di Andrea Sartori
Alla festa de LPLC2 tenutasi recentemente alla Casa della Cultura di Milano, Walter Siti, tra le altre cose, ha menzionato la biocritica oggi molto discussa, e ha individuato il limite del suo interesse per la letteratura nell’appiattimento sul criterio dell’efficacia. L’osservazione di Siti potrebbe essere integrata da ulteriori riflessioni che tengano conto del dibattito, in ambito anglo-americano e post-strutturalista, sulla figura di Charles Darwin e sul suo impatto nel campo letterario. Nelle riflessioni che seguono, la (parziale) ricostruzione critica d’un dialogo, anche molto aspro, d’ oltremanica e d’oltreoceano fa emergere che l’efficacia non è l’unico parametro per misurare il rapporto tra teoria dell’evoluzione e letteratura. Anche il caso del romanzo moderno italiano, ovvero degli autori che nel nostro Paese scrissero più a ridosso della pubblicazione de L’origine della specie (1859), apparirà allora come un campo d’indagine ancora bisognoso d’una esplorazione sistematica alla luce delle idee darwiniane.
Nell’«Introduzione» all’edizione da lei curata de On the Origin of Species di Charles Darwin (Oxford University Press, Oxford, 2008), Gillian Beer ricorda che quando Darwin era in vita, le leggi della genetica non erano state ancora scoperte. La distribuzione dei caratteri nell’ambito d’una famiglia e d’una specie, prosegue Beer, poteva essere osservata empiricamente, ma non spiegata alla luce d’una teoria. Le ricerche di Gregor Mendel sull’ibridismo vegetale, infatti, divennero note solo nel 1900, diciotto anni dopo la morte di Darwin. Negli anni ’20, studiosi di genetica delle popolazioni come Ronald Fisher (1890-1962), John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964) e Sewall Green Wright (1889-1988) combinarono la teoria di Darwin sulla selezione naturale con la genetica di Mendel e diedero luogo alla moderna sintesi neodarwiniana in ambito scientifico. I genetisti molecolari, e tutto il lavoro scaturito dall’elucidazione della struttura del DNA, sono indebitati con i pionieri degli anni ’20.
1. Joseph Carroll: una mente adattata o disadattata?
Nel 1975, Edward Osborne Wilson stabilì le coordinate della Nuova Sintesi nel suo Sociobiology, un libro tanto influente quanto dibattuto, non a caso aspramente criticato dal paleontologo, biologo e storico della scienza Stephen Jay Gould (1941-2002). Sociobiology (seguito da Consilience. The Unity of Knowledge, 1998) offriva un’analisi omnicomprensiva del comportamento sociale dell’uomo e degli animali entro la cornice teorica della selezione naturale e dell’adattamento. Nella prospettiva di Wilson, Darwin era stato il primo sociobiologo e il primo esponente della psicologia evoluzionista. Come spiega Joseph Carroll in Literary Darwinism. Evolution, Human Nature, and Literature (Routledge, New York-London, 2004), quando fa riferimento all’opera di Wilson, Darwin fu in grado «di analizzare la cultura e la psicologia umane risalendo – lungo ininterrotte sequenze causali – agli istinti biologici elementari della sopravvivenza e della riproduzione» (viii). Da questo punto di vista, la cultura – inclusa, potremmo aggiungere, la produttività di metafore care alla letteratura – non ha alcuna autonomia dalla sfera biologica, poiché dagli istinti elementari alla cultura ci sarebbero solo «ininterrotte sequenze causali». Carroll inscrive il proprio approccio alla critica letteraria entro un paradigma adattazionista che fa perno su di un nesso causale: «(a) la mente si è evoluta lungo un processo adattativo di selezione naturale; (b) la mente così adattata produce letteratura» (xii).
Tuttavia, la Nuova Sintesi, teorizzando una linea di continuità tra istinti orientati alla sopravvivenza (o alla riproduzione) e produttività culturale, annulla quell’irrisolta tensione tra natura e cultura che sembra invece caratterizzare l’opera di Darwin. Nel naturalista britannico, infatti, si trattava di tenere insieme – in un unico e contradditorio gesto, per così dire – quel che già Francesco De Sanctis (Il darwinismo nell’arte, 1883) aveva chiamato l’«animalismo» dell’uomo e la sottile, per certi versi sorprendente connotazione «antropomorfica» della biologia darwiniana, almeno se stiamo alla lettura di Beer (Darwin’s Plots. Evolutionary Narrative in Darwin, George Eliot and Nineteenth-Century Fiction, Routledge & Kegan Paul, London-Boston-Melbourne-Henley, 1983, p. 57). Si trattava della medesima tensione, per certi versi, che oggi anima il rapporto tra disposizioni genetiche e variazioni culturali. Lo stesso Darwin, infatti, a dispetto di tutto il suo anti-antropocentrismo, quando in On the Origin of Species (1859) doveva descrivere che cosa fossero le variazioni e la selezione naturali – ma anche la lotta per la vita tra gli organismi – ricorreva niente meno che a metafore esplicative desunte dalle pratiche umane dell’allevamento e della coltivazione. La stessa struggle for life in natura è un’analogia umana che Darwin deriva innanzitutto dal lavoro etnografico di Thomas R. Malthus (An Essay on the Principle of Population, 1798).
Carroll, ponendosi sulle orme di Wilson, vede invece nella Nuova Sintesi – ovvero in una forma di riduzionismo biologico – un paradigma sostitutivo della vecchia teologia naturale, un paradigma, potremmo aggiungere, che però di quella teologia mantiene l’onnicomprensiva vocazione sintetica. La Nuova Sintesi nega l’autonomia della cultura, proprio come faceva la teologia naturale, benché in maniera opposta e speculare. Infatti, in Literary Darwinism la psicologia evolutiva e il paradigma adattazionista prendono il posto un tempo assegnato a Dio, il quale nella teologia naturale fungeva da supremo principio sintetico, cioè da garanzia che la tensione tra l’animale e l’umano fosse riconciliata in un’origine trascendente. Per questa ragione, Carroll non dismette la tradizionale e pre-darwiniana idea d’un disegno che presieda allo sviluppo degli organismi – piuttosto trasforma quell’idea. Di certo egli non parla più d’un disegno divino, ma continua a fare riferimento a un disegno «adattativo» (xx). L’adattamento, in un certo senso, si fa carico – in questa versione del darwinismo letterario – del miracoloso mandato della creazione.
Il secondo principio adattazionista di Carroll recita: «la mente adattata produce letteratura». Anche in questo caso, tuttavia, andrebbe ricordato che Darwin ricorreva alle metafore e al gioco dei loro significati sulla base – come sostiene Beer – dell’inevitabile «incongruenza» e «disadattamento» (maladaptation) che intercorrono tra la mente e il mondo (Darwin’s Plots, pp. 74-75). Questo significa che, semmai, una mente disadattata e non una mente adattata produce letteratura, inclusa quella specifica forma di narrazione costituita dal saggio L’origine della specie.
Pertanto, la «lotta per la vita» potrebbe essere interpretata non come una metafora tra le molte possibili, ma come un’analogia che illustra le problematiche adattative della mente rispetto al mondo – problematiche che portano la mente a impiegare altre metafore e a scrivere anche letteratura per cercare di dare un senso all’esperienza.
Nel romanzo italiano moderno v’è almeno un caso piuttosto evidente di maladaptation della mente. Potremmo infatti chiederci perché mai Italo Svevo (1861-1928) continuò a scrivere romanzi, racconti e opere teatrali dal successo quasi inesistente, mentre era impiegato in banca e poi presso la ditta del suocero come amministratore. Il 19 dicembre 1889, Svevo scriveva nel suo diario d’essere «malcontento», un termine che richiama la sfera semantica del disadattamento e della maladaptation. Due anni prima, infatti, il triestino aveva iniziato a scrivere il romanzo Una vita (che originariamente doveva intitolarsi Un inetto), e le aspettative che egli aveva riposto nell’opera stavano svanendo. Tuttavia, è stato proprio questo malcontento a tenere aperto l’orizzonte della narrazione nel caso di Svevo, poiché Una vita fu seguito da altri sforzi letterari – tutti scarsamente ripagati dal pubblico – incluso La coscienza di Zeno, che diede fama all’autore solo poco prima che questi morisse, grazie all’intervento in extremis di personalità come Bobi Bazlen, Eugenio Montale e James Joyce. Il caso di Svevo sembra insegnare che senza un certo grado di maladaptation non è possibile scrivere, dal momento che – come scrive Svevo stesso sempre nel diario – la storia finisce «quando si fa ciò che si deve senz’esitazioni e proteste».
Il modello dell’adapted mind non sembra quindi così omnicomprensivo come pretende di essere. Inoltre, la fiducia che Carroll ripone «nella forza della conoscenza empirica progressiva» (x) poggia su un pregiudizio etnocentrico, ovvero su di un atteggiamento che Darwin aveva già smascherato con le sue osservazioni etnografiche riportate nel Voyage of the Beagle (1839). Infatti, assieme a Robert Storey (Mimesis and the Human Animal. On the Biogenetic Foundations of Literary Representations, 1996), Carrol sviluappa una dura critica del paradigma post-strutturalista nelle scienze umane. In questo contesto argomentativo, Carroll scrive in Literary Darwinism che «lo spostamento concettuale che avviene quando ci si muove dalle scienze sociali darwiniane alle scienze umane, può essere collegato al salto tecnologico che si compie quando si viaggia dagli Stati Uniti o dall’Europa verso un paese del Terzo Mondo. Viaggiando tra i luoghi, ci si muove anche indietro nel tempo» (x). Freud, Marx, Sasussure, Lévi-Strauss e Derrida, per non parlare della stessa Beer, sarebbero rappresentavi, nella prospettiva di Carroll, di un tale Terzo Mondo intellettuale (il pregiudizio etnocentrico risiede ovviamente nel significato dispregiativo assegnato all’espressione «Terzo Mondo»).
2. Eric Rabkin a Carl Simon: generi in evoluzione
Un altro approccio evoluzionista alla letteratura è quello sotteso al Genre Evolution Project di Eric Rabkin e Carl Simon (University of Michigan). L’evoluzione, in questo caso, è intesa come un modello analogico, cioè come una metafora. Secondo Rabkin e Simon, «i prodotti culturali evolvono nello stesso modo degli organismi biologici», il che significa che quei prodotti sono «sistemi adattativi complessi votati al successo o al fallimento a seconda della loro idoneità o meno al proprio ambiente» («Age, Sex, and Evolution in the Science Fiction Marketplace”, Interdisciplinary Literary Studies, 2.2, 2001, p. 45). I due studiosi esaminano il caso della science fiction del XX secolo e la loro premessa teoretica poggia sulla piana traslazione dell’evoluzione, in quanto analogia, dalla natura ai romanzi.
Quando invece Darwin affrontava il tema della lotta per la vita in quanto analogia umana da applicare alla natura, egli era molto cauto circa questa traslazione. La lotta per la vita poteva funzionare, in quanto convenzione, niente più e niente meno che come una metafora applicata alla biologia. Questo non significava per Darwin che la metafora descrivesse l’essenza della natura, poiché non v’erano per lui né un definitivo fondamento fattuale né un Dio che permettessero allo scienziato d’argomentare in favore d’una tale essenza. Scrivendo che i «prodotti culturali» e gli «organismi biologici» sono entrambi «sistemi adattativi complessi», Rabkin e Simon sembrano però fornire una definizione predeterminata e non equivoca della science fiction, e per estensione del romanzo. In altre parole: la letteratura esisterebbe perché è efficace e ha successo.
Il tentativo di Rabkin e Simon non è senza predecessori. Già nel XIX secolo, Ferdinand Brunetiére (1849-1906) cercò di spiegare, in termini evolutivi, la natura dei generi letterari (il primo volume di Évolution des Genres comparve nel 1890). Come mostrava William Irvine, tuttavia, Brunetiére usò un’«analogia biologica» non solo «per spiegare l’evoluzione dei generi letterari, ma anche per spiegarla con precisione scientifica – fondando pertanto la critica su nuove basi» (“The Influence of Darwin in Literature”, Proceeding of the American Philosophical Society, 103, 5, 1959, p. 617). Irvine ironicamente osservava che «Brunetiére s’aspettò forse troppo da Darwin e da se stesso» (ibidem). Quest’osservazione e la sua sfumatura ironica potrebbe attagliarsi anche ai tentativi a noi contemporanei di fornire una Nuova Sintesi e di rendere conto della letteratura nei termini del riduzionismo biologico (un riduzionismo ben lontano dalle intuizioni di Darwin e del suo peculiare empirismo).
3. George Levine: tra biologia e ideologia
George Levine, in Darwin and the Novelists: Patterns of Science in Victorian Fiction (1988), mette giustamente in guardia contro il rischio di scambiare una metafora per una cosa. Tale errore può essere fatto in entrambe le direzioni: quando un’analogia umana è acriticamente utilizzata per la nostra comprensione dei meccanismi della natura, e quando ciò che osserviamo in natura è generalizzato come principio che regola la società. La sociobiologia, per Levine, commette il secondo errore. Per esempio, quando fa riferimento al darwinismo sociale per introdurre il suo argomento circa le tesi della sociobiologia, Levine osserva: «dire che la natura legittima una forma particolare di organizzazione sociale o un qualche insieme di valori morali o politici, significa compiere un enorme balzo metaforico: quale che è vero per i babbuini, per esempio, dovrebbe essere vero per gli umani. La sociobiologia sembra darwiniana, perfino nei suoi balzi analogici, tuttavia presume esattamente che un “fatto” biologico possa diventare una norma sociale (anche ammettendo che ci siano “fatti” ideologicamente incontaminati). Per questo la sociobiologia è riduzionista in modi politicamente significativi» (11). Gli argomenti di Darwin, in altre parole, non coincidono con quelli delle loro reintepretazioni ideologiche – una delle quali è il darwinismo sociale – «infatti contengono elementi contrari all’ideologia con cui sono abitualmente accusati d’essere complici» (12). Questi «elementi» possono essere reperiti nelle osservazioni etnografiche di Darwin (The Voyage of the Beagle) circa i danni del colonialismo e la lotta per la vita delle popolazioni indigene sotto la minaccia colonialista.
Per Levine, gli argomenti sociologici ed etnografici di Darwin dovrebbero essere inquadrati entro le coordinate dell’attacco che Darwin portò «a ciò che abbiamo imparato a chiamare “logocentrismo”. Egli pensò che le sue argomentazioni non potevano essere sviluppate se non al prezzo d’una radicale rottura con la tradizione che riguardava il linguaggio, la definizione e l’idea stessa d’una autorità ultima e assoluta. Prima ancora che Darwin esponesse la sua ricerca, la parola “specie”, per esempio, doveva essere sbrogliata dalla matassa concettuale che la legava alla realtà già da sempre esistente che, presumibilmente, doveva rappresentare» (86). Secondo Darwin, infatti, le specie non sono ontologicamente altro dalle varietà, e il termine che le descrive – come la «lotta per la vita» – è utilizzato, pragmaticamente, per convenzione («L’origine della specie non tratta dell’origine declinata al singolare, e nega la realtà della specie», così Levine, Darwin and the Novelists, p. 99). In maniera analoga, è un errore sostenere che Darwin abbia identificato un modello normativo di società, come quello del darwinismo sociale, che deriva piuttosto dalla riflessione di Herbert Spencer (un bel lavoro in lingua italiana che si contrappone alla lettura spenceriana e sociobiologica di Darwin, sebbene tenendosi alla larga dalla prospettiva post-strutturalista di Levine, è quello di Paolo Costa, Una idea di umanità. Etica e natura dopo Darwin, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2007).
4. William Flesch: quale altrusimo?
In Comeuppance. Costly Signaling, Altruistic Punishment, and Other Biological Components of Fiction (2007), William Flesch individua invece il fondamento del nostro interesse per la fiction nel fatto che «aborriamo i furfanti e facciamo il tifo per gli eroi» (Harvard University Press, Cambridge-London, 2007, p. ix). Flesch sostiene che la base di questo (piuttosto ristretto, a dire il vero) interesse per la fiction ha «un’origine biologica» (ibidem), la quale è parte di ciò che oggi chiamiamo evoluzione della cooperazione (Robert Axelrod, The Evolution of Cooperation, 1984). Flesch mette in dubbio la pretesa del paradigma adattazionista che lo story telling evolva perché fornisce un vantaggio nella competizione per l’adattamento alla vita o per il successo riproduttivo. Nella prospettiva di Flesch, infatti, il paradigma sociobiologico non spiega perché siamo emotivamente coinvolti nella lettura di storie di finzione, i cui personaggi non sono reali, ovvero, non ci sono prossimi in termini di parentela. Perché dovrebbe importarci – si chiede Flesch – dei personaggi di Shakespeare, se questi personaggi non condividono i nostri geni e non hanno rilevanza per la nostra lotta per la vita, nei termini della selezione naturale? Per rispondere a questa domanda, l’autore di Comeuppance propone di concentrarsi sull’altruismo e non sulla sopravvivenza individuale, come invece raccomanderebbe il gene egoista di Richard Dawkins (The Selfish Gene, 1976). Pertanto Flesch sviluppa, appoggiandosi ad Axelrod, l’idea espressa da Darwin in The Descent of Man (1871) secondo la quale l’altruismo evolve in base al meccanismo della selezione di gruppo: «i gruppi che al proprio interno includono degli altruisti, fanno meglio – in quanto gruppo – dei gruppi senza altruisti» (5). La nostra disposizione genetica a fare il tifo per gli eroi e ad esigere la punizione (altruistica) dei furfanti determinerebbe così il fatto che gli umani evolvono non solo sotto il profilo dell’adattamento individuale, ma anche come gruppo. Infatti, Flesch argomenta che la teoria dei giochi in economia ha dimostrato che un individuo è intenzionato a pagare qualcosa di suo (cioè a rinunciare ad alcuni anni fuori di prigione) pur di vedere punito un altro individuo per il crimine che hanno commesso insieme. Nelle molteplici versioni del gioco a due noto come Dilemma del Prigioniero, i partecipanti fanno meglio – in quanto gruppo, e non come individui – se cooperano alla confessione. In altre parole, la cooperazione ha un costo individuale, ma l’individuo è incline a pagarlo a tutto vantaggio del gruppo. Pertanto, leggere fiction o condividere le emozioni e le ansietà di personaggi irreali sarebbe un costo irrazionale che noi – i lettori – siamo disposti a pagare pur di andare incontro alla nostra innata inclinazione alla cooperazione, una disposizione incentrata sul senso di vendetta e sulla speranza che una qualche forma di giustizia sia stabilita al termine della storia.
L’autore fornisce l’esempio del King Lear di Shakespeare, quando il re esprime la sua rabbia impotente contro le figlie uscendo dalla dimora di Gloucester sotto una tempesta che infuria come i suoi sentimenti. La rabbia autodistruttiva di King Lear paga un prezzo irrazionale per segnalare ed esibire la propria autodistruttività. Un simile comportamento non è comprensibile entro i limiti del paradigma adattazionista, nel quale è il gene egoista a comandare, ma può essere spiegato come intenzione di punire, indirettamente, Goneril, Regan e Cordelia per ristabilire gli affetti famigliari e la continuità del potere politico (la famiglia e il regno sono, in questo caso, i gruppi evolutivi in cui altruismo e cooperazione risultano determinanti). È come se King Lear dicesse alle proprie figlie: «Vedete quanto dolore mi auto-infliggo, qui nella tempesta? Ciò accade perché voi siete colpevoli e io vi voglio punire, così che la nostra famiglia possa beneficiare, in conclusione, d’una punizione altruistica che pone la mia stessa vita in pericolo».
Le teoria di Flesch sembra essere problematica sotto più di un aspetto. Come rendere conto, da questa prospettiva, di romanzi in cui non ci sono eroi, ma solo furfanti? I Viceré (1894) di Federico De Roberto, ad esempio, è caratterizzato dall’assenza di cooperazione tra i membri della famiglia Uzeda – ognuno odia l’altro e lotta per ottenere l’eredità della matriarca Teresa Risà prima e di don Blasco poi. Senza un tale comportamento non-cooperativo non ci sarebbe alcuna storia. Tuttavia, come scrisse Leonardo Sciascia negli anni ’70, I Viceré è un grande romanzo emblematico, tra le altre cose, del disincanto post-risorgimentale dell’Italia unificata.
Inoltre, l’altruismo nell’argomentazione di Flesch è irrazionale solamente perché l’autore identifica la razionalità con «i modelli della scelta razionale propri del comportamento economico, ovvero: scelgo quelle cose che secondo la ragione determinano il miglior risultato per me» (così Flesch in Comeuppance, p. 22). Di conseguenza l’altruismo – ma potremmo fare la medesima osservazione quanto al leggere una storia – è per Flesch un «handicap auto-imposto» (27), il che suona in realtà riduttivo come l’idea che la fiction sia tutta una questione di punizione per i furfanti e di giusto trattamento per gli eroi cooperativi.
Flesch ritiene anche che quando leggiamo dei romanzi non ci identifichiamo, in primo luogo, con i personaggi, ma li tracciamo (keep track) e li monitoriamo nei loro comportamenti. «Con il termine tracking», l’autore intende «la percezione di un’azione o di un evento» (17): prima di immedesimarci in qualcuno – cosa che la lettura facilita, secondo quanto si potrebbe sostenere evocando sia Aristotele sia Freud – devo tracciare, monitorare, registrare – percettivamente – il comportamento del personaggio da imitare. Secondo Flesch, lo stesso accade tra i protagonisti d’un romanzo o su un palcoscenico: il fondamento fattuale delle loro interazioni è la percezione, anzi, il tenere traccia dell’empiricamente percepito.
Tuttavia, si potrebbe obiettare che già Darwin non pensava che l’esperienza sensoriale fosse il fondamento dell’evoluzione. Nell’ «Introduzione» a L’origine della specie e successivamente nel testo con la rielaborazione della metafora dell’imperfetta stratificazione fossile, Darwin faceva intendere che i risultati del tracciamento dell’esperienza dovevano essere interpretati, e scritti e riscritti per risultare minimamente significativi – da qui l’importanza ch’egli attribuiva appunto alle metafore, alle analogie. Per di più, il modello di razionalità affiorante da L’origine della specie non pare essere quello della scelta razionale propria del comportamento economico, a dispetto dell’importanza che Darwin attribuiva all’utilità come criterio della selezione naturale. L’utilità, nell’epistemologia darwiniana, non è l’unico parametro: Darwin prendeva le eccezioni e le anomalie molto seriamente, senza pretendere di spiegare tutto nei termini della profitability. Per esempio, che dire delle mostruosità e delle regressioni osservate in natura? Tra l’altro, anche se una specifica metafora sembra essere più utile – più economica – di un’altra per spiegare un fenomeno naturale, ciò non significa per Darwin che quella metafora renda conto della natura in se stessa. La tessitura – la trama – della nozione darwiniana di razionalità è più complicata del modello di razionalità della teoria dei giochi. Per concludere su Flesch, dovrebbe essere anche notato che tracciare il comportamento degli altri in un Environment of Evolutionary Adaptation (EEA) degenera facilmente in una sorta di incubo panottico in cui tutti monitorano – persecutoriamente, più che altruisticamente – tutti, al fine di punire i disertori, ovvero i personaggi non cooperativi, i furfanti. In ultima analisi, nella teoria di Flesch gli agenti sembrano comportarsi come gli individui nello stato di natura hobbesiano e nella semplificata immagine dell’evoluzione fornita dal darwinismo sociale: il che coincide paradossalmente con quanto Flesch vuole evitare quando critica, tramite l’altruismo e la selezione dei gruppi, l’unilateralità e, per così dire, l’anaffettività della selezione naturale.
5. Ancora post-strutturalismo
Nel saggio «Introduction: Darwin and Literary Studies» (Twentieth-Century Literature, 55, 4, 2009, pp. 423-444), Johnathan Greenberg presenta un’immagine, presa dal Fedone di Platone, che potrebbe essere impiegata anche per sottolineare i limiti della nozione di tracking utilizzata da Flesch. Quando Socrate, in attesa della morte, confuta Anassagora, egli paragona il filosofo a qualcuno che vuole spiegare perché egli – Socrate – sieda in tribunale, facendo ricorso all’interazione fisica di ossa e muscoli. Di certo, osserva Greenbeerg, la contrazione e il rilassamento dei muscoli rende ragione della postura di Socrate in tribunale, ma ciò non dice nulla del perché Socrate morirà dopo il verdetto (quel che è in gioco, nel dialogo platonico, non è il monitoraggio della meccanica d’un corpo, ma un’idea di giustizia).
Nello stesso saggio, Greenberg si spinge fino ad argomentare che perfino la sociobiologia poggia su presupposti che essa punterebbe a scardinare e a non riconoscere come tali, ovvero su «premesse derridiane» (430). Per esempio, «Dawkins definisce il gene in termini strutturalisti, persino decostruttivi. Egli argomenta che il gene non va compreso come una singola sequenza proteica (o cistrone) collocata in un singolo luogo del cromosoma, responsabile della sintesi d’una sola catena proteica, ma come una “causa” – identificata in quanto tale solo retroattivamente – d’un dato effetto fenotipico» (ibidem). Dawkins infatti scrive che «l’ “effetto” d’ogni causa aspirante tale diviene significativo solo all’interno d’un paragone, anche solo ipotetico, con almeno una causa alternativa. È insufficiente parlare degli occhi azzurri come dell’ “effetto” d’un dato gene G1. Se diciamo così, in realtà implichiamo l’esistenza potenziale di almeno un allele alternativo, chiamiamolo G2, e di almeno un fenotipo alternativo, P2, per esempio gli occhi marroni» (The Extended Phenotype: The Gene as the Unit of Selection, Oxford University Press, Oxford, 1982, p. 195).
Un gene dato e isolato, dice Dawkins, non ha alcun effetto fenotipico: quel gene può essere identificato come causa (del colore azzurro degli occhi) solo dopo che un paragone con almeno una causa alternativa (anche solo possibile, responsabile d’un altro colore degli occhi) è stato istituito. Da questo punto di vista, il gene fa mostra d’una natura comparativa e differenziale – al pari delle forme darwiniane di vita, sempre tra loro interdipendenti. Questo significa che il gene non è l’origine – singola e puntuale – della selezione naturale e della lotta per la vita. L’origine non c’è, ci sono solo differenze.
D’altra parte, Jacques Derrida, già nella Grammatologia (1967), afferrò la possibile connessione tra la nozione di traccia scritta – tra la sua presenza-assenza – e la struttura del DNA. La decostruzione della presenza, sosteneva Derrida, si realizza tramite la decostruzione della coscienza (dell’io cartesiano presente a se stesso) e quindi tramite la nozione di traccia. Apparsa in Nietzsche e in Freud, tale nozione per Derrida s’era infine affermata in campo scientifico e specificamente in biologia (James Watson e Francis Crick vinsero il Premio Nobel nel 1962, cinque anni prima della pubblicazione del testo di Derrida).
Seguendo questa linea argomentativa, Elizabeth Grosz osserva che il problema dell’origine è uno dei più complessi del darwinismo, un tema non sempre discusso in maniera approfondita, così da risultare «il punto in cui l’analisi di Darwin sorprendentemente anticipa la différance di Derrida» (The Nick of Time: Politics, Evolution, and the Untimely, Duke University Press, Durham, 2004, p. 21).
Sembra che l’origine, il darwiniano mistero dei misteri, resista a ogni chiarificazione essenzialista, e che non cessi d’esigere ipotesi e, per estensione, narrazioni.
Se questo è il quadro, per quanto parziale, della contesa letteraria intorno a Darwin, va osservato che mentre molto è stato scritto su Darwin e il romanzo vittoriano (un caso sopra tutti: Middlemarch di George Eliot), meno è stato finora fatto per il romanzo italiano tra naturalismo e modernismo.
[Immagine: Graffito di Darwin a Sheffield, UK (mge)].