di Roberta De Monticelli

 

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri un contributo di Roberta De Monticelli, in dialogo con l’intervento di Barbara Carnevali, La legge individuale: Remo Bodei e la Scuola Normale, uscito su LPLC2 il 19 dicembre 2019].

 

Anche a me, come a Barbara Carnevali, è avvenuto di commemorare Remo Bodei, seppure più occasionalmente e in un solo scritto – ne riprendo qui il link solo per chi volesse approfondire il senso di questo mio commento alla bella riflessione di Barbara. Che ha provato a dar voce a quello che di ancora non detto, forse, ha segnato il cammino intellettuale della sua generazione. E questo non detto riguarda qualcosa di cruciale per ogni generazione: il rapporto alla verità – cioè alla sua ricerca – che una comunità o un’istituzione, una mentalità condivisa o dominante, plasmano o tendono a plasmare anche nelle menti delle singole persone.

 

E’ vero quello che Barbara dice del rapporto così falsato alla verità e alla vita della ricerca, che ha gravato – se è vero – certamente su molte generazioni di studiosi, non solo la sua? Ci sono stati dissensi, almeno uno, anche su questo blog.

 

La mia generazione precede, e forse di molto, quella di Barbara: arrivai alla Normale negli anni ’70, che detto ora sembra un po’ come parlare dei tempi della Comune di Parigi, il secolo di differenza non lo percepiamo più tanto. Eppure sì, ritrovo nella sua rievocazione quello stesso senso insieme di angustia e smarrimento di fronte allo storicismo dominante – ai miei tempi soprattutto nelle sue svariate versioni hegeliane e marxiste, almeno quanto alla carrozzeria visibile – perché l’anima di questo scetticismo era profondamente scettica, di uno scetticismo depressivo e non provocatorio, con venature di disperazione addormentata in alcuni casi nel cinismo. E su questo i miei ricordi concordano nell’essenziale con quelli di Barbara: non dimenticherò mai il senso di rivelazione, come lo spalancarsi improvviso del cielo infinito sopra la testa, azzurro e anche pieno di vento – che provai quando, arrivata a Oxford per scrivere la mia tesi di perfezionamento, mi accorsi che la domanda essenziale lì non era: “Chi l’ha detto? Quando? Perché? A chi giova?” – ma solo: “Cosa, precisamente, è stato detto? E la domanda qual era? E soprattutto: è vero? E come lo si fa vedere, se lo è?”.

 

Ora, il nostro argomento di partenza era la figura di Remo Bodei, maestro capace di indicare una via d’uscita allo scetticismo fondamentale della filosofia del muro e dei mattoni evocata da Barbara: perché muro e mattoni sono un’impresa tombale se non servono a sorreggere e proteggere un palazzo pieno di luce e di respiro. Fuor di metafora, se la giusta umiltà della divisione del lavoro non è nutrita dall’amore per la cosa stessa che si svela con fatica, che noi contribuiamo a svelare per tutti, e che con fatica ci svela a noi stessi, giorno dopo giorno. E allora una domanda è: in che modo Remo Bodei indicava una strada diversa dallo scetticismo sull’esistenza di verità da cercare in filosofia? Questa domanda è importante, perché non solo presuppone e ribadisce l’importanza di questa figura di maestro per chi gli fu allievo, ma anche per chi, in realtà e in senso tecnico, non gli fu tale, dopo il corso o due che era di prammatica seguire. Come nel mio caso. Vedere, a distanza di anni, una possibile via, significa capire meglio anche le altre – e da cosa, in definitiva, erano vie d’uscita.

 

Sì, Barbara parla dell’istituzione, in qualche magari modesto e sinuoso modo, “totale”. Io qui esito, ma per meglio spiegare la mia esitazione introduco un altro tema. Ci sono due modi, in generale, dice Barbara, di commemorare un maestro – quello più personale e quello più istituzionale. Lei stessa naturalmente, sa bene che ce ne è almeno un terzo, quello “generazionale” che lei sceglie. Ma forse ce ne è anche un quarto: quello dell’osservare l’effetto che il pensiero maturo di Remo Bodei, fatto pane per tutti o per molti, ha avuto sul pubblico: cioè su tante persone che prima di venir richiamate dalle sue parole alla loro “legge individuale” di fioritura esistenziale, morale, intellettuale si vedevano spalancare davanti, ogni volta nella vivida concretezza di un personaggio, di un’immagine, di una situazione, di un bivio, di un’avventura – il gran teatro delle idee. Un po’ come se si potesse assistere in diretta al gran corteo dei carri e degli aurighi dipinti dal mito del Fedro, con le anime-aurighi e i loro cavalli docili o riottosi al seguito ciascuna del suo dio, emblema di regalità o di bellezza, di sapere o di giustizia, di ricchezza o di potenza guerriera…e di molte, molte altre figure delle idee, “figure della coscienza”, a dimensione più umana, come quelle di Hegel. Idee che emergono, magari, o acquistano in un momento o nell’altro della storia forza e sembianza di grandi dei – di “idee forza”, si diceva un tempo, capaci di smuovere, di motivare, di risvegliare a nuove domande, o all’azione. Ma che non per questo sono solo figure della storia: hanno tutte una loro pregnanza, un contenuto dispiegabile in concetti, una loro “logica”.

 

Il grande teatro delle idee: per questo ho scritto che venivano giù i teatri (reali) dagli applausi, quando – pur soberrimo nell’eloquio, e preciso e completamente privo di mezzucci retorici, Remo nelle sue lezioni magistrali le “metteva in scena”, nei teatri appunto e anche sulle piazze. Qui la tradizione italiana della storia della filosofia – o forse delle idee – raggiungeva la sua via e la sua autenticità possibile, con erudizione e scuola al servizio delle idee, cioè delle (tanto varie) invarianti di significato dell’esperienza intellettuale e morale – e non viceversa, le idee al servizio di erudizione e scuoletta. Ma perché questo effetto, e che senso ha l’evocarlo?

 

Queste Idee che commuovono e smuovono sono, essenzialmente, valori. O più precisamente, abbozzi di ordinamenti di priorità di valori, di “modelli” possibili di vita, di azione, di salvezza se proprio non si temono le parole.

 

E i valori, o meglio le possibili configurazioni assiologiche, le “scale” di valori che nei modelli o nelle figure ideali si esprimono plasticamente, sono la faccia obiettiva della “legge individuale” che fu la via di salvezza di Barbara. Ecco, perché Simmel la chiama “legge”, e non semplicemente “via” individuale? Ognuno dovrebbe saperlo, quanto – nei momenti veramente felici, anche se a volte sono drammatici – ci appare “incondizionato” il compito che crediamo nostro: si parva licet, forse ciascuno ha in un momento della vita sussurrato a se stesso “Hier stehe ich, ich kann nicht anders”.

 

Nulla è più delicato, importante e potenzialmente tragico di questo imperativo, di questa “legge”. Sottile, e insieme immensa, è la differenza fra quando l’imperativo di un compito è “arbitrario”, e quando è “fondato” nella cognizione del valore. E qui intendo: nella cognizione del particolare bene che io (e forse solo io) posso portare al mondo, in questo compito scoprendo anche il senso e valore possibile della mia vita. Senza questa cognizione che vuole esser vera o rigettata, perché è conoscenza o errore, cioè rappresenta o no le cose come sono e come possono divenire, me stesso compreso; ed è conoscenza assiologica o errore, cognizione di beni che io posso portare al mondo e del mio potere di farlo; senza questa base, dicevo, l’imperativo è arbitrio puro. Cioè partecipa dell’ultima e più profonda fonte di male e infelicità umana, nella vita di ciascuno e nella storia di tutti. L’arbitrio, che è fonte di nevrosi e follia, come di guerra e violenza. L’arbitrio che si crede dovuto, e con feroce assolutezza, tanto che quando, nella storia – forse in altre epoche, forse oggi ancora – gli uomini attraverso la disperazione riconoscono il suo potere distruttivo, il suo vuoto annichilante e assassino, allora maledicono la propria volontà – e la depongono nelle mani di un dio, e come all’ultima salvezza gli affidano sé stessi. Fino a che qualcuno di nuovo al proprio arbitrio dà il nome di quel dio, e i nomi dei valori diventano, come scrive Simone Weil, “parole assassine”.

 

Ma come! – ci si deve chiedere – Come puoi pretendere che sia già “cognizione” quella del “compito” che ti appare, un compito che è in definitiva, nei casi più felici e insieme più pericolosi, l’incerto balenare di una vocazione? Non è forse – semplicemente – l’illusione, cioè il cappuccio stesso della speranza, ciò che fa del compito sentito qualcosa di arbitrario e di non fondato? E che colpa abbiamo di illuderci? Come si può conoscere la propria destinazione prima di essersi messi in viaggio?

 

Questo è il punto cruciale, al quale tutta questa riflessione voleva arrivare, portando anche la sua conclusione sul tipo di maestro che Remo Bodei è stato, ma anche sulla riflessione di Barbara. Cioè su quello che ci è mancato – e non solo è mancato alla generazione di Barbara e alla mia, ma a molte generazioni, se dobbiamo guardare a ciò che abbiamo fatto della ricerca, dell’università, della scuola, e quindi della cultura, della politica, del senso delle istituzioni e del valore della cosa pubblica nel nostro paese.

 

No, la cognizione del valore non è soltanto, e anzi non è quasi mai in quel punto in cui qualcuno dice “Qui sto, e non posso altrimenti”. Non c’è cognizione dei valori se non sperimentale, se non per prova ed errore, come è la conoscenza, ovunque e di qualunque cosa sia. La “legge” individuale continua a trarre la sua forza normativa di compito soltanto dal contenuto di valori realizzabili e dei loro nessi delicati e necessari. Un contenuto che si profila nella sua ricchezza e concretezza possibile, nei sui sviluppi, nella sua imprevedibilità: si fa davvero, come voleva Simmel, etica vocazionale e personale, si sostanzia cioè dell’originalità degli individui, solo se e in quanto ci sia presente, e ogni giorno sperimentata e progressivamente conosciuta e scoperta, l’altra origine del compito. Cioè da un lato la cosa stessa, la cosa dell’arte che è tua con le sue esigenze e le sue domande e la sua propria essenza, con la specifica, non indefinita infinità dei suoi possibili: fra i quali, esile filo della grande trama, allora ti è dato intravedere la tua via; e dall’altro la cosa stessa che è il mondo comune, la casa che abitiamo, con le sue esigenze e domande, con l’universalità, anche, dei suoi inviolabili doveri.

 

E allora, quando ogni giorno pur con fatica è nutrito da questa sperimentale, graduale conoscenza, la disperazione di sé che l’arbitrio produce può diventare gratitudine per la cosa più grande di noi che accoglie anche il nostro mattone. E la fonte della gratitudine qual è? Così la indicava Jacques Copeau in mezzo alla sua battaglia contro l’arbitrio e per la cognizione del valore dell’arte teatrale: “…quell’amore che le cose ci dimostrano quando operiamo in armonia con lo spirito”. E di cui diceva che “bisognerebbe riuscire a farne la carne della nostra opera”. Il fenomenologo della vita personale – giocata sui due versanti della disperazione e della gratitudine, Max Scheler, ha un nome strano per questa cosa stessa che ha un dito puntato verso di te, come quei manifesti d’epoca che da soli bastano a evocare la pericolosità di questo richiamo, sospeso fra l’arbitrio possibile e la cognizione necessaria. L’oggetto di questa cognizione lo chiama “il bene in sé per me”, e lo fa nella sezione in cui svolge proprio questa critica alla “legge individuale” di Simmel (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, testo a fronte, trad, it. di Roberta Guccinelli, p. 943).

 

E fuori da questo delicato crinale fra cognizione e arbitrio, gratitudine e disperazione – non c’è che il conformismo, o il caso e la fortuna, magari anche il fiuto per le mode e la capacità di acchiappare l’ala del successo.

 

In conclusione: cosa c’entra la figura di maestro di Bodei con tutto questo?

La ricerca di ognuno, per la propria arte e la propria vita, ha bisogno come del pane di accedere anche per via indiretta a questo “lato oggettivo” della legge individuale, a questa varietà di dei e storie, di modelli assiologici e di loro “logiche”: di poterselo rappresentare. Ecco perché l’insegnamento di Remo Bodei si mangiava come pane anche al di fuori dell’accademia, e i teatri venivano giù dagli applausi – per una volta, applausi giusti. Perché non c’è, ahimè, prova sociologica e pragmatica di quello che sto tentando di dire.

 

E cosa dire, infine, della tesi di Barbara sulla natura dell’Istituzione cui pure entrambi, credo, abbiamo conservato gratitudine per quanto possibile? Che poi non importa che sia la Scuola Normale o qualunque altra. Ecco, il pensiero filosofico francese del secondo Novecento ha conferito grandissima importanza alla sociologia, che è divenuta, in fondo, la base della filosofia di cui si dibatte e che si insegna: non tanto o soltanto nei suoi metodi, quanto nel suo spirito, almeno quel suo spirito che interessa ai filosofi. E la cui lezione è quella che sottolinea l’importanza enorme che l’istituzione sociale (il collettivo, il noi organizzato e funzionale), con il potere anonimo e diffuso che la costituisce, ha nel plasmare la coscienza e l’agire degli individui, e nel riprodurre, in loro, sé stessa.

 

E qui io azzardo la mia opinione, tutta da verificare. Non c’è dubbio che la pressione del collettivo sulla coscienza individuale è enorme. Ma la coscienza individuale, cioè l’esperienza personale, è anche la sola porta d’accesso alla conoscenza, in particolare alla conoscenza assiologica. Non sarà allora ben più grave e profondo di quanto si tenda a credere l’effetto dello scetticismo assiologico? E tanto più, in quanto non lo si ritenga una posizione che richiede di essere vagliata, ma un destino della modernità? E cioè la “crisi”, appunto, che Barbara così icasticamente descrive in linguaggio hegeliano: “Si spezza cioè il legame tra cultura individuale e cultura istituzionale che fonda la possibilità della Bildung e il concetto stesso di «Scuola»”. Non sarà questo, appunto, uno scetticismo che si ignora, eppure sta dicendo: non c’è propriamente verità da cercare nel campo dei valori, non c’è fondata esperienza dei beni e dei mali che sembrano affollare la realtà del mondo: ma solo libere soggettività creatrici, oppure identità culturali predefinite)?

 

E perché sarebbe più grave di quanto si creda, l’effetto dello scetticismo assiologico? Perché allora ciò che di cieco e inerziale, ciò che di routinier e puramente funzionale alla loro sopravvivenza c’è nelle istituzioni – in breve, la loro lettera morta che, non ravvivata dallo spirito, si trasforma lei stessa in cosa che “uccide” – diventa anche la sola cosa che le tiene in piedi. Perché gli individui possono trovare “occasioni” e “casi” di salvezza, ma non si rinnova e non cresce il “mondo di beni”, la cultura comune. Non si rafforza, con la vita e la crescita e moltiplicazione delle istituzioni che ogni nuova scoperta cognitiva, anche assiologica, porta a costruire, l’impalcatura dei possibili che sono compiti e insieme vie di salute per gli individui. E’ allora forse che le cose danno ragione allo spirito della sociologia, e l’istituzione può farsi sinuosamente totale anche quando era nata per sostenere la ricerca. Del vero e di sé, insieme.

 

[Immagine: Luigi Ghirri, foto del Cimitero di San Cataldo, Modena, progettato da Aldo Rossi (bc)].

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