di Giovanna Sicari
[E’ appena uscita, per i tipi di Donzelli, la riedizione della raccolta di Giovanna Sicari Sigillo, con una introduzione di Giancarlo Pontiggia, e una nota di Milo De Angelis. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo quattro testi dalla raccolta, preceduti da un estratto dalla nota di Milo De Angelis (it)]
Nota
di Milo De Angelis
Sono felice che Sigillo venga ristampato nella prestigiosa collana di Donzelli. Era necessario. Sigillo è uno dei capolavori di Giovanna Sicari, con l’indimenticabile poemetto finale, La madre, e tante singole poesie cariche di quella forza analogica che Giovanna possiede d’istinto e che le consente di avvicinare all’improvviso cose e persone che sembravano lontane e che invece adesso, attraverso il tocco magico dell’analogia, scoprono la loro essenziale vicinanza, il loro legame sotterraneo e profondo. Basti pensare a poesie come Erano curve le loro vene, Siamo a bordo, Missione, dove creature disparate convergono con violenta forza centripeta in un solo luogo e sentono di appartenere a una sola visione.
Ecco, sentire il dominio della visione, venire comandati, non potersi sottrarre, essere inchiodati al compito della scrittura poetica, sentire che questa è l’unica strada possibile, che non sono date altre vie espressive. E davvero la poesia era per lei una strada obbligata. Era il luogo in cui confluivano sul foglio passato e futuro, memoria e profezia, adolescenza e sogno civile.
E la poesia di Giovanna in questo libro è gremita di tempi e di stagioni. Passa dall’infanzia – perché non sono io un liquido fanciullo – al presente assoluto dell’eros – siamo a bordo –, all’utopia di un’altra storia e di un’altra civiltà, a quell’ansia di mutamento esplorata nel suo lavoro quotidiano di insegnante a Rebibbia, nel suo profondo legame affettivo con i detenuti, nel suo spontaneo darsi al gioco degli incontri e delle esperienze. Tutto visto attraverso il respiro della poesia. «Una via obbligata», appunto, un’ossessione. Non esistevano scappatoie o alternative. Non esistevano nemmeno vie laterali in cui poter sostare e prendere fiato. Solo quella, la strada. Sempre e solo quella. […]
Erano curve le loro vene
Appoggiata appena allo schienale
ero là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più giù della scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano.
***
Oh che inverno esorbitante che percezione del terribile!
Siamo a bordo
non v’è ruggine sul fiocco
non si spezza sotto vento l’esca
del mio amo. Mantieni la rotta
appena sarai lassù, tienimi forte.
Se sei pronto per simili averi
su quel cavallo verde di fanghiglia
non sferrare assalti al cielo.
Abbiamo ambedue una ragione di fuoco
uguale tempesta, uguale partitura.
S’intende l’innocenza, stasera
il suolo ci raggiunge, si sospetta
della verginità ancora intatta.
Amore non so, non voglio sapere
se dalla via s’intravede
la statua risorta.
***
Missione
a Milo De Angelis
Alle cinque si schiantano le regali pianure
della neve sparsa, mete del momento
indicatore dei terribili venti
non è banale, l’erba del prato
non ha simboli di morte, il lago ascende
forte sotto il peso del montanaro,
quanti paletti in fila verso il camposanto
tu che li conosci non ritirare
la nostra spiaggia di piogge fresche.
Possibile non sapere, impossibile il sangue
che cola, che sia invasione
che sia il ragazzo che imbianca i muri
per timore fermo dell’accaduto, la missione.
Non diciamo niente a chi
non ha storie e vive
per quelle degli altri e s’interroga
sul posto delle fragole. Andiamo
su quella collina alle sette di sera
dopo il granaio su in cima c’è
un camion che porta in paradiso.
***
Perché non sono io un liquido fanciullo
spettinato e bastardo, perché poi dovrei coglierlo
capirlo nelle ore spossate, solo perché non bevo.
È disgustoso il vino dei tuguri, chiude nel fieno
gli altri che non possono salvarmi
non ha luci, ruggine la rabbia, è chiusa
nelle case dei prigionieri, breve
nella strada di forti polveriere.
Tu non leggevi niente, ansimavi break,
ti guadagnavi il pane a borsa nera.
[immagine: Foto di Dino Ignani]
Queste poesie della SIcari mi deludono, ma io non faccio testo.