La Sicilia tra letteratura e cinema

di Emiliano Morreale

Leonardo Sciascia, in un suo noto saggio del 1963, fra le interpretazioni cinematografiche  della Sicilia metteva quella dell’erotismo. Se la Sicilia “mondo offeso” nasceva all’ombra di Vittorini e la Sicilia luogo del mito poteva essere sintetizzata dal nome di Quasimodo, il genius loci del “teatro dell’eros”, come lo chiama lo scrittore, era ovviamente Vitaliano Brancati. In realtà, il modello di Sciascia sembra quasi predire una realtà più che riscontrarla. Nel 1963, i film di derivazione brancatiana nel senso della commedia erotica erano in fondo solo Il bell’Antonio (1960) di Bolognini e soprattutto il figliastro Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi. (I film nati dalla collaborazione con Luigi Zampa, infatti, da Anni difficili a L’arte di arrangiarsi, riguardano più la corda civile e politica dello scrittore catanese). Solo qualche anno dopo si avrà la migliore versione cinematografica del Brancati erotico: Don Giovanni in Sicilia (1967), un felice tradimento che Alberto Lattuada mette in opera utilizzando il testo, in una specie di mossa del cavallo, per guardare a Milano e a un boom su cui ormai non c’è più da illudersi. È il Don Giovanni in Sicilia, in cui lo sguardo del regista scatena la sua una sensualità voyeuristica, e insieme lancia il tremendo Lando Buzzanca (qui perfetto) come divo di una incarognita versione del maschio italiano.

Brancati, dunque, via Germi, sembra essere l’apripista della commedia erotica. Sedotta e abbandonata (1964) conferma e carica i toni, e stavolta Sciascia non apprezzerà: il film gli sembra fuori bersaglio, attardato. Ma cosa vuol dire il nome di Brancati, in questa accezione? Vuol dire, mediatamente, anche Pirandello, ossia la recita sociale, il gioco dell’apparire e dell’essere, il sofisma autodistruttivo: il teatro dell’eros, appunto.

La trama dei film successivi del genere sarà sostanzialmente quella dell’ipocrisia che opprime il desiderio, ma meglio ancora quello del sesso come arma di potere. Si può misurare anzi il grado di compiacimento e di ambiguità di molte commedie da quanto l’ago della bilancia cada sul versante dell’empatia con la furbizia dei personaggi, o dell’amara constatazione delle cose del mondo. Insomma c’è un’ipocrisia di primo e di secondo grado, in molte delle commedie erotiche di ambientazione siciliana (e meridionale): da un lato, l’ipocrisia che si vuole biasimare, di una società che si finge avanzata e che è in fondo legata a costumi oppressivi e bigotti. Dall’altro, però, c’è l’ipocrisia del film stesso, il suo fingersi smascheratore creandosi un super-Io di moralismo antiborghese per meglio esibire una parata di suggestioni erotiche legate appunto a un immaginario pre-legge Merlin.

Un’ambiguità che ripete, amplificandola, quella di molta commedia di costume italiana precedente. E infatti l’immediato precedente dei film che qui analizziamo sono alcuni titoli che costituiscono una specie di ponte con la commedia all’italiana vera e propria. Nella seconda metà degli anni Sessanta, nella decadenza della commedia all’italiana, ogni buon film a episodi che si rispetti ha il suo episodio dedicato a prurigini siciliane, più o meno derivate da Germi. Mentre lo stesso anno di Sedotta e abbandonata esce Divorzio alla siciliana di Enzo Di Gianni, ben presto avremo donne che si concedono a uomini armati di lupara (Se permettete parliamo di donne, 1965, di Scola), donne terribili che scatenano faide (Le streghe, 1967, episodio di Franco Rossi), vedove costrette controvoglia a rinunciare agli uomini (Tre notti d’amore, episodio di Renato Castellani), matrimoni combinati cui si sfugge col monacato (Le belle famiglie, 1964, episodio di Ugo Gregoretti). L’immancabile episodio siciliano si colora via via di tinte sempre più sensuali, come nell’episodio di Sessomatto (1973) di Dino Risi in cui Laura Antonelli confessa alla tomba del marito di essersi vendicata del boss che lo ha fatto uccidere, sfinendolo di sesso.

Ma anche per la commedia erotica, come per il mafia movie, per una bizzarra nemesi, allo stesso Sciascia capiterò di essere involontario tramite di un aggiornamento del filone. Sciascia ha un erotismo poco presente, molto controllato e molto filtrato dalle letture, che affiora appena in alcune pagine, eppure il cinema lo ha amplificato da subito nei suoi adattamenti. Al centro di A ciascuno il suo (1967) e Il giorno della civetta (1968) campeggiano due figure femminili carnalissime, Irene Papas e Claudia Cardinale, e nel primo c’è un amplesso di una notevole forza visiva (non estraneo in questo caso alla presentazione sciasciana del personaggio).

Il nome di Sciascia si trova anche, non sappiamo con quanta attendibilità, fra i collaboratori alla sceneggiatura di La smania addosso (1964), greve calco di sedotta e abbandonata firmato da Marcello Andrei, che oggi imbarazza per l’esplicitezza burlesca con cui tratta un episodio di stupro da un punto di vista totalmente maschilista (in questo senso, un utile documento d’epoca), ed esplicitamente tratta da un racconto dello scrittore di Racalmuto sarà Un caso di coscienza (1970) di Gianni Grimaldi, con Lando Buzzanca. Uno spunto di poche pagine, il racconto, che ricordava alla lontana i Mimi siciliani di Francesco Lanza, dilatato con varie aggiunte volgarotte, di chiara derivazione germiana (a cominciare dal protagonista).

Ma altri sono gli scrittori-guida del filone, che risulta alla fine tra quelli di più schietta ispirazione letteraria nel cinema dell’epoca. Oltre a Brancati, ovviamente, Ercole Patti. Più decisivo ancora di Brancati, diremmo: in realtà molte delle atmosfere che passano nel cinema erotico degli anni Settanta sono più vicine al suo sguardo, molto più mollemente sedotto, contemplatore di estati e autunni catanesi, con sullo sfondo il senso malinconico del passare del tempo; meno incline del suo amico e maestro all’analisi illuminista, all’antropologia del maschio italiano, al’autoanalisi degli italiani sotto il fascismo, al gusto della satira.

Anche se non è il primo film tratto da Patti (ci sono almeno Quartieri alti, 1942, di Soldati, e Un amore a Roma, 1960, di Dino Risi), Un bellissimo novembre (1969) è il vero film inaugurale dell’erotismo cine-siciliano. Rispetto al Don Giovanni in Sicilia di Lattuada di due anni prima, Bolognini elimina completamente il terreno della commedia di costume per spostarsi tutto sul versante erotico puro, nella storia dell’attrazione tra un adolescente e la zia Lollobrigida, che alla fine troverà pienamente modo di esplicarsi sotterraneamente, dietro il velo delle convenzioni familiari. Il referente più vicino, se non altro come operazione commerciale, è Grazie zia (1967) di Salvatore Samperi, ma Bolognini non ha intenti di polemica anti-borghese diretta; non è un figliastro della nouvelle vague. È, come sempre, sospeso tra una ripugnanza e una morbida attrazione per la borghesia che racconta, e proprio in questo film elabora pienamente la “maniera” più caratteristica, con i flou di Ennio Guarnieri e le musiche di Morricone, che finirà col caratterizzare il suo nome.

La seduzione (1972) di Fernando Di Leo, tratto dal romanzo Graziella, è in parte un’eccezione nel genere, se non altro per il finale tragico: la vedova Caterina uccide l’amato Giuseppe, non riuscendo ad accettare il ménage à trois che coinvolge la propria figlia adolescente, Graziella. Ma per il resto il film si svolge sui binari della commedia, rimanendo fuori dalle corde del regista, specialista nel poliziesco, e segnato dall’insormontabile staticità del protagonista, uno spaesatissimo Marc Porel.

La cugina (1974) di Aldo Lado, tratto dal romanzo omonimo del 1965, sposta curiosamente l’ambientazione dagli anni del fascismo a quelli del dopoguerra, e spinge tranquillamente il pedale del soft-core lasciando molto sullo sfondo non solo il vero tema del libro (gli “anni perduti” brancatiani, il rimpianto della giovinezza fuggita, e la purezza di un solo amore che è però semi-incestuoso), ma anche lo stesso sfondo isolano: in questo caso, infatti, il principio della suspense erotica, per cui il rapporto sessuale deve aver luogo nel prefinale (secondo il modello di Malizia, ma anche secondo una qualche idea di Bildungsroman erotico) porta il regista a rendere il rapporto tra i due protagonisti molto più casto di quanto non fosse nel romanzo di Patti.

A chiudere la fortuna cinematografica dei romanzi di Patti in questo giro d’anni arriverà poi Giovannino (1976) di Paolo Nuzzi, che rispetta l’ambientazione originaria del romanzo di Patti (1954), promuovendo a protagonista la “spalla” del film di Lado, Christian De Sica. Nuzzi compie in questo film un’operazione simile a quella del precedente Il piatto piange (1974) da Piero Chiara, con una consapevole accentuazione di elementi caricaturali e lumpen nella pretesa di raccontare un’Italia grottesca e immatura anche politicamente. Ma qui il progetto riesce ancor meno che nel film precedente.

Negli stessi anni di Patti, un paio di lavori di Brancati, inevitabilmente, trovano la via dello schermo. Marco Vicario dunque realizza Paolo il caldo (1972), inserendosi alla lontana nel revival degli anni Trenta che dagli Usa, attraverso Il conformista di Bertolucci, contagia anche l’Italia. Pur mantenendosi in realtà molto fedele al testo di Brancati, Vicario non va tanto per il sottile e punta tutto sulle possibilità di sfruttamento osée o di comicità non raffinatissima. Eppure, specie nella seconda parte del film, è come se l’umore malinconico e nerissimo, e perfino a tratti la lucidità analitica dello scrittore, prendessero piede, si direbbe contro le intenzioni del regista, anche sotto forma di una scontata allegoria della carne triste con tutte le donne di Paolo che si sporgono verso il finestrino della sua auto (ma del resto, il romanzo di Brancati, incompiuto, non offriva appigli certi per un finale).

Ancora più disinvolto è poi l’adattamento che Gianni Grimaldi fa di La governante (1974), pièce degli anni Cinquanta che era andata incontro a gravissimi problemi di censura. Ma in quello stesso periodo, un altro singolare romanzo erotico siciliano conosce un adattamento cinematografico. Si tratta de Il volantino (1965), racconto lungo di Pietro Buttitta. Il suo testo, su un immigrato che torna dagli Usa in Sicilia ritrovandosi irretito, quasi senza accorgersene, da una ragazzina che lo incastra col consenso dei parenti per impossessarsi dei suoi beni, viene molto liberamente adattato in La sbandata (1974), di Alfredo Malfatti, ma scritto e prodotto da Salvatore Samperi fresco reduce da Malizia. Lo schema è quello consueto, e come protagonista c’è un divertito Domenico Modugno, che canta in colonna sonora e gigioneggia attorniato da caratteristi.

C’è però un altro nome, che col cinema non si è mai incontrato e che non si può trascurare. É quello del catanese Giuseppe Mazzaglia, autore di quattro libri memorabili dispersi tra il 1963 e il 1990, e che Sciascia definì “l’unico vero scrittore erotico siciliano”. Ma il suo eccentrico progetto letterario era difficilmente adattabile al cinema, con i suoi sperimentalismi linguistici e le sue ossessioni barocchissime innestate in vicende quotidiane di piccola borghesia. Ma in quegli anni così ghiotti per l’erotismo ambientato in Sicilia, anche Mazzaglia sfiorerà lo schermo, con un adattamento mai realizzato di La pietra di Malantino (romanzo epistolare sadomaso con protagonisti una donna rapita e un mafioso), da parte di Maurizio Liverani.

Qualche anno prima, anche il teatro erotico di Alberto Moravia era stato trasportato a forza in Sicilia. Dacia Maraini, per il suo primo e unico tentativo di regia,L’amore coniugale (1970), sceglieva come set Bagheria, città della propria infanzia, inscenandovi una crisi di coppia girata secondo i dettami del cinema arty dell’epoca (bianco e nero, macchina a mano, dialoghi pensosi, inserimento di scene semi-dopcumentarie o improvvisate con riferimento alla politica). Ma qui, era il versante di commedia a essere quasi assente.

Ma andrebbe ricordato anche, di sfuggita, un titolo come Mio Dio come sono caduta in basso (1974) di Luigi Comencini, che smonta il sempiterno dannunzianesimo della borghesia italiana (ancora una volta, un’idea che risale alla lontana a Brancati, almeno da Singolare avventura di Francesco Maria), proprio nello stesso anno dello spumeggiante divertissement di Alberto Arbasino, Specchio delle mie brame, che nel pieno di questa voga”bassa” compie un suo rovesciamento parodistico ulteriore, usandola come ilare rivelatore di un provincialismo che riguarda la vita quotidiana o le mode intellettuali.

Bisogna a questo punto indicare un momento decisivo di questa filmografia, che chiarisce anche il carattere di intreccio tra alto e basso e i caratteri di sexploitation del filone. L’anno decisivo è il 1973, con l’uscita di Malizia di Salvatore Samperi, uno dei grandi successi di pubblico del periodo. Pur preceduto da qualche titolo che gli si avvicina (Paolo il caldo e La seduzione fra tutti), Samperi è il film che stabilisce le regole di questo gruppo di film, dando vita a una serie di epigoni: Virilità (1974) e, Il lumacone (1975) di Paolo Cavara, Come una rosa al naso (1976) di Franco Rossi, tutti su soggetti originali, ma tutti in pratica versioni apocrife del mondo di Brancati e soprattutto Patti. (Al film di Samperi vanno aggiunti i recenti successi di Lando Buzzanca, che sfonda proprio sul terreno della commedia spinta a partire da Il merlo maschio, 1970, tratto da un raconto di Bianciardi, e in parte il trionfo dei personaggi siciliani di Giannini nei film di Lina Wertmuller: Mimì metallurgico ferito nell’onore è del 1972).

Il film di Samperi, la cui trama incrocia Grazie zia, Un bellissimo Novembre e il brancatiano La governante, è in realtà un vero e proprio digesto di immaginario erotico italiano, che piega le vaghe istanze libertarie della recente scoperta dell’eros nel cinema ai gusti ormai mutati del pubblico. L’erotismo, a questo punto, non è più una virtù. Non qua talis, almeno.

Ci si può dunque divertire a elencare alcune costanti, narrative, visive e ideologiche, del filone dell’erotico siciliano di derivazione letteraria: 1) l’ambientazione quasi esclusivamente borghese, con puntate nell’aristocrazia decaduta; 2) l’ambientazione al passato; 3) una netta presenza di temi più o meno esplicitamente incestuosi o endogamici (zie, cugine, matrigne) come trasparente traslazione edipica; 4) il binomio sesso-potere con frequenti finali sarcastici che sanciscono un astuto adeguarsi alle norme sociali; 5) lo sfasamento d’età: raramente il rapporto centrale nel film è quello tra coetanei: più spesso è per donne più mature (di solito nella parte iniziale dei film, dedicata alle “iniziazioni”) o, inversamente, molto più giovani; 6) ovviamente, una predominanza, nell’ambientazione, della Sicilia orientale e più precisamente del catanese (specie la costa tra Messina e Catania): appunto i luoghi di Brancati, Patti e Martoglio; 7) una “linea comica” in forte evidenza, affidata a uno o più caratteristi locali, catanesi (Turi Ferro, capofila in Malizia) o “catanesizzati” (Christian De Sica in La cugina, e in vari titoli Pino Caruso, palermitano ma spinto a imitare l’accento etneo); 8) una strategia di allusione più che di esibizione del sesso, costruita con un progressivo avvicinarsi al climax (poco prima della fine del film) e soprattutto che punta su un’esibizione moderata del corpo femminile (soprattutto attraverso il seno nudo e il classico reggicalze, mentre sono più rare le immagini di culo e pube). E sarebbe interessante magari giocare ad attribuire ognuno di queste linee di volta in volta a Germi, a Brancati, a Patti o ad altre influenze cinematografiche (dalla commedia all’italiana a Lattuada, a Samperi).

Il cinema erotico all’italiana, quasi sempre di ambientazione meridionale, ha insomma una derivazione “alta” che ben presto potrà abbandonare: essa è ormai completamente invisibile, infatti, in un altro film spartiacque, il proverbiale Giovannona Coscialunga disonorata con onore (1973), stesso anno di Malizia, e in fondo ancor più decisivo per le sorti del cinema di genere. [1]

Ma soprattutto, lo spostamento in Sicilia sembra mascherare, anestetizzare, qualcosa che solo in maniera mediata, attraverso il fantasioso esotismo di queste ambientazioni, poteva esser meglio raccontato. Rozzamente, si tratta dell’evasione in un “altrove interno” che compensasse il decennio di maggiori sconvolgimenti nella vita sessuale degli italiani: gli anni del divorzio e dell’aborto, del femminismo e di una lotta contro leggi e costumi arcaici (ricordiamo che la norma sul delitto d’onore, quello di Divorzio all’italiana, è ancora in vigore per tutto il decennio). Una funzione apparentemente opposta, ma in realtà non troppo diversa dall’opera dei poveri pretori che cercavano di bloccare film per oscenità in mezza Italia, un attimo prima dell’invasione della pornografia (il cui trionfo segnerà infatti la fine del filone).

Un genere, in definitiva, che ci sembra oggi lontanissimo, figlio di un’Italia sospesa tra spinte vecchie e nuove, e che da esse non sempre esprime il meglio. Tanto che ha un sapore decisamente rétro un film come Malèna (2001), quasi un omaggio postumo a quel filone. Anche qui, si ritrovano molti dei punti tipici dell’ erotico letterario, con la differenza che ora, un quarto di secolo dopo, il cinema sembra aver preso il posto della letteratura come generatore di miti. E l’erotismo sembra essere quello delle immagini, dello schermo, dell’infanzia.



[1] La pretesa di nobilitare i filoni soft-core con il richiamo alla letteratura tornerà negli anni Ottanta, quando il filone aperto da La chiave esibirà vari padri nobili, a cominciare da Moravia (L’attenzione, L’uomo che guarda, La cintura) e Soldati (La sposa americana, capriccio), ma poi anche Genet, D’Annunzio, Apollinaire, Tanizaki, Goldoni…

[Immagine: Pietro Germi, Divorzio all’italiana (1961) (gm)].

 

3 thoughts on “Il “teatro dell’eros” e i suoi padri nobili

  1. bellissime queste letture di morreale sui meccanismi (e le anestesie) del sentimentalismo all’italiana

    grazie e un saluto
    r

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