di Barbara Carnevali
[Testo per la commemorazione di Remo Bodei tenutasi il 9 novembre 2019 alla Scuola Normale Superiore. Gli altri interventi possono essere ascoltati qui].
I.
Quando si commemora un grande intellettuale ci si rivolge spontaneamente a due generi letterari. Chi ha frequentato e amato la persona scomparsa propende per l’evocazione autobiografica: quest’uomo ha significato questo per me, mi ha insegnato questi valori, mi ha trasmesso queste conoscenze; aveva questi modi particolari; ricordo il giorno in cui ha detto certe cose, fatto un certo gesto. Questo genere di presa di parola è personale: benché abbia anche un’importante funzione collettiva, in quanto permette l’espressione ritualizzata delle emozioni e la loro catarsi, il sentimento e il prospettivismo ne fanno la forza ma anche inevitabilmente il limite. Per questo, come a voler compensare la natura troppo soggettiva della prima, è costume che intervenga anche una seconda forma di discorso più ufficiale: chi parla non è un intimo o un caro ma un rappresentante delle istituzioni in cui l’attività dell’intellettuale si è per così dire oggettivata: se ne ricorda l’opera, se ne commentano i libri e il magistero, ci si rivolge alla comunità non nella forma della memoria privata ma in quella del riconoscimento pubblico. Sono due modi complementari e ugualmente importanti di rendere omaggio all’eredità di una vita.
I funerali di Remo Bodei il 9 novembre, nel cortile della Sapienza, hanno conciliato bene queste due anime: il chiostro dell’università abbracciava la famiglia, gli amici e i colleghi; il gonfalone della città di Modena faceva da sfondo al discorso del giovane nipote; le parole degli allievi si alternavano a quelle delle autorità. Quando sono intervenuta in quell’occasione ho scelto per istinto il primo registro, quello personale – che mi si era imposto altrettanto istintivamente anche in occasione della festa per gli ottant’anni di Bodei a Torino, quando ancora nessuno sapeva che fosse malato – il che a posteriori ha acquistato un tono di presagio. Oggi però non ripeterò quelle parole o non le ripeterò nello stesso modo. Approfittando di questo contesto, del fatto di essere proprio qui, nel luogo dove Bodei ha studiato e ha insegnato, e dove anch’io sono stata allieva studiando sotto la sua guida, vorrei tentare un’operazione intermedia tra i due generi interrogandomi su ciò che la figura di Bodei ha rappresentato in un momento della storia di questa particolare istituzione, la Scuola Normale di Pisa. Da tale prospettiva, la mia voce non sarà più quella di un io, ma di un noi, di una generazione (due termini carichi di significato nel lessico filosofico di Bodei) che grazie a lui ha imparato a uscire da una crisi culturale e a riconquistare nei confronti del sapere un rapporto vivente. Ripercorrere i termini di questa crisi è un modo di riflettere su una delle tragiche «scomposizioni» della modernità, la fine di quell’unione tra soggetto e oggetto, tra cultura individuale e cultura istituzionale che è stato il grande problema hegeliano da cui ha preso inizio il pensiero di Bodei, sciogliendo l’enigma contenuto nel titolo ossimorico di uno dei suoi libri più importanti: Destini personali. Cercherò di spiegare perché.
II.
Ogni normalista ricorda l’arrivo a Pisa come un’esperienza euforica di libertà: la scoperta della cultura e del suo potere di emancipazione, la vittoria del concorso con la garanzia della relativa indipendenza materiale permettono di recidere i legami con l’ambiente di origine che per tutta l’infanzia e l’adolescenza sono stati concepiti come gli unici possibili, naturali. Si comincia a scorgere un orizzonte più vasto: si coltiva il sogno di scegliere la propria forma di esistenza e di poterla condurre nella direzione prescelta (è significativo che l’inizio del corso ordinario della Scuola Normale coincida con due momenti altamente simbolici dell’autonomia individuale: la presa della patente e la conquista di una stanza tutta per sé). Nel sistema di opposizioni simboliche creato da Bodei, questo momento equivale al termine «personale», al «polo Locke», o ancora, come nel titolo di un altro bellissimo saggio, a «immaginare altre vite». Ma per descrivere questa figura dello spirito oggi potrei evocare il pensiero di Sartre, che la elaborò proprio negli anni in cui era allievo dell’École Normale di Parigi: è l’esplorazione della trascendenza, dell’incondizionato, la scoperta della libertà davanti ai propri possibili.
Ma ogni normalista sa anche che in pochi mesi dopo il suo arrivo questo senso inebriante di apertura e di possesso di sé viene risucchiato dai meccanismi dell’istituzione totale. Uso il termine nel senso che gli attribuiva Erving Goffman in Asylums, dove si parla della forma di vita che vige tra mura chiuse (fisiche ma soprattutto mentali) come collegi, conventi, accademie militari e manicomi – la Normale, in fondo, è un po’ di tutto questo. L’asylum è la condizione dell’internato, il mondo a parte che ti spoglia della tua identità precedente per importene una nuova, uguale per tutti gli altri internati, insieme a un nuovo sistema di regole e codici del riconoscimento: è il luogo, per dirlo ancora con l’ossimoro di Bodei, del «destino», delle forze impersonali e dei condizionamenti esterni che possono impadronirsi dell’individuo fino ad annientarlo. Completando la genealogia delle due forze che si contendono l’identità, in Destini personali Bodei oppone a Locke la figura di Schopenhauer. Ma come pendant all’esempio di Sartre citerò l’opera di altri tre normaliens – Althusser, Foucault e Bourdieu – che hanno rivelato l’intreccio di potere e ideologia che vige nelle istituzioni totali, in particolare in quelle che non reprimono con la violenza fisica ma coi meccanismi più dolci e insinuanti di tipo simbolico. Le istituzioni assoggettano, ossia plasmano le persone a loro immagine e somiglianza: le interpellano creando soggetti specifici – ad esempio dando loro il titolo di normalisti, con gli oneri e gli onori che questo comporta, riconoscendoli come tali e chiedendo a loro volta in cambio legittimazione, gratitudine e senso di lealtà.
Se la struttura di questa dialettica tra libertà e destino incarnata dai due aspetti bifronte della Scuola Normale è rimasta sostanzialmente invariata nel tempo, le sue forme si sono consumate per ogni generazione di studenti e professori secondo le condizioni politico-culturali dei decenni, gli stili educativi, le personalità coinvolte. Nei primi anni Novanta, quando risale l’incontro della mia generazione con Bodei, queste variabili consistevano essenzialmente in due fattori: una concezione storicistica della filosofia e un paradigma scientifico positivistico e filologico, valido per tutte le discipline umanistiche. Il primo aspetto notevole era che la filosofia coincideva esclusivamente con la storia della filosofia: se in dipartimento, malgrado l’autorevolezza della tradizione storicistica toscana, c’era più varietà, in Normale c’erano tre insegnamenti filosofici, e tutti erano di storia della filosofia appena distinguibili per segmenti temporali: storia della filosofia moderna, storia della filosofia ottocentesca e proto-novecentesca, e la storia della filosofia «generalista» di Bodei che copriva l’intero arco da Platone al contemporaneo. (Bodei insegnava sia in dipartimento sia in Normale, ma in Normale soltanto a contratto). Negli ultimi due anni si aggiunse storia della filosofia medievale. Per effetto della naturalizzazione ideologica menzionata sopra, questa pervasività della storia della filosofia non turbava noi studenti – che potesse essere penalizzante se priva di contrappesi teoretici e logici lo avremmo scoperto solo più tardi, in genere andando all’estero – e anzi era ragione di orgoglio. Eravamo convinti di vivere in un contesto privilegiato, e l’ordine delle cose che l’istituzione ci suggeriva, a cominciare dalla definizione della nostra disciplina, era il solo legittimo.
Ma il vero problema non riguardava tanto che si studiasse prevalentemente una filosofia identificata con la storia della filosofia (Bodei, da hegeliano, ce ne offriva un’interpretazione ad alto contenuto teoretico), quanto che si respirasse il senso di livellamento relativistico e nichilistico di uno storicismo stagnante, che sottraeva al pensiero ogni pretesa di validità e di senso. Da questo punto di vista il problema aveva radici di lunga durata. Come mi raccontava pochi giorni fa un’altra ex allieva, Roberta de Monticelli, ricordando la liberazione che anche per lei significò l’incontro con Bodei (lei sarebbe diventata fenomenologa) già negli anni Settanta in Normale non si faceva filosofia per chiedersi se qualcosa fosse vero o falso, giusto o sbagliato, bello o brutto, ma solo per ricostruire cosa aveva detto il tale o il tal altro, quando e in che modo. Questa era l’atmosfera che si respirava ancora durante la mia formazione – tutto era stato scritto, tutto era morto, tutto si equivaleva – con l’aggravante che fuori dalla cittadella normalistica ora c’era il postmoderno, e studiare per il corso ordinario come nell’Ottocento tedesco mentre in dipartimento si discuteva di decostruzione era un’esperienza schizofrenica.
Questa situazione culturale può essere riassunta in un sistema di riduzioni: la filosofia era solo storia della filosofia, la storia della filosofia era solo storicismo, e la ricerca, succube di un paradigma nobile ma mutuato da altre discipline, non pensato cioè secondo le caratteristiche specifiche del sapere filosofico, era solo pratica storico-filologica, imprigionata nella specializzazione e nella divisione del lavoro. Un’immagine distopica ricorreva nei nostri discorsi a mensa: davanti a noi si ergeva un grande muro di mattoni, e noi «giovani ricercatori» eravamo coscienziosi muratori destinati a colmare i buchi della costruzione culturale attraverso il nostro impeccabile «contributo scientifico». (La mia generazione è cresciuta ascoltando i Pink Floyd, e ancora oggi alla parola «contributo» si associa nella mia mente il ritornello «another brick in the wall»). Inoltre, la scelta del «mattone» ci veniva imposta troppo presto (si cominciava a lavorare per la tesi di laurea già dal primo anno, trascurando le lezioni in dipartimento e passando gli esami frettolosamente in estate) e spesso senza tener conto delle nostre passioni: c’era chi ci suggeriva di scegliere un argomento sulla base di quello che «restava da fare», invitandoci a specializzarci su problemi o autori, preferibilmente minori se non minimi, su cui ancora non esisteva una copiosa bibliografia. C’era chi si vantava di non aver tempo per «leggere» (la lettura distraente dalle cose serie era, in questo caso, Tolstoj!). E c’era persino chi interpretando l’ethos normalistico con puritanesimo misto a sadismo ci suggeriva di studiare «qualcosa che non ci piacesse» in modo da assicurare il giusto distacco scientifico. Immaginate come questo regime fosse frustrante, oltre che perverso, per ragazzi di vent’anni animati da quella che Bodei, con Platone, definisce nel titolo del suo libro omonimo la «scintilla di fuoco» della filosofia. Ora pensavamo che il bagliore percepito negli anni del liceo fosse frutto della nostra ingenuità, e quasi ce ne vergognavamo. Lo scontro contro l’ethos della scienza come professione ci lasciava confusi ma intrappolati nella gabbia dorata dell’istituzione prestigiosa da cui sarebbe stato folle volersene andare. Se qualche coraggioso lo faceva, molti si adattavano alle circostanze ma poi abbandonavano gli studi subito dopo la tesi, in nome di mestieri più appaganti e più dotati di senso. Per altri invece la svolta fu permessa dall’incontro con alcuni maestri speciali, come appunto Bodei.
III.
Ma prima di parlare di questo incontro voglio riformulare il problema in termini filosoficamente più precisi. Ciò di cui la mia generazione ha fatto esperienza tra queste mura è una variante di quella che Georg Simmel, uno degli autori che Bodei più amava, ha definito tragedia o crisi della cultura. La crisi della cultura consiste nella lacerazione del tessuto vitale che, in termini hegeliani, connette i due lati dello spirito, lo spirito soggettivo e lo spirito oggettivo. Si spezza cioè il legame tra cultura individuale e cultura istituzionale che fonda la possibilità della Bildung e il concetto stesso di «Scuola»: da un lato, il protagonista del romanzo di formazione non riesce più ad assimilare e a padroneggiare l’insieme della cultura, che si erge contro di lui o di lei come un mondo arido e minaccioso, frammentato, privo di senso; dall’altro lato emerge lo spettro dell’alienazione: la cultura come patrimonio oggettivo di conoscenze, pratiche e istituzioni sembra smarrire la sua vera ragione di essere – il fatto di offrire solo un mezzo per un fine, la vita degli esseri umani. Da Weber a Lukács, da Husserl ai francofortesi, sono state riformulate molte diagnosi di questo problema, con il nome di gabbia d’acciaio, reificazione, crisi delle scienze europee, dominio della ragione strumentale. Per anticiparne gli esiti catastrofici si evoca la parabola dell’apprendista stregone: i mezzi culturali si ribellano e autonomizzano fino prendere il comando e a usare gli uomini come schiavi. Uno scenario non troppo lontano da quello cui si assisteva talvolta entrando in biblioteca alla Gherardesca, dove sotto le pareti altissime colme di libri i normalisti preparavano il «colloquio» come ingranaggi di una macchina insensata.
Per definire questa crisi avrei ovviamente anche potuto rivolgermi a Nietzsche che è stato il primo intellettuale moderno a denunciarla come «danno della storia per la vita». La sua splendida formula ci offre anche una chiave per comprendere la filosofia di Bodei e il modo in cui essa ha potuto sciogliere e superare le contraddizioni critiche: ciò che rimedia al danno non può che essere l’utilità; davanti alla «beschädigtes Leben», la vita offesa o mutilata dei Minima Moralia, la soluzione non può che passare per la redenzione e il risanamento della vita. E infatti la vita è stato un tema filosofico prediletto da Bodei che lo ha scelto per alcuni suoi titoli – La vita delle cose, Immaginare altre vite – e che amava aprire i suoi excursus sulla filosofia del Novecento con un lungo capitolo sulla Lebensphilosophie europea. La sua riflessione teorica si è articolata in dialogo con il dibattito filosofico sulla biopolitica degli ultimi anni, ma credo di non sbagliarmi dicendo che il concetto di vita, per Bodei, non è tanto quello della distinzione tra zoe e bios, l’oggetto relazionale delle nuove forme di potere, quanto la sostituta – femminile, laica, più modesta – dello spirito hegeliano: è l’unità verso cui tende il desiderio di riconciliazione e di sintesi, è il medium che connette e scioglie, che concilia e supera. Tutto il pensiero di Bodei ruota intorno a questa nozione di vita e alle forze dinamiche, prima tra tutte l’amore e le passioni, capaci di preservarne o ricostituirne i nessi viventi.
Ma il pensiero dei filosofi che ho citato illumina quello di Bodei anche perché esalta quella componente estetica che è il segreto del suo approccio alla vita. Non mi riferisco solo a una questione disciplinare, benché Bodei abbia dedicato diversi libri a questioni legate all’arte e all’aisthesis, e negli anni di cui sto parlando insegnasse in dipartimento sia Storia della filosofia sia Estetica. L’aspetto estetico del gesto filosofico di Bodei consiste nell’importanza che accorda implicitamente all’espressione e alla forma come elemento costitutivo della totalità. Mi spiegherò meglio. Diagnosticando la crisi della cultura, Nietzsche e Simmel hanno entrambi prospettato la stessa soluzione estetico-individualistica: è evidentemente impossibile, dopo Hegel, ripristinare il legame spezzato tra Bildung e cultura oggettiva nei termini di uno spirito assoluto, cioè come un grande racconto razionale, valido per l’umanità intera. Se il grande tutto è impossibile, resta però la possibilità di ricreare l’unità a livello più ridotto, in singole isole di senso, in cui la sintesi non è più ottenuta attraverso la ragione ma attraverso gli strumenti dell’espressione sensibile: nelle opere d’arte e nelle vite vissute come opere d’arte che perseguono il loro singolare modo di essere, le loro qualità irriducibili, la loro legge diversa da quella di tutte le altre. Nietzsche chiama questa forma stile (o grande stile), Simmel la battezza legge individuale. Per entrambi, solo in questo modo è possibile recuperare una forma di totalità.
Ora, incarnare esemplarmente una legge individuale e spronare gli studenti a cercare e coltivare la propria è stata l’eredità con cui Bodei ci ha permesso di fronteggiare la crisi della cultura e di affrontare gli anni pisani senza lasciarci soffocare dallo specialismo e dal positivismo. Era la rivoluzione copernicana applicata all’immagine del muro: i mattoni culturali servivano non a costruire una parete anonima ma la casa accogliente in cui dovevamo vivere. E la passione che lui ci incoraggiava a cercare nello studio e nella ricerca erano l’antidoto ai moniti puritani: il principio di piacere non solo non minacciava il valore scientifico ma era la condizione per salvarlo dall’atrofia e riportarlo in vita. Il capovolgimento è ben illustrato da un aneddoto leggendario che circolava a proposito del giovane Bodei, che negli anni di Normale si sarebbe fatto chiudere nella biblioteca della Gherardesca per potervi leggere tutta la notte. Se la storia fosse apocrifa confermerebbe ancora di più l’immagine proiettiva che abbiamo avuto della sua personalità.
IV.
È importante precisare che Bodei non ha fatto «scuola» in senso accademico, anzi. Uno dei consigli che gli anziani normalisti trasmettevano alle matricole era di seguire assiduamente i suoi corsi ma di non studiare sotto la sua direzione, perché il suo metodo non era pedagogico nel senso scolastico del termine: era un consiglio stupido (posso dirlo perché sono stata così stupida da seguirlo inizialmente anch’io), ma coglieva un elemento di verità, ossia che quel modo di fare filosofia era inimitabile, impossibile da trasmettersi o tradursi in precetti o principi, come la grazia. Bodei aveva un’intelligenza e una memoria prodigiose, la capacità di conciliare razionalità scientifica e sensibilità umanistica, l’esprit de géométrie e l’esprit de finesse (lui avrebbe parlato di «logiche», ugualmente degne e complementari): questi erano doni di natura ed era chiaro a tutti che non avremmo potuto replicarli. Inoltre Bodei rifiutava apertamente di coltivarsi una scuola nel senso di una corte di ammiratori e studenti fissi. Il numero delle persone che studiavano con lui era indefinito; non si riuniva in nessuna occasione. Pochi dei suoi laureandi e dottorandi lavoravano sui «suoi» autori, e ho sempre sospettato che le sue tesi preferite fossero quelle che gli permettevano di scoprire cose nuove. La sua mancanza di narcisismo, il suo imbarazzo per le lusinghe mi sono sempre sembrati segni di sovranità e di grande eleganza, oltre prove della capacità rara di riconoscere e rispettare l’autonomia degli altri.
Ma se non era un pedagogo, come insegnava Bodei? Confermando la definizione della legge individuale come legge estetica, il suo insegnamento consisteva nell’esemplarità del suo stile. Questa normatività è la stessa che teorizza Proust, uno dei suoi scrittori preferiti e sempre presente nei suoi libri, alla fine del Temps retrouvé attribuendolo ai grandi artisti come Bergotte o Elstir: non si diventa romanziere o pittore scimmiottando lo stile di un altro artista, perché lo stile deve essere espressione dell’individualità. Bodei, ugualmente, non ti chiedeva di essere come lui, di seguirlo e assecondare il suo pensiero ma ti spronava a trovare il tuo modo di vedere il mondo, i tuoi interessi e il tuo stile personale. Bodei seguiva la sua legge filosofica individuale e ci invita a trovare la nostra, che non poteva che essere diversa dalla sua, irriducibilmente singolare. Viene in mente la celebre immagine simmeliana dell’eredità in denaro contante, che non vincola gli eredi a un pezzo di terra, a una casa e a una forma di vita, ma che ciascuno è libero di spendere e persino sperperare come vuole. È rilevante che Bodei incoraggiasse gli studenti a cercare la loro strada anche fuori dall’università, sinceramente persuaso che nel mondo delle professioni, della politica, dell’arte ci fosse una ricchezza di senso che meritava di essere scoperta e perseguita. E un altro dettaglio della sua vita privata che mi è sempre piaciuto è che le sue figlie abbiano studiato materie e fatto mestieri diversi dal suo, e che lui ne fosse fiero. La vera paternità non è creare replicanti, ma educare degli esseri creativi e liberi, diversi da te.
(Ne approfitto per fare un inciso. Sono molto felice di essere stata invitata a questa commemorazione, ma mi dispiace di essere l’unica donna a prendervi la parola. La stessa cosa si è verificata il giorno del funerale, e anche a Torino la partecipazione femminile è stata scarsa. Questa è forse l’unica stonatura nell’omaggio, perché nel mio ricordo Bodei è stato una delle personalità maschili più women-friendly che abbia mai incontrato. Non solo era circondato da donne a casa, ma ha avuto un grande numero di allieve che hanno continuato la carriera filosofica e che, fedeli alla legge individuale, hanno speso la loro eredità nei modi più disparati: fenomenologhe, antichiste, parlamentari, scrittrici. Forse è anche per questa diversità che può risultare difficile raccoglierci in gruppo. Ma negli anni di cui sto parlando pochi erano i professori che trattavano le donne in modo così paritario. Anche di questo dobbiamo essergli grati).
L’esemplarità dello stile emerge anche dalla scrittura di Bodei. Le lezioni di Bodei erano molto belle, vivaci e appassionanti (le paragonavo a dei Brainstorming per la tempesta di idee che suscitavano). Ma i suoi libri, più compiuti e conchiusi nella loro forma, scritti in una prosa elegantissima, lo erano di più. La forma saggio, non a caso, è stata una delle figure della sintesi minore e sempre aperta, non assoluta, con cui la cultura post-hegeliana ha reagito alla crisi della cultura – e anche in questo caso riaffiora la triade Nietzsche-Simmel-Adorno. E cosa sono i libri di Bodei se non magnifici saggi? La scrittura saggistica è una delle forme con cui Bodei ha reinterpretato creativamente la disciplina della storia della filosofia: nel saggio soggetto e oggetto si incontrano in equilibrio perfetto senza che l’uno prevalga sull’altro. Il saggio ruota intorno a un fenomeno, un piccolo tutto, che viene preservato nella sua individualità e natura cosale (l’amore, le cose, il limite, la generazione, il déjà vu), senza dissolverlo in un sistema livellante ma nemmeno nell’appiattimento storicistico. Il saggio conserva viva la voce del suo autore, il suo stile, come un’opera d’arte.
Potrei continuare a lungo analizzando i contenuti di pensiero che sono stati già commentati nel volume tratto dalla giornata torinese e che lo saranno ancora negli altri interventi di questa giornata. Per restare solo sulla questione formale vorrei ricordare un ultimo tratto dello stile di Bodei. Per la generazione di Nietzsche come ancora per quella di Simmel e poi di Thomas Mann, la figura che incarnava idealmente la legge individuale era quella di Goethe: l’uomo totale, scienziato e umanista, contemplatore e uomo di azione, poeta e romanziere, botanico e ministro dello stato di Weimar, avventuriero e amante, che sembrava avere preso tutto dalla vita e averglielo poi restituito nella sintesi perfetta di vita e arte. Ma già per i suoi ammiratori il modello di Goethe era ingombrante e retorico, insopportabile per la pretesa di incarnare individualmente lo spirito del proprio tempo che traspare da Poesia e verità – pretesa non così lontana dalle ambizioni sovrumane dello spirito assoluto hegeliano. Ora, la personalità di Bodei aveva tratti goethiani (la serenità, l’amore per la natura, l’arte di chiudere fasi esaurite dell’esperienza per iniziarne di nuove: lo pensai in particolare quando partì improvvisamente per la California) ma aveva anche il dono dell’understament. Come è stato ricordato durante la cerimonia funebre iniziava sempre i suoi interventi pubblici con voce esitante e quando veniva lodato si schermiva ironicamente pregando di non esagerare. Questo stile in levare è ben illustrato anche da un suo vezzo comunicativo: la sua firma era tutta in lettere minuscole. Non gliene ho mai chiesta la ragione perché la interpretavo come una citazione della tipografia Bauhaus (il font Universal disegnato da Herbert Bayer) che in nome dei valori democratici moderni rifiutava la capitalizzazione per i suoi effetti di magniloquenza e sacralizzazione – in tedesco, come è noto, vanno in maiuscole non solo i nomi propri, ma tutti i sostantivi. La diffusione degli indirizzi email avrebbe reso questa pratica meno straniante, ma all’epoca era una scelta singolare.
Ecco, in questa firma credo si possa leggere un’incarnazione simbolica della concezione che Bodei aveva della soggettività post-critica, nel senso di quella che segue e risolve la crisi, e che corrisponde alla morale della storia argomentata filosoficamente in Destini personali: l’individuo può restare tale, può non dissolversi completamente nel flusso delle forze impersonali che vorrebbero annientarlo, perché conserva una sua autonomia e un suo potere di azione, una sua differenza irriducibile – quella che Droysen chiamava «la piccola X». Questa differenza è consacrata nel nome proprio, e ancora di più nella firma che è il suggello dell’individualità artistica moderna, che però viene scritta in minuscolo come a segnalarne la modestia. Anche la personalità dell’uomo Bodei può essere letta in questa stessa veste tipografica: come una personalità totale, sintetica, ma senza maiuscole. O, con un altro dei suoi ossimori, come un grande stile in piccole lettere.
[Immagine: Luigi Ghirri, foto del Cimitero di San Cataldo, Modena, progettato da Aldo Rossi (bc)].
Cara Barbara, prima di tutto complimenti per questo intervento, molto bello da tutti i punti di vista.
E poi grazie, perché hai saputo dire molto bene le scissioni vissute almeno da una generazione di normalisti, spiegando implicitamente dei percorsi che hanno saputo rifiutare la gabbia specialistica senza buttare via tutto quello che vi hanno imparato, anche se spostandosi in altri ambiti dell’agire sociale.
Una riflessione davvero esemplare anche per chi, come me, pur non essendo stato un “normalista”, ha sia vissuto sulla propria pelle il conflitto tra la vocazione personale al sapere e un contesto istituzionale inospitale sia avuto l’impressione di vedere incarnata esemplarmente in Bodei – soprattutto nel suo stile intellettuale – una via d’uscita non tragica dal conflitto. Grazie perciò a Barbara Carnevali per avere trovato le parole giuste per dare voce a idee e sentimenti che sono non meno significativi oggi di quanto non lo fossero trent’anni fa.
Non si può ascoltare l’intervento di Barbara senza essere tentati di cercarvi tracce autobiografiche (“sarebbe stato folle volersene andare… qualche coraggioso lo faceva…”); è inutile negarlo: questo ritratto bellissimo di Remo Bodei ci dice anche tanto di noi, di quegli anni fondamentali che continuiamo a portarci dentro come un tesoro.
E’ stato un privilegio conoscere Bodei a Pisa nei primi anni ’90, e una grande emozione sentirlo ricordare in questo intervento, che è insieme rievocazione di una stagione indimenticabile, ricordo di un maestro amato, e riflessione su un modo paradigmatico, eppure personalissimo, di vivere la filosofia als Beruf.
Con tutto il rispetto per la figura di Remo Bodei, mi permetto di manifestare alcune perplessità su questo articolo. Non mi sembra che la strategia retorica scelta dall’autrice – ossia abbassare il contesto per esaltare l’individuo elogiato – sia delle più felici, tanto in generale quanto nello specifico.
In generale perché un messaggio che potrebbe passare è che la grandezza dell’intellettuale elogiato non possa essere misurata se non in paragone alla pochezza del contesto in cui ha operato, anziché in una prospettiva assoluta o se non altro sullo sfondo di una storia del pensiero più ampia. Si finirebbe in qualche modo, paradossalmente – vista la poca simpatia dell’autrice per lo storicismo e la ‘filosofia-come-storia-della-filosofia’ – col dare una lettura storicista dei meriti di Bodei: è stato grande perché ha liberato le menti dei giovani normalisti dalle pastoie dello storicismo allora imperante. Un altro pericolo è quello di eccedere nella denigrazione degli “altri” per ovvi motivi retorici: davvero tutti si dibattevano in uno stagnante storicismo? Davvero Bodei fu l’unica, felice, eccezionale eccezione? Si rischia così, per omaggiare la memoria di un intellettuale, di infangare quella d’altre decine (docenti e ricercatori in filosofia a Pisa in quegli anni). Verrebbe da pensare che l’autrice stia trasformando l’occasione di un omaggio alla memoria di Bodei in un capitolo di una personale polemica culturale.
Su un piano più personale, inoltre, non riconosco come del tutto corretta la descrizione che l’articolo offre dell’ambiente umano e culturale della Scuola Normale Superiore di Pisa negli anni novanta. Ho frequentato la SNS come allievo del corso ordinario nella Classe di Lettere dal 1994 al 1999 e dal 2000 al 2001 come perfezionando (sempre in Filosofia). Sul piano umano l’asfissia non proveniva unicamente e forse neppure in modo preponderante dal corpo docente e dall’assetto dell’istituzione. Gli studenti vi mettevano del proprio. La tendenza universalizzante del testo rischia di eccedere nella generalizzazione. Per esempio per chi, come me, proveniva da una grande città (Roma) buona parte dell’asfissia era causata dal trasferimento in un centro estremamente più provinciale (e provinciale era pure, in larghissima parte, l’origine degli allievi). In generale non ricordo di aver mai incontrato un docente della Scuola che abbia scoraggiato una idea di ricerca per motivi simili a quelli riportati nell’articolo: semmai – è triste dirlo – argomenti di quel genere circolavano più tra gli allievi. Mettendo da parte gli aspetti relazionali e psicologici, non mi sembra corretto il quadro offerto dell’ambiente culturale in cui ci trovammo immersi. Premetto che io stesso ho abbandonato gli studi filosofici dopo la laurea (per passare alla matematica e all’informatica) proprio per la poca simpatia e una certa insofferenza per lo studio della filosofia-come-storia-della-filosofia, ma credo che l’autrice ecceda nel tratteggiare il desolante quadro. Mi sembra errato presentare l’insegnamento e la figura di Bodei come l’unica alternativa allora disponibile allo storicismo stagnante. Al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa, per esempio, era attiva una scuola piuttosto solida di filosofia analitica, logica e filosofia della scienza, che certo non praticava la filosofia-come-storia-della-filosofia e le mura della Normale erano permeabili a queste “sirene”: io stesso feci il mio “colloquio” dell’ultimo anno su un argomento di logica formale – di lì a poco la Classe di Lettere avrebbe assunto un docente di Logica e Fondamenti della Matematica. I corsi di filosofia medievale alla SNS tenuti da Francesco Del Punta (ai quali ho dedicato larga parte dei miei vent’anni) non si esaurivano in un approccio storicista alla materia: erano anzi una mescolanza degli approcci storico-filologico e storico-filosofico con un approccio analitico. Di Boezio, Tommaso, Aristotele e i suoi commentatori si indagava la coerenza del sistema, se ne analizzava la logica e se ne interrogavano le tesi anche come fossero quelle di nostri contemporanei.
Mi rammarico sinceramente di aver seguito soltanto un paio di lezioni di Bodei, ma mi rallegro di aver trovato altri docenti capaci di indicarmi modelli di approccio alla filosofia alternativi al modello allora prevalente e, per me, insufficiente. Non sono un sacerdote della memoria ma ho provato un vivo rammarico nel vederli travolti dalle onde del disprezzo per motivi di mera enfasi retorica.
Sono grato alla prof.ssa Carnevali per il suo intervento illuminante.Mi ha aiutato a capire meglio perché Remo lasciava il segno nelle persone che incontrava:li coinvolgeva nella ricerca “curiosa” di cui egli era capace ,quale che fosse l’argomento trattato.Da preside di un liceo del Sud ( dove l’avv. Gerardo Marotta ,presidente dell’IISF di Napoli , volle che parlasse agli studenti)posso testimoniare che la sua lezione ha aiutato molti ad orientarsi .A qualcuno ha cambiato la vita.