di Sergio Benvenuto
Una paziente paragona l’analisi a un romanzo a puntate di cui si vorrebbe con ansia sapere la fine e che si vorrebbe non finisse mai. (Grottesche, 276)
1.
Trent’anni fa, il 21 dicembre, moriva Elvio Fachinelli (1928-1989). Egli è ormai considerato, anche all’estero, uno dei (pochi) psicoanalisti importanti che l’Italia abbia avuto (a parte i viventi). Comunque la mia non sarà un’agiografia di Fachinelli; Elvio detestava le agiografie. Per questo trentennale la casa editrice Italo Svevo ha pubblicato un testo inedito di Fachinelli, Grottesche, a cura di Dario Borso.
Eppure una fama persistente perseguita Fachinelli: quella di essere “inattuale”. Molti dicono che il suo pregio è di essere inattuale – pensando alle famose Considerazioni inattuali di Nietzsche. Da alcuni anni è un vezzo di molti intellettuali di sinistra vantarsi di essere inattuali – leggi: di non essere ascoltati, di non essere più al passo degli (orribili) tempi, di non avere più alcuna incidenza sul pensare comune… Questo perché si pensa a Fachinelli soprattutto come a uno dei rappresentanti più noti del movimento di pensiero tipico degli anni 60 e 70, improntati alla “contestazione”, a un radicalismo di sinistra che Nanni Moretti descrisse bene nei suoi primi film. Ma se Fachinelli fosse stato uno dei tanti maîtres à penser delle correnti militanti dell’epoca – marx-leninismo extraparlamentare, femminismo, emancipazione LGTB, diritti civili, ecc. – non gli dedicherei certo un articolo. E non perché io consideri irrilevanti il femminismo, l’emancipazione omosessuale, i diritti civili, e molte cose che emersero allora, anzi, ne sono un forte sostenitore. Ma perché Fachinelli non è riducibile a tutto questo che oggi prosegue, il che lo renderebbe davvero attuale, ma nel senso banale della political correctness. Alcuni lo elogiano in un’aura nostalgica, come momento di una recherche du temps perdu sessantottesco.
Certamente Fachinelli partecipò a tutti quei movimenti, anche attraverso i suoi articoli su L’Espresso (che allora era il settimanale obbligatoriamente letto da tutti noi intellettuali di sinistra), cosa che contribuì a renderlo celebre all’epoca. Fondò una rivista, L’erba voglio, dove tra l’altro dette spazio a un eroe-simbolo del movimento omosessuale, Mario Mieli. Ma vi partecipò con un’angolatura particolare, quella dell’analista, e con un tocco ironico alquanto raro in un’epoca di impegno che prendeva spesso toni cupi e faziosi. In effetti, se oggi si rileggono i suoi articoli su riviste e giornali, si nota che in realtà bersagli della sua ironia critica non erano i nemici ufficiali dell’epoca – i democristiani, la destra, i capitalisti – ma proprio i compagni di sinistra, che, anche se benevolmente, strapazzava. Basti leggere come in Grottesche descrive un convegno di Psichiatria Democratica, la società che faceva capo a Basaglia e quindi artefice della legge 180 sulla psichiatria:
Convegno di Psichiatria Democratica. L’organizzazione di vertice (tradizionale; relazioni, interventi preparati: letti) fa scoppiare l’assemblea. Movimenti, discorsi a parte, brusio. Come nel movimento studentesco o in alcuni convegni di Lotta Continua, con la voce dell’oratore che scende a pioggia, inascoltata. La presidenza è portata allora a richiami morali, o vagamente repressivi. L’assemblea è viva e unitaria, per un momento, solo nell’applauso, a tutti, indiscriminatamente, come in un partito; applauso che è insieme di sostegno per chi ha parlato, rimorso per non averlo ascoltato, e sollievo perché ha finito di parlare. La delusione intellettuale è compensata, alla fine, dal piacere di ritrovarsi insieme, in una situazione che dopotutto richiama la «lotta». (Grottesche, 210)
La trovo una deliziosa satira del tipo di assemblee movimentiste che si facevano all’epoca (anni ’70).
In fondo, Fachinelli piaceva proprio perché criticava dall’interno quel mondo della sinistra radicale in cui si inscriveva (almeno fino alla fine degli anni 70, poi cambiò direzione), così come non risparmiò critiche alla società psicoanalitica di cui fece sempre parte, la Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Nel 1969, insieme a un analista svizzero con un nome altisonante – Rothschild – organizzò una contestazione al Congresso Internazionale di psicoanalisi preparato proprio dalla SPI a Roma, mise su anzi un anti-Congresso a cui fece venire anche Lacan. Ma queste non furono mai buone ragioni per essere espulso dalla SPI, e nemmeno per auto-espellersi da essa. Quando gli chiesi perché non si fosse staccato da una Società che criticava, mi disse che in fondo la SPI era come la sua famiglia, criticabile ma la sua. Così come non aveva mai divorziato dalla sua prima moglie, Herma Trettl, anche se aveva avuto altre compagne, e anche una figlia, Giuditta, da una delle sue compagne. Fachinelli non era solo libertario, aveva anche uno spirito libertino.
Ho cercato di definire il fondo della posizione teorica di Fachinelli (persona di vastissima cultura) scrivendo una volta che era vitalista. Questa definizione mi è stata criticata. In effetti la definizione era inadeguata: la sua visione della psicoanalisi e della vita era piuttosto dionisiaca, nel senso che questo termine ha da Nietzsche in poi. Quegli anni ruggenti, 60 e 70, furono un’esplosione di dionisismo, anche se venati di marx-leninismo. Per dionisismo intendo l’appello a una creatività spontanea, sfrenata, gioiosa e giocosa, della vita, che spezza le rigide armature mortifere delle istituzioni, delle repressioni, delle rimozioni, di quella pietrificazione autoritaria che spesso Fachinelli opponeva alla dinamica della vita [ho commentato questi temi in: http://www.sergiobenvenuto.it/ilsoggetto/articolo.php?ID=91]. Fachinelli si voleva un militante della vita dionisiaca. Perciò non era marxista, anche se lo si crede tale, ma piuttosto anarchico, come Foucault. E la sua perenne antipatia per il partito comunista di Berlinguer era segno di questo suo rifiuto del marxismo accigliato; mentre simpatizzava con il libertario Pannella, ammirando anche la sua grande abilità nell’usare i media. Perché Fachinelli non indulse mai alla retorica anti-tecnologica, al rifiuto snob e/o retrogrado dei media, alla nostalgia agro-pastorale di un Pasolini ad esempio, al contrario, era attento ai nuovi portati dalla tecnologia. Sono convinto che, per esempio, non avrebbe condannato le analisi fatte via skype, come sempre più si fa oggi, e sempre più si farà.
Ma il problema che pone ogni interpretazione dionisiaca della psicoanalisi – che ritroviamo in Bataille, Lacan, Lyotard, Deleuze, anche in Marcuse e Reich – è duplice. Uno direi pratico, l’altro in senso lato teorico.
2.
Problema pratico per un analista di sinistra: la psicoanalisi, checché si dica, non è “socialista”. E non perché Freud fosse anti-bolscevico e di opinioni politiche liberali, cosa che potrebbe restare una sua faccenda privata. La psicoanalisi non nasce, come la psichiatria europea, negli ospedali psichiatrici pubblici, ma nella pratica privata di un Freiberufler come Freud, di un professionista freelance. Nell’analisi, lo stato – ovvero l’insieme della società – non deve mettere becco: è una questione tra due persone, analista e analizzante, come in una coppia amorosa che mai si sposerà. Freud non ha lavorato come psichiatra ospedaliero, né ha fatto alcuna carriera universitaria, benché si facesse chiamare Herr Professor. È rimasto sempre un marginale da questo punto di vista, malgrado la sua celebrità in vita. E la psicoanalisi mantiene tuttora questo marchio di lateralità non-istituzionale. Da sempre i profani mi chiedono se io abbia una laurea in psicoanalisi! Ovviamente non esiste, sarebbe come dare una laurea in “filosofia fenomenologica” o in “musica barocca”. Fachinelli sapeva così bene che la teoria psicoanalitica è inscindibile da una certa pratica sociale che ha scritto alcune bellissime pagine su Freud come professionista (in Claustrofilia, Adelphi). Non solo il setting analitico, ma tutta la teoria che ne è derivata, discende da questo genoma (che molti marxisti comprensibilmente detestano): la psicoanalisi è liberal nel senso americano di sinistra liberale, è “un contratto”, come oggi si usa dire, tra due persone, senza alcun terzo garante. Questo liberalismo è talmente introiettato negli analisti, anche in quelli che si dicono di estrema sinistra, che porta molti di loro a dire peste e corna del sistema tedesco e austriaco. In questi paesi lo stato rimborsa al paziente dell’analista 300 sedute, praticamente due anni di analisi (ragion per cui la maggior parte delle analisi in Germania e in Austria durano due anni…), cosa che considero molto “socialista”: lo stato riconosce che l’analisi è una cura socialmente utile e quindi la rimborsa. Lo stato però vuole anche controllare, è ovvio, l’analista a cui procaccia il pane: l’analista deve scrivere lunghe relazioni in cui deve dimostrare che le sedute hanno prodotto tali e tali effetti, insomma, lo stato vuole proteggere il consumatore di psicoanalisi dai ciarlatani. Questo per molti leftists è intollerabile: essi rivendicano l’esclusione del rapporto analista-analizzante da ogni sguardo pubblico, il che è alquanto paradossale per sedicenti marx-leninisti. Ma gli analisti hanno interiorizzato la mentalità liberal-libertaria di Freud (e di tutti i grandi analisti) per cui lo stato non può imporre una sua nozione di Bene agli individui. Solo l’analista e il suo analizzante sono in grado di valutare cosa sia “bene” per un soggetto.
Ma Fachinelli era anche socialista, da qui il dissidio interiore, il suo senso di colpa, anche, di svolgere una professione liberale. Perciò l’esigenza di portare la psicoanalisi nel sociale. Ma come? Non basta prendere in analisi pazienti poveri che pagano una tariffa simbolica per dire che la psicoanalisi va nel sociale! Perciò già negli anni 60 e 70 sorsero psicoterapie che puntavano a una “democratizzazione” dell’analisi. Come l’analisi di gruppo, per esempio, e lo psicodramma: molti pazienti si ritrovano in gruppo una volta alla settimana, il che permette di fare analisi anche a degli squattrinati. E poi le psicoterapie familiari, in auge in Italia, che curano l’intera famiglia in cui è inchistato “il paziente designato”, che prospettano soluzioni in pochi mesi. Oggi le psicoterapie che chiamerei popolari – poco costose, con un termine prestabilito, più comunitarie – si sono moltiplicate. Lo stato ne riconosce centinaia, attraverso il Quadriennio in Psicoterapia che ogni psicologo o psichiatra deve fare per poter affiggere sulla propria porta la targhetta “psicoterapista” senza essere legalmente perseguito. In questo quadro, la psicoanalisi viene considerata una pratica di nicchia, un lusso di persone facoltose che possono permettersi di pagare un analista per anni. Fachinelli sentiva questo problema – come, alla stessa epoca, Enzo Morpurgo e Diego Napolitani, tutti operavano a Milano – e pensava alla quadratura del cerchio: non abbassare la psicoanalisi a livello di una psicoterapia di massa, ma, come pensa ogni intellettuale vero, elevare la massa al livello della psicoanalisi (vedi anche: http://www.psychiatryonline.it/node/7674).
È possibile portare un ascolto psicoanalitico in luoghi “popolari” come le ASL, le scuole, le cliniche psichiatriche, i SERT, ecc.? Molti analisti fanno il doppio mestiere: praticano come psichiatri o psicologi nei servizi pubblici, e poi hanno una pratica privata da analisti. Loro dovrebbero dirci se vivono una schizi oppure se riescono a portare quel che si chiama “l’ascolto analitico” nella baraonda del malessere sociale, nella complicatezza talvolta esplosiva dei disagi. In un certo senso, il destino della psicoanalisi si decide fuori dal setting analitico.
In ogni caso Fachinelli non pensò mai di diventare “analista nei servizi pubblici”. Negli anni 60 si fece promotore di un asilo anti-autoritario a Milano, privato appunto, in cui era escluso ogni tipo di coercizione sui bambini. All’epoca in tutto l’Occidente si tentava una pedagogia anti-autoritaria; l’esempio più famoso era la Summerhill School di A.S. Neill in Inghilterra, ispirata al pensiero di Wilhelm Reich. Come ogni libertario, Fachinelli si teneva lontano dallo stato, preferiva l’iniziativa privata.
Il desiderio di far uscire la psicoanalisi dalla nicchia lo portava a fare analisi alquanto brevi. Diceva che un’analisi che duri più di quattro anni è fallita (invece tanti analisti pensano che dopo quattro anni inizia veramente un’analisi…). Una volta che un amico disse, in pubblico, che era in analisi da quattro anni, Fachinelli canticchiò un po’ beffardo: “Cumm’e bello lu primmo ammore… Ma o sicondo è chiù bell’ancora”. È il rischio che metterà in luce in Claustrofilia: analista e analizzante rischiano di rinchiudersi in un idillio a due, senza fine, che li ripara dal mondo reale. Per lui l’intervento analitico doveva essere puntuale, piccoli abili colpi di fioretto, la battuta che ti fa svoltare, non una convivenza annosa che assomiglia a un matrimonio in bianco.
C’era indubbiamente una ambivalenza di Fachinelli nei confronti della psicoanalisi, per cui era apprezzato anche da chi diffidava della psicoanalisi. Molti suoi scritti sono un vero e proprio attacco a vari tabù degli analisti. Ad esempio, ha discusso la questione del denaro nell’analisi: il lavoro dell’analista, che dà qualcosa dell’ordine dell’eros in cambio di un onorario, è strutturalmente simile a quello della puttana. Quando apparve in televisione, citò un aforisma di Karl Kraus, il viennese fiero oppositore della psicoanalisi: “Loro hanno la stampa, hanno la Borsa, ora hanno anche l’inconscio!” Chi sono questi loro? Quelli che danno il titolo all’ultimo film di Sorrentino su Berlusconi? Ma dire cose del genere in una trasmissione tv che intendeva celebrare la psicoanalisi era alquanto provocatorio.
Eppure Fachinelli credeva veramente nella psicoanalisi. Ma non vi credeva per quella che essa era all’epoca, bensì per quella che avrebbe potuto essere, un giorno. Ovvero, diventare completamente liberal, libertaria, cessando di essere liberale, mercantile.
3.
Credo che le critiche di Fachinelli a (certa) psicoanalisi siano più che mai attuali. Nel 1988 avemmo una discussione su come si formano gli analisti nella SPI (http://www.journal-psychoanalysis.eu/sullimpossibile-formazione-degli-analisti-conversazione-di-sergio-benvenuto-con-elvio-fachinelli1/) che uscì, cosa grave, su L’Espresso, ed ebbe vasta eco. Il suo era un attacco al criterio cardine della SPI e delle altre società dell’International Psychoanalytic Association: l’analisi detta didattica. Si sa che un analista deve lui stesso sottoporsi a un’analisi per essere accettato come analista, ma per la SPI non basta un’analisi diciamo comune, occorre che il candidato ne faccia un’altra con un analista didatta riconosciuto tale dalla SPI, per un numero cospicuo di ore. Fachinelli diceva che l’analisi didattica era qualcosa di spurio, perché il didatta è anche un giudice, e l’analisi cessa di essere tale per diventare una specie di esame: l’analizzando (così si chiama il paziente nella SPI) deve dimostrare che non è un pazzo e che merita di essere riconosciuto dall’istituzione come analista. Ma l’analisi ha come condizione la sua completa libertà da secondi fini “di carriera”. Non erano critiche nuove, Lacan aveva demolito il concetto di analisi didattica decenni prima; Mario Trevi diceva cose simili in ambito junghiano; ma quella conversazione tra Fachinelli e me creò subbuglio. Più di 30 anni sono passati da allora, ma l’analisi didattica esiste ancora: le critiche di Fachinelli sono attuali allora come oggi.
Fachinelli tentò seriamente di usare l’ascolto psicoanalitico per descrivere la politica del suo tempo, anticipando in qualche modo una corrente anglo-americana chiamata Cultural Studies. Cosa di cui si sente la mancanza oggi: sono ben pochi gli interventi degli analisti sulla vita politica di oggi, per render conto della grande conversione neo-fascista delle masse per esempio, che dicano qualcosa di originale e di perspicuo.
Ma la sua attualità riguarda anche il secondo punto problematico di ogni psicoanalisi ispirata a un pensiero dionisiaco, quello più teorico. La formazione intellettuale di Fachinelli veniva soprattutto dal mondo austro-germanico, in particolare dalla scuola di Francoforte e da Walter Benjamin. Ma aveva provveduto a sciacquare i suoi panni germanici nella Senna, e aveva assimilato anche il post-strutturalismo parigino. Fu uno dei primissimi italiani a leggere Lacan, e andò a trovarlo a Parigi dichiarandosi suo seguace. Lacan, che aveva grande stima in lui, gli propose di diventare presidente della società lacaniana in Italia, che intendeva fondare. Ma Fachinelli rifiutò, perché vedeva una società lacaniana come una seconda SPI – preferiva essere soldato nella propria società che vedeva malconcia, piuttosto che essere generale nella società dell’Altro.
Come Lacan, Fachinelli si opponeva all’interpretazione della psicoanalisi che era stata imposta dall’Ego Psychology, sulla scia dell’opera di Anna Freud. Secondo questa concezione l’Io – considerato parte sana dello psichismo, di contro a quel mascalzone dell’Es e a quello sbirro severo del Super-Io – deve essere rinforzato dall’analisi in modo da resistere, come una fortezza assediata, agli attacchi opposti e congiunti delle pulsioni da una parte, e del Super-io (delle coartazioni morali) dall’altra. L’Io è una cittadella minacciata che deve adattarsi all’ambiente circostante per sopravvivere. Questa concezione proviene da una certa parte della visione di Freud dell’inconscio, come luogo in cui viene ricacciato tutto ciò che ci dà fastidio. Invece per Fachinelli (e per un certo Freud) l’inconscio non è solo la pattumiera del rimosso che non troverà mai il suo incineratore, ma è una forza creativa e dirompente che tende a far saltare i sistemi di difesa. È l’idea di inconscio che Freud ha fatto emergere in un saggio – considerato irrilevante dal mainstream psicoanalitico – Il motto di spirito nei suoi rapporti con l’inconscio. Qui Freud ci descrive l’humour non come il ritorno di qualcosa di rimosso, ma come un processo creativo che ci dà piacere, difatti ci fa ridere. Nelle battute di spirito l’inconscio non ci infligge guai, e nemmeno sogni, ma ci libera nel riso. Si prenda una battuta qualsiasi, anche assurda: “Perché gli elefanti hanno le zampe rotonde?” Risposta: “Per non cascare nelle buche quadrate”. Da ragazzo questa battuta mi fece molto ridere. C’è qui ritorno di qualche rimosso? No. La battuta può farci ridere perché avviene una trasgressione, certo, ma non della rimozione, bensì di quella che chiamerei “spiegazione scientifica”. La potremmo considerare una satira flash delle spiegazioni “darwiniste” che oggi vanno per la maggiore, e che nelle università si insegnano come psicologia evoluzionista.
Quando facciamo una battuta, non muoviamo delle cose rimosse, ma giochiamo, per lo più col significante. Quindi l’inconscio non è solo rimuovere, reprimere, metter via, ma è anche una forza attiva, trasgressiva e creativa. L’idea fachinelliana dell’inconscio è quindi un’estensione del Freud del Witz, del motto di spirito. E difatti giungerà a dire che ciò che tendiamo a evitare, in fondo, non sono le cose che veramente ci disturbano e ci fanno male, ma qualcosa che lui stesso chiamerà gioia eccessiva. È il paradosso dell’umano, sia a livello della vita individuale che di quella collettiva: che fuggiamo da una gioia che consideriamo sovrabbondante. Il che si congiunge al tema, così importante nell’ultimo Lacan, del godimento come essenza stessa dell’umano.
4.
Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo? Freud si era posto il problema, e nel suo saggio forse più importante, Al di là del principio di piacere, aveva detto che Eros – la sessualità e la vita – si scontra sempre con Thanatos, una pulsione mortifera che porta a ripetere sempre l’identico, a trasformare il flusso organico in fissità inorganica. Ma la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo. E per Fachinelli il problema era tanto più acuto proprio perché in una visione dionisiaca la vita tende sempre a traboccare. È un po’ il dramma dell’etica moderna, la quale afferma che gli uomini nascono tutti liberi ed eguali, e poi la società li asservisce e li sperequa. Ma perché accade questo, direi, puntualmente? E così le società liberali che vogliono realizzare la più completa libertà individuale hanno creato delle società dove per molti la sola libertà è di vivere nella miseria, mentre le società socialiste, egualitarie, hanno creato società in cui, come disse Orwell, “tutti gli animali sono eguali, ma i porci sono più eguali degli altri”.
Penso ai commenti scritti da Fachinelli sull’esperienza di asilo non-autoritario di cui abbiamo detto: non è affatto un inno agli effetti magnifici della pedagogia non repressiva! Fa notare che, lasciati completamente liberi a se stessi, i bambini tendono a creare tra loro, spontaneamente, una società semi-fascista o mafiosa, dove ci sono bulli e vittime designate. E gli adulti, che li lasciano del tutto liberi, sono disprezzati. Quel suo intervento va letto insomma come un’espressione di dubbio sugli effetti di una pedagogia libertaria.
Penso al bell’articolo, “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (in Il bambino dalle uova d’oro), che narra la sua esperienza in un gruppo di studenti trentini, in pieno 1968, tutti della sinistra antagonista; lui fu invitato come analista nel gruppo. In modo molto acuto, Fachinelli mostra come questo gruppo, pur essendosi costituito su una base di radicalismo aperto al mondo, si trasformi poco a poco in una setta, dalla quale occorre purificare, epurare – come faceva lo stalinismo – individui designati di volta in volta come “impuri”, pericolosi per il gruppo stesso. Sin dal 1968 Fachinelli vide quella che poi sarebbe stata la deriva della sinistra radicale verso i settarismi dei vari gruppetti e infine verso il terrorismo suicida, oltre che omicida. Fachinelli, come dicevo, non fu un agiografo dei movimenti del 68, pur partecipandovi: indicava sempre, usando il grimaldello disincantante della psicoanalisi, l’emergere dell’anti-vita all’interno di tutti i progetti di liberazione della vita. In questo senso, Fachinelli è un maestro: proprio perché ha decostruito, non costruito.
Difatti Fachinelli non ha creato un’istituzione né una scuola fachinelliana. Dopo che egli rifiutò la proposta di Lacan di essere il presidente della scuola lacaniana in Italia, mi disse: “Lacan sta commettendo lo stesso errore che commise Freud. Vuole creare un’istituzione, che fatalmente diventerà un Esercito o una Chiesa”. Se avesse creato una società Fachinelli, assisteremmo oggi a reciproche espulsioni o auto-espulsioni tra fachinelliani, a Summae ufficiali o dogmatiche del Fachinelli-pensiero, a lotte intestine per assumere potere nel campo… Invece Fachinelli non ha avuto discepoli, solo ammiratori e amici. Io sono tra questi. Non ha formato falangi di allievi che innalzano un qualche libretto rosso, ma ha avuto persone che gli volevano bene. E costoro oggi, anche quelli che non l’hanno conosciuto di persona, ne rilanciano l’opera problematica, sfaccettata. Forse, le scuole annullano quel che conta: la trasmissione per affetto.
“ Martedì 5 febbraio 2008 – « Di qui la differenza rispetto a un diario comune, che cerca di approfondire o di abbellire chi lo scrive. In questo caso invece la ripetizione tende continuamente a farsi copia, duplicato addirittura; Léautaud non ha molte vite, come si diceva una volta dei romanzieri, ne ha due: una che si consuma e passa ogni momento, l’altra – la stessa – che rimane sulla carta. » (Elvio Fachinelli, Prefazione a Paul Léautaud, Settore privato / Diario personale, 1968 [1956]) “.
Non risulta affatto simpatico il signor Elvio Fachinelli da questo articolo .
“Perché Fachinelli non indulse mai alla retorica anti-tecnologica, al rifiuto snob e/o retrogrado dei media, alla nostalgia agro-pastorale di un Pasolini ad esempio, al contrario, era attento ai nuovi portati dalla tecnologia. “
Mi ha scoraggiata…
Il postmodernismo, ingenuo o navigato, ammesso o smentito, di ammiratori e ammiratrici, ex sodali o ex compagni-e di Fachinelli, ha trascurato -guarda un po’ – proprio la possibilità di un uso meno amicale, più pubblico, critico e nuovamente dissidente dell’opera di Fachinelli.
[…]
In Fachinelli troveremmo una capacità oggi persa di nominare e pensare da vicino le sofferenze individuali e collettive che la scuola continua ad infliggere sotto la sua verniciatura buonista e manageriale. Quando egli ricordava a privilegiati fruitori privati e alla sua iperselettiva Istituzione che la psicoanalisi «ha elaborato uno specifico campo di osservazione per alcuni aspetti essenziali dell’individuo e, in misura minore, del gruppo concreto, ma che di fronte a processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui e dei gruppi si trova disarmata, oppure ricorre a extrapolazioni psicologistiche ingenue quanto fuorvianti» [15], offriva strumenti critici che ancor oggi servirebbero a studenti ed insegnanti per opporsi agli “psicologhi” dalla risposta fin troppo pronta, che purtroppo osannati o invocati a gran voce saranno sguinzagliati nelle scuole per addomesticare il “disagio giovanile” o blandire nevrosi e depressioni del tartassato corpo
Se poi si ricordasse anche che Fortini era insegnante (e lo è rimasto fino alla fine), si guarderebbero sotto altra luce le sue preoccupazioni di educatore, non assimilabili a quelle di psicanalista. Ringhioso sacrestano della Morale Repressiva, da incasellare nella spregiata categoria dei «custodi del terreno dei bisogni» o interlocutore indispensabile per elaborare qualsiasi autogoverno (individuale e collettivo) del desiderio dissidente e non ridurre il Mondo a Niente? Insomma, non è impossibile o vano ripulire i contributi di un’intelligenza aperta come quella di Elvio Fachinelli, sottrarla a certi culti di fine secolo e riportare quel che ci resta di Cultura Critica dei suoi anni nel vortice torbido (ma a volte corroborante) dei saperi quotidiani, compresi quelli carsicamente serpeggianti nella povera scuola italiana.
[15] Elvio Fachinelli, Il deserto e le fortezze, in L’ERBA VOGLIO (1971-1977). Baldini & Castoldi 1998, pag.55.
(da GENNAIO 1999: E IL DESIDERIO DISSE: NIENTE! In margine a un convegno su Elvio Fachinelli
di Ennio Abate http://www.backupoli.altervista.org/article.php3?id_article=150&var_recherche=FACHINELLI)
“ 28 giugno 1985 – « Nell’ultimo catalogo Einaudi (aprile 1985) tra gli autori e i testi della casa con compare più Toni Negri col suo libro Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito nella collana Nuovo Politecnico, anno 1983, giunto nello stesso 1983 alla seconda ristampa e ancora ben presente nelle librerie. Personalmente, non amo né l’autore né il testo in questione. Ma mi ha colpito, come un’improvvisa amnesia, il fatto che entrambi siano spariti fisicamente dal catalogo, quasi non fossero mai stati letti, scelti e pubblicati. Semplice tassello di una correzione d’immagine, ritenuta necessaria dalla casa editrice? E dobbiamo pensare che l’autore sia d’accordo con la propria cancellazione? O che l’abbia adirittura sollecitata? Lascio il giudizio ai lettori. – Elvio Fachinelli. – Milano » (Dai giornali) “. [*]
[*] Tanto per scoraggiarsi un altro po’.
@ Barra
Alle miserie d’Italia… Benvenuto!
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del “paradosso della ripetizione ” …
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi – sopra: http://www.leparoleelecose.it/?p=37444#comment-424339) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto – antropologicamente – sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: “La mente estatica” (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta (“Sulla Spiaggia”, 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella “nave” di Galilei: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5535), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra …
IL “GIARDINO” DEVASTATO E LE PIANTE . “Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani – facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica. Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante. Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto – la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa” (dal volume “Etica e politica delle piante”, di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola: http://www.leparoleelecose.it/?p=36270).
Federico La Sala
SEGNALAZIONE
E il desiderio disse: niente!
http://www.poliscritture.it/2020/01/11/e-il-desiderio-disse-niente/
Stralcio:
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi: ” Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo? “. E deve ammettere che ” la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo”. E allora? Confermo pienamente quanto scrivevo da isolato in quel lontano 1998: “Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo”. [E. A.]
PER LA CRITICA DELLA “RAGIONE OLIMPICA” E DELL’ECONOMIA POLITICA. Dal labirinto si può uscire …
Platone civettava con la nottola della figlia di Zeus (Atena e Aracne: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5907 ), Marx civettava con Hegel e la nottola di Minerva , Della Volpe e Colletti non sono mai scesi nella “stiva” della “nave” di Galilei, e Freud civettava ancorae di nuovo con Platone : «Freud e Ferenczi si rifecero esplicitamente per fondare l’istituzione» psicoanalitica alla “Repubblica” di Platone (cfr., mi sia consentito, “CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI” – http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568), ma, infine, “CHI” SIAMO NOI, IN REALTA’ (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198)?! Boh e bah!
Federico La Sala
Possibile che ciascuno dica la sua su Fachinelli e nessuno entri nel merito delle cose dette? Come se si
parlasse col muro?
Terribile. Mortuario.
Provocando:
– Sergio Benvenuto, autore di questo scritto, si degnerà di replicare?
– Adriano Barra non sa che siamo fin troppo scoraggiati e abbiamo bisogno almeno ogni tanto di una fraterna pacca sulla spalla?
– Federico La Sala, oltre a indicarci (come ho fatto io, ma più sobriamente) i link ai suoi scritti, potrebbe farci capire casa pensa dell’articolo di Sergio Benvenuto?
– E i redattori di LPLC2 ogni tanto potrebbero far conoscere una loro opinione sugli articoli che selezionano e pubblicano?
Un saluto
“PERVERSIONI”, “FREUDOLENZE”, E CONTINUARE A MENARE IL “LACAN” PER L’AIA ….
“PERVERSIONI. Sessualità, etica, psicoanalisi” : […] Al di là della logica dello specchio e dell’opposizione (con o senza dialettica), il lavoro [di SERGIO BENVENUTO] “mette in evidenza l’esercizio di una ragione aperta (ma non popperiana) e critica, potremmo dire – chiasmatica, che riprende e porta avanti alla grande la lezione avviata da Freud (e ripresa anche da Elvio Fachinelli – mi riferisco in particolare e soprattutto al suo ultimo lavoro, La mente estatica del 1989). L’intera psicoanalisi ne esce semplicemente ‘terremotata’, e l’antropologia e l’etica anche. Aria pura in ‘Danimarca’, e non solo!
Benvenuto, in cammino e in dialogo con Freud e soprattutto con “Masud Khan, Jacques Lacan e Robert Stoller”, ma (se vogliamo, pur non essendo espressamente ricordato, e ripeto) anche con Fachinelli (si cfr., a riguardo, la sua importantissima indicazione – un vero e proprio punto di svolta antropologico e non solo psicoanalitico – ‘segnata’ Sulla spiaggia, in La mente estatica), con il coraggio delle origini (di Freud, come degli altri), “non chiudendosi nel narcisismo della prassi e della teoria” proprio della psicoanalisi ‘normalizzata’, “ma investendo direttamente forme di sapere e di discorso limitrofe”, supera fossati e barriere, mette in connessione “accordi slegati”, trova “il filo rosso tra i suoi vicoli di Napoli e la Berggasse viennese” di Freud, riesce a comporre il tutto in “una sinfonia”, e giunge (finalmente) a dirci e “a dire ancora qualcosa di fresco e convincente” – dentro e al di là del paludoso e mefitico orizzonte del nostro presente storico… e a fare un coraggioso passo al di là dell’edipo, al di là della tradizione cartesiana ed hegeliana e marxista, e al di là della tradizione ‘cattolico’- romana!!! (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=283).
Federico La Sala
Profumo di anarchia…..
È stato bello leggere ciò che ha scritto. Davvero