di Amy Hempel
[Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, tre racconti dalla raccolta di Amy Hempel, Nessuno è come qualcun altro. Storie americane, uscito in questi giorni per SEM, nella traduzione di Silvia Pareschi]
Cantagli una canzone
Alla fine disse: niente metafore! Nulla è come qualcos’altro.
Eppure poco prima mi aveva detto: fammi un’amaca con le mani. Ed eccone una.
Disse: nemmeno la pioggia – citava il poeta – nemmeno la pioggia ha mani così piccole. Ed eccone un’altra.
Alla fine volevo consolarlo. Invece dissi: cantagli una canzone. Il proverbio arabo: quando il pericolo si avvicina, cantagli una canzone.
Eppure poco prima gli avevo detto: niente metafore! Nessuno è come qualcun altro. E lui aveva detto: per favore.
Così, alla fine, gli feci un’amaca con le mani. Le mie braccia, gli alberi.
L’agnello orfano
Scuoiò il cadavere dell’agnellina invernale, dopo essersi pulito le mani insanguinate sui pantaloni per mantenere la presa, cominciando a tagliare intorno agli zoccoli e risalendo lungo le zampe, poi dando dei colpi con il pugno per staccare la pelle dai muscoli e dalle ossa.
Legò la pelle con lo spago sul corpo dell’agnello orfano, perché la pecora in lutto riconoscesse l’odore e permettesse all’orfano di poppare.
O almeno così disse.
Questa era seduzione. Questa era la storia che raccontò, fra tutte le storie da ragazzo di campagna che poteva raccontare. Scelse quella in cui la brutalità salva una vita. Voleva che sentissi, quando adagiò il suo corpo sopra il mio, che era così che sarei andata avanti, era così che sarei stata conosciuta.
L’arcobaleno lunare
Certa gente può permettersi di fare qualunque cosa, ma io non posso permettermi neppure di bere un bicchiere d’acqua a letto.
Mi scambio di posto con il mio cane, che tanto non si accorge del bagnato.
Su questo lato del letto vedo la luna dalla finestra. È piena, con… qualcosa in più. So che può succedere, ma non nello stato di New York: in Africa, dove nelle notti di plenilunio la bruma delle Cascate Vittoria può creare un arcobaleno bianco, un arcobaleno lunare. La gente prenota vacanze per vederlo.
Scendo di sotto ed esco nel giardinetto sul retro. Chi altro lo sta vedendo? E poi scopro chi altro: un piccolo orso bruno, o forse nero. Rimango immobile, cercando di non apparire spaventata perché quello è il momento in cui attaccano, mi hanno detto. Un orso si sta spostando con calma dal giardino dei vicini al mio. Alza gli occhi verso la luna: la guardiamo insieme. L’orso si butta a terra, poi si rialza e giocherella con una palla. Apparteneva al mio cane, l’altro, che è morto il mese scorso. L’orso vede la ciotola che ho continuato a riempire d’acqua per abitudine o speranza, e si fa una bevuta. Si avvolge nel vecchio cavo retrattile fissato al paletto. Dà una zampata al peluche preferito del cane defunto, un agnellino umido e infeltrito che ha perso il fischietto.
L’orso si rotola sulla schiena sotto lo strano arcobaleno bianco, le zampe simili a quelle di un’altra creatura che conoscevo. «Logan?» chiedo, avvicinandomi di un passo. «Va tutto bene.»
Gli racconto cos’è successo dal giorno in cui l’ho perso, e gli assicuro che ho approvato il suo morso d’addio, a quell’or- rendo fattorino che se l’era andata a cercare. Gli racconto che la rosticceria è in vendita, che hanno aperto un altro negozio di antiquariato, che detesto il mio taglio di capelli, che non ho buttato via niente, che l’acqua della cucina ha preso un retrogusto metallico.
E poi l’orso se ne va. Ritto in piedi, mentre avanza verso il fondo del giardino, si ferma accanto alla vecchia altalena di corda. Penso che infilerà le zampe nel copertone e si lancerà verso la luna, ma poi vedo che ha la corda fra i denti. Mastica e scuote la testa fino a romperla, poi, quando il copertone cade a terra, lo allontana con una zampata e corre via nei boschi.
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