italiano), ma non mancano analisi più generali di grande interesse – ci riferiamo in particolare alla riflessione di Luigi Pellizzoni apparsa su Effimera [http://effimera.org/crisi-climatica-e-nuove-mobilitazioni-ecologiche-di-luigi-pellizzoni/].

 

Innanzitutto, ci preme chiarire che se la concettualizzazione di Fraser ci convince riguardo alle due opzioni politiche descritte sopra, nutriamo invece qualche dubbio sull’opportunità di definire “populista” l’insieme di istanze conflittuali che hanno trovato una temporanea cristallizzazione nella giustizia climatica. La manteniamo, provvisoriamente, per due motivi: in primo luogo, ci pare in effetti che i movimenti climatici del 2019 abbiano posto con veemenza il tema di una società post-capitalista in cui a una politica di distribuzione fortemente egualitaria corrispondesse una politica di riconoscimento sostanzialmente inclusiva e di classe. Nei termini propri della crisi climatica, la questione si presenta in forma di interrogativo basilare: chi paga i costi della transizione ecologica? La risposta risente fortemente dell’eco che giunge d’Oltralpe – dalle rotonde bloccate e dai centri commerciali occupati: ridurre la forbice sociale è conditio sine qua non della decarbonizzazione delle nostre società. In secondo luogo, va sottolineato che, ancora quest’estate, non si sarebbe potuta dare per scontata la radicalizzazione del messaggio di Greta. Anzi: furono numerose le voci – anche autorevoli – di chi nella giovane donna svedese intravvedeva null’altro che operazioni di greenwashing. Senza dare per acquisito il dato odierno, occorre tuttavia registrare che nel corso del suo viaggio americano (settembre-novembre) Greta ha ripetutamente declinato gli inviti dell’establishment del Partito Democratico per rispondere a quelli – istituzionalmente assai meno prestigiosi – di Alexandria Ocasio-Cortez e di Naomi Klein, sostenitrici di forme diverse ma non incompatibili di Green New Deal. In altre parole, Greta ha privilegiato il dialogo e il tentativo di alleanza con quell’area della “sinistra” statunitense che Fraser identifica con il populismo progressista.

 

Al di là dei termini, in ogni caso, ciò che ci sembra importante sottolineare – e che, mutatis mutandis, ritroveremo nell’analisi del caso FFF in Italia – è la progressiva radicalizzazione del messaggio di Greta e, di converso, dell’immaginario veicolato dai FFF a livello globale. Di nuovo: occorre prestare attenzione a non dare per acquisiti processi in corso e, indubbiamente, reversibili; riteniamo però che le tendenze che descriviamo siano in atto e abbiano avuto un peso nell’evoluzione dei FFF da settembre a oggi. Nell’articolo di maggio si era mostrato che, essenzialmente, il discorso di Greta verteva su tre assi: 1. delegittimazione delle élites; 2. inversione del rapporto tra economia ed ecologia; 3. incitamento all’azione diretta. Nei due documenti che prenderemo qui in considerazione – il discorso al Palazzo di vetro del 23 settembre e l’appello ‘Why We strike Again’, apparso alla vigilia del quarto sciopero climatico globale – si può notare a nostro avviso un salto di qualità politico, pur all’interno dello stesso spartito. Importante è pure sottolineare che tale salto di qualità politico è stato pienamente confermato nei discorsi alla COP 25. Un dato sottolineato da pochi, ma rilevante nel contesto che cerchiamo di tratteggiare, è la firma multipla dell’appello apparso il 29 novembre: accanto a quello di Greta si leggono infatti quattro nomi di giovani donne (tra i 16 e i 23 anni) impegnate nell’organizzazione dei FFF nei rispettivi paesi: Luisa Neubauer (Germania), Angela Valenzuela (Cile – la COP 25 in corso a Madrid si sarebbe dovuta tenere a Santiago, ma l’instabilità sociale ne ha reso necessario lo spostamento), Evan Meneses (Australia) e Flavia Nakabuye (Uganda). Difficile non scorgere in questo allargamento dello spettro geografico – inclusivo di attiviste del Sud Globale – una risposta intelligente alle critiche di “eurocentrismo” e “ambientalismo da ricchi” piovute su Greta dopo l’ampia circolazione del sua discorso alle Nazioni Unite. Altrettanto importante, tuttavia, è rilevare il tentativo di de-personalizzare la leadership globale dei FFF senza intaccarne l’elemento di rottura più caratteristico: quello cioè che incrocia genere e generazione (e che ha finalmente assunto la necessità di considerare i processi di razzializzazione). Si tratta peraltro di un passaggio conseguente all’ampliamento dell’armamentario critico nei confronto del riscaldamento globale, ben sintetizzato in questo passaggio: “La crisi climatica non riguarda solo l’ambiente. Riguarda i diritti umani, la giustizia, la volontà politica. I sistemi di oppressione coloniale, razzista e patriarcale l’hanno creata e sospinta. Dobbiamo smontarli tutti. I nostri leader politici non possono più smarcarsi dalle proprie responsabilità”.

 

Veniamo ai tre assi del ragionamento: rispetto al primo, si nota un’inedita sovrapposizione tra “politici” e “industria fossile” che tende a polarizzare il terreno dello scontro tra giustizia climatica, da un lato, e qualsiasi versione dello status quo (non importa quanto green o quanto brown sia l’economy) dall’altro. Scrivono le autrici: “I politici e l’industria fossile sono a conoscenza del cambiamento climatico da decenni. Ciononostante i politici hanno permesso ai profittatori di continuare a sfruttare le risorse del nostro pianeta e di distruggere i suoi ecosistemi”, privilegiando “investimenti a breve termine [quick cash] che minacciano la nostra stessa esistenza”. Si tratta di una novità significativa, che rompe ulteriormente con uno dei principali elementi identitari del sistema delle COP: capitalisti “buoni” (verdi) vs. capitalisti “cattivi” (emettitori).

 

Questa linea di demarcazione permette al discorso di Greta di approfondire la dimensione critica del secondo asse. Non si tratta più solo di stabilire che la politica economica dev’essere subordinata alla manutenzione del pianeta, ma anche di scorgere un’inconciliabilità di fondo tra la ricerca del profitto (cioè la crescita economica a ogni costo) e la salubrità biosferica. Dal discorso del 23 settembre: “Le persone stanno soffrendo, le persone stanno morendo, interi ecosistemi sono al collasso… e tutto quello di cui riuscite a parlare sono i soldi, le favole su una continua crescita economica. Come osate?“. Come si evince agevolmente, non c’è spazio per la distinzione tra crescita “verde” e crescita nociva: crescita tout court implica sofferenza e collasso.

 

Infine, rispetto al terzo asse, vi è una significativa presa d’atto che la dimensione oceanica degli scioperi globali non è stata sufficiente a produrre il cambiamento sperato nelle politiche climatiche. In questo caso, ci troviamo di fronte non a una dinamica di intensificazione – come nei precedenti assi – bensì a una rimodulazione del discorso. Persiste, enfatizzata, la denuncia dell'”ipocrisia” dei leader mondiali che “dicono di averci ascoltato, di voler passare urgentemente ai fatti, ma non fanno nulla”. Soprattutto, però, emerge la consapevolezza – ribadita a chiare lettere a Madrid – che la pratica dello sciopero globale disseminato non è riuscito, in questi mesi, a “mettere in sicurezza il nostro futuro”. Sembra emergere a questo punto un doppio registro dentro l’invito a “scioperare ancora”. Il primo, più esplicito, lega a un possibile incremento numerico un auspicabile aumento in efficacia: “L’azione collettiva funziona, l’abbiamo dimostrato. Ma per cambiare tutto abbiamo bisogno di tutte e tutti. Non basta dire che abbiamo a cuore la questione climatica; dobbiamo provarlo coi fatti […] Se avremo i numeri dalla nostra, allora avremo una possibilità”. Il secondo registro, più legato alla nostra interpretazione, ci pare un suggerimento a privilegiare, nel contesto della mobilitazione, le pratiche utili (capaci cioè di impattare positivamente sulla riduzione delle emissioni) rispetto a quelle consultive (finalizzate cioè a convincere politici e imprenditori della bontà dei propri argomenti): “L’azione dev’essere potente e differenziata” [That action must be powerful and wide-ranging].

 

Crediamo che questo passaggio dalla dimostrazione all’azione diretta sia una possibile chiave di lettura anche per comprendere l’evoluzione dei FFF nel contesto politico italiano. I FFF, infatti, continuano a portare nelle piazze decine di migliaia di giovani mantenendo una sorprendente capillarità sul territorio. Le manifestazioni del 29 novembre – quarto sciopero climatico globale – confermano ulteriormente questa dinamica che fa dei FFF l’unico movimento studentesco di massa nel nostro Paese. Si può dunque dare per assodato che il dibattito intorno alla questione ambientale sia ormai posto come uno dei temi centrali della politica. Oltre a questo, le rivendicazioni e gli obiettivi che sono stati scelti nelle mobilitazioni più recenti dimostrano la volontà di non accontentarsi di un discorso che orbita intorno alle “responsabilità individuali” o della mera adesione a un consumo etico. Questo è potuto avvenire grazie a due passaggi consecutivi: 1. La convergenza con quella pluralità di comitati sparsi sul territorio che ben prima del 15 marzo 2019 (data di esordio nel contesto italiano del movimento di Greta Thunberg) si occupavano di tematiche ambientali lottando contro le trivellazioni o contro le grandi opere come Tav, Muos, Mose, Tap – solo per elencare le principali; 2. L’indicazione chiara dell’origine del problema. La fase che si è aperta dopo il terzo sciopero climatico globale della fine di settembre ha visto un susseguirsi di pratiche dirette volte a “sanzionare” direttamente aziende come ENI, Amazon, Zara – e in generale tutte quelle multinazionali ritenute responsabili e principali attori del sistema di produzione capitalistico.

 

Il combinato disposto di questi due passaggi è assai significativo: se in un primo momento (da febbraio a maggio) furono in molti a ritenere FFF un movimento spontaneo e apolitico, facilmente recuperabile alla logica delle compatibilità sistemiche, oggi un simile malinteso è improponibile. L’evoluzione del messaggio di Greta ha certamente giocato un ruolo in questo progetto, ma va sottolineato che è soprattutto grazie all’operato delle attiviste e degli attivisti sparsi in tutto il mondo (e particolarmente “rumorosi” in Italia) che questa analisi esplicitamente anticapitalista ha travalicato l’ambito strettamente ambientale per considerare la crisi climatica come parte di una più generale rottura sociale prodotta dall´attuale sistema economico-politico.

 

Uno dei momenti decisivi di questa svolta analitico-politica è stata la due-giorni di assemblea nazionale FFF a Napoli (5-6 ottobre) dove le attiviste e gli attivisti si sono in primo luogo divisi in tre tavoli di lavoro: 1. giustizia climatica; 2. pratiche; 3. struttura. Nel primo tavolo il confronto è stato acceso: si è discusso molto del concetto di giustizia climatica e di come esso non abbia molto senso se non lo si lega direttamente al concetto di giustizia sociale. Il nesso è importante perché i cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali non colpiscono tutti e tutte allo stesso modo: all’interno di una società attraversata da forti disuguaglianze economiche è chiaro che chi paga maggiormente il prezzo della devastazione sono proprio quei popoli che rimangono esclusi dalla “società del benessere” dell’Occidente e che subiscono ogni giorno lo sfruttamento legato alle attività di estrazione delle risorse e sversamento di prodotti di scarto sui territori. Nel secondo tavolo si è parlato di quali possano essere le pratiche più efficaci per imporre rivendicazioni avanzate: si è giunti alla conclusione che in un’economia dove i flussi logistici di merci e persone è diventato uno dei settori centrali dell’accumulazione di valore, il modo più efficace per mettere in crisi questo modello sia bloccare quegli stessi flussi. Per questo si è scelta come data del successivo sciopero quella del 29 novembre, da qualche tempo nota ai più come Black Friday – la giornata dell’iperconsumo. In questo modo si è dato un segnale di quale sia l’indirizzo strategico dei conflitti che si daranno a partire dalle prossime tappe. Infine, nel terzo tavolo si è parlato della struttura organizzativa del movimento, optando per una forma liquida che lascia la massima autonomia decisionale alle assemblee locali. Si è scelta questa forma per mantenere quel livello di duttilità dell’organizzazione in grado di adattarsi al meglio ai vari contesti locali.

 

Per ora possiamo tranquillamente affermare che FFF sia l’unico movimento reale che lavora su temi politici in modo innovativo, senza ricorrere alle categorie di destra-sinistra, che vengono percepite come chiavi di lettura obsolete per l’attuale fase politica (in questo senso la divergenza rispetto alle piazze delle Sardine è piuttosto evidente). Se c’è un limite che permane nella versione italiana del movimento di Greta è che a una grande mobilitazione di piazza non corrisponde un’altrettanto ampia vivacità in termini di organizzazione nelle assemblee. Se infatti si presta attenzione a chi compone tali assemblee, si ritrova un arcipelago di partiti, associazioni e realtà di movimento preesistenti al 15 marzo. Questo si è potuto notare bene anche durante l’assemblea nazionale, dove i delegati e le delegate delle varie assemblee locali solo in rari casi erano persone che non facevano politica prima dell’avvento di FFF. Si tratta qui senza dubbio di un fattore limitante per quanto riguarda l’elemento di plasticità e innovazione dei linguaggi e delle pratiche: quelle che vediamo in atto, infatti, sono modalità politiche che ricalcano la scia di quel modus operandi che ha caratterizzato la sinistra radicale italiana nell’ultimo trentennio – e che non ha dato, purtroppo, i frutti sperati.

 

Al netto di questo limite, si può comunque affermare che il portato significativo dei FFF nel contesto italiano sia stato duplice: da un lato quello di esplicitare come la lotta per la giustizia ambientale sia anche, e si potrebbe azzardare a dire di per sé, una lotta generazionale; dall’altro quello di esprimere come questa stessa lotta debba essere portata avanti mettendo in discussione le categorie e gli usi comuni del politico portati avanti fino a questo momento. Tale messa in discussione mostra come per i FFF non sia possibile occuparsi delle tematiche proprie dell’ecologia politica se non attraverso una preliminare assunzione, e una conseguente analisi critica, del posizionamento sulla linea della classe, del genere e della razza in cui ogni individualità è inevitabilmente calata. Ciò conduce a cogliere come il rapporto tra giustizia ambientale e giustizia sociale debba essere affrontato primariamente attraverso una prospettiva trans-femminista e post-coloniale che riesca a ricollocare l’esperienza individuale e quotidiana di ciascuno all’interno di una dimensione più ampia e sistemica, mantenendo però inalterata la rilevanza politica che la molteplicità di queste esperienze di vita esprime.

 

In questo senso i FFF continuano a testimoniare il fatto che praticare, e non solo pensare, l’ecologia politica significhi portare avanti un processo continuo di ricerca e sperimentazione che coinvolge sia la dimensione organizzativa sia quella comunicativa dell’azione politica. Gran parte del successo dei FFF è stato determinato da tale processo di ricerca e sperimentazione, che continua ancora oggi a rendere i contenuti e le pratiche inclusive e condivisibili da molte e molti. C’è da augurarsi che un tale approccio riesca a contaminare sempre più numerosi attori sociali e politici italiani, aprendo così una nuova scommessa sulla possibilità di risoluzione di alcuni dei più significativi conflitti sociali e ambientali diffusi sul territorio, uno fra tutti quello tra salute e lavoro. La seconda metà del 2019 è stata infatti caratterizzata da una serie di eventi che hanno dimostrato, ancora una volta, quanto a livello istituzionale non sia presente una seria volontà politica di prendersi in carico la questione come inderogabile. Tali eventi sono stati in successione: lo scontro politico sulla realizzazione del Tav; le tragiche vicende legate a Taranto e alla sua acciaieria; la consueta emergenza stagionale dovuta al dissesto idrogeologico, a cui si è aggiunta la tragica inondazione della città di Venezia. Questi tre grandi eventi, pur essendosi imposti all’attenzione mediatica e pubblica, sono stati tematizzati attraverso schemi di pensiero “tradizionali”, obsoleti e comunque non in grado di prospettare soluzioni democratiche e inclusive. Tali schemi procedono ormai con il pilota automatico: realizzazione di una grande opera in quanto elemento di progresso economico per il territorio vs. mancata realizzazione con indice di arretramento economico e sociale; mantenimento dell’occupazione vs. salute pubblica e salubrità ambientale; emergenza legata alle precipitazioni stagionali vs. riconoscimento delle mancanze sistemiche rispetto alla cura e alla messa in sicurezza dei territori.

 

Sta proprio a un movimento come i FFF il compito di imporre il superamento di tali forme di categorizzazione e gestione – superamento che si concretizzi in una inedita indisponibilità per i governanti all’utilizzo della questione ecologica, e delle altre ad essa interrelate, come merce di scambio all’interno dell’arena politica o strumento per accrescere in maniera utilitaristica il proprio consenso pubblico. Riteniamo che i FFF siano un movimento ricco che ha dimostrato a più riprese di sapersi alleare con altri segmenti della giustizia climatica e di voler includere nel proprio orizzonte politico – la crisi climatica come moltiplicatore di lotte e non di catastrofi – soggetti che per decenni hanno faticato a prenderlo sul serio: i movimenti sociali anti-sistemici e il mondo sindacale. Chiudiamo questo 2019 con la certezza che molti passi avanti siano stati fatti, ma anche con la consapevolezza che la polarizzazione “corretta” del campo dell’ecologia politica – Negazionismo vs. Giustizia Climatica – non porta automaticamente a una situazione migliore dell’attuale. Occorrerà ancor più disponibilità alla mobilitazione e molta più capacità organizzativa per passare dal “giusto” terreno di scontro a una soluzione “giusta” al riscaldamento globale. Del resto Greta ha tutta la ragione del mondo quando, dal palco fallimentare della COP 25, dice che “la speranza c´è, l’ho vista”: semplicemente, “non viene dai governi ma dai popoli” che “si svegliano”; quelli cioè che prendono in mano il proprio destino, si rivoltano e così facendo scrivono a storia.

 

 

[Immagine: La marcia di Fridays For Future a Madrid (foto: Marcos del Mazo/LightRocket via Getty Images)].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *