di Stefano Jossa
Fare un film su Pinocchio è un po’ come fare l’allenatore della nazionale di calcio in Italia: ognuno ha da dire la sua, sei sotto i riflettori e devi vincere subito. Una bella sfida, quella di Garrone, che rischia di concludersi come quelle recenti di Prandelli e Ventura: si può essere all’altezza di qualcosa che si pone come ideale nell’immaginario collettivo, sia esso un dream team o un classico letterario?
Sopraffatto dalla quantità dei modelli con cui confrontarsi (da Disney fino a Comencini e Benigni), cui deve ciascuno qualcosa, Garrone sceglie di fare il “suo” Pinocchio: un Pinocchio filologicamente ricostruito, storicamente e geograficamente determinato, fedele a Collodi, nel tentativo di evitare invadenze autoriali e dipendenze interpretative. Un Pinocchio quanto più ottocentesco e toscano possibile, a cominciare dall’ambientazione nel borgo La Fratta, un incontaminato frammento residuo di Medioevo nella Valdichiana senese, e dall’interprete di Geppetto, il supertoscano Roberto Benigni, nato a Castiglion Fiorentino in provincia di Arezzo e cresciuto a Prato nella frazione di Vergaio. La scelta di Benigni come interprete del “papà” di Pinocchio (al posto dell’annunciato Toni Servillo) è di per sé un segnale di continuità e differenziazione, perché è insieme un omaggio e una deviazione rispetto al più recente e famoso predecessore (“rimesso a posto”, per così dire, visto che non è più un cinquantenne interprete di un burattino-bambino sempre di corsa, ma un quasi settantenne falegname-babbo poverissimo, posato e affettuoso: scelta filologicamente ineccepibile anche questa).
Il film comincia proprio con Geppetto immerso nella vita quotidiana del paese di campagna, alla disperata ricerca di cibo, nel nome di quella fame atavica che è una delle caratteristiche dominanti del libro di Collodi: scena che nel libro non c’è, tuttavia, dando inizio a quella serie di tradimenti che sono necessari in ogni rifacimento o trasposizione. Tradimenti che di solito costituiscono infatti l’identità dell’opera di secondo grado, rivelandone non tanto il livello di fedeltà o infedeltà, ma proprio le scelte autoriali e interpretative. Il primo grande tradimento è l’assenza del litigio tra Geppetto e maestro Ciliegia, provocato da quel pezzo di legno munito di voce che è all’origine di tutto: assenza che rivela una programmatica rinuncia all’umorismo di Collodi, al suo toscanismo linguistico ed espressivo, che vien subito sfidato dalla presenza di un saltinbanco che annuncia in dialetto napoletano l’arrivo del teatro dei burattini. Collodi si perde, e con lui la filologia, perché il quadro sociale conta di più del testo originale, per Garrone. Si perde, in tal modo, un elemento fondamentale del fascino del libro per tanti bambini e adulti: lo sguardo di sbieco, che rende tutto sfumato, ambiguo, ambivalente e aperto.
Dalle mani sapienti di Geppetto uscirà fuori una marionetta, coerentemente col titolo originale del libro, che era solo La storia di un burattino in prima istanza. Marionetta tanto più legnosa e meccanica quanto più destituita di umanità ed espressione, grazie a un’efficacissima maschera che rende il bambino che interpreta Pinocchio (Federico Ielapi) praticamente impossibilitato a manifestare qualsiasi sentimento, dallo stupore alla paura, attraverso la faccialità. Nel tentativo di rendere realisticamente questa marionetta che si muove senza fili ogni passo di Pinocchio sarà d’ora in poi accompagnato da un clangore ligneo che scandisce la narrazione all’insegna della continuità. Bellissimo il risultato scenico, ma il prezzo da pagare è alto, perché Pinocchio, che nel libro è sempre, simultaneamente e misteriosamente, sia burattino sia bambino, qui sarà fino quasi alla fine solo marionetta – e poi solo bambino.
Agíto più che protagonista delle sue avventure, Pinocchio si reca al teatro dei burattini, incontra il gatto e la volpe, viene impiccato alla grande quercia e salvato dalla fata turchina in una serie di vicende senza dramma, dal ritmo lentissimo e dalla fotografia sontuosa, che si limitano a confermare le aspettative dello spettatore, con Gigi Proietti costipato nel ruolo di un Mangiafoco fin troppo sentimentale e Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, la volpe e il gatto, costretti a un forse inevitabile, ma certamente pedissequo omaggio a Ciccio Ingrassia e Franco Franchi nei ruoli corrispondenti dello sceneggiato di Comencini. Fin dalle magnifiche marionette di legno del teatrino è comunque chiaro che Garrone punta tutto sulla qualità della resa iperrealistica, tra suggestione grottesca e tensione horror, che culmina più tardi nella grandiosa apparizione del pescecane/balena (insieme ai veramente mostruosi grillo e tonno parlante, meravigliosamente interpretati da Davide Marotta e Maurizio Lombardi).
La doppia fatina dall’aura disincantata (da bambina: Alida Baldari Calabria), e materna (da adulta: Marine Vacth) è forse la scelta più felice del film, con la scena della crescita del naso che resterà certamente memorabile. L’omaggio a Collodi finisce tuttavia qui, perché della seconda parte del libro (quella che a partire dal capitolo XVI segna l’inesorabile anfibologia di Pinocchio, uno e bino, come lo definì il grande Emilio Garroni nell’ormai lontano 1975, quando il suo quasi omonimo regista era ancora un bambino) resta ben poco, ridotta alla vicenda scolastica (con maestro antideamicisiano), al paese dei balocchi (con omino disneyano) e alla storia della balena (con tocco alla Dario Argento). Mancano, insomma, “le avventure di Pinocchio”, quello che in effetti è il titolo, troppo spesso dimenticato, del romanzo di Collodi: la cattura da parte del contadino e la sostituzione del cane, l’isola delle api industriose, la lotta coi compagni di classe e il secondo arresto, il pescatore verde e la frittura in padella, il ciuchino destinato a far da pelle di tamburo. A Garrone interessa ormai solo puntare dritto verso la fine, con l’educazione e la trasformazione del burattino – che puntualmente avviene, ma senza quella scoperta della vita che portava Andrea Balestri, nello sceneggiato di Comencini, a una splendida pipì sotto, improvvisa e sorprendentemente soddisfacente, quella sì grande tocco d’autore.
Di vitale, magico e umoristico questo Pinocchio purtroppo non ha quasi niente: come se gli ultimi cinquant’anni d’interpretazione del libro non fossero esistiti. Dietro questo Pinocchio si scorge ancora una volta l’umile Italia contadina di fine Ottocento, preda della povertà eppure piena di buoni sentimenti, che già Pietro Pancrazi, in un saggio del 1921, additava come la grande forza, letteraria e morale, del romanzo collodiano: “Dietro Pinocchio – io vedo i ragazzi di un tempo. […] Non ridete; ma dietro Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di Re Umberto”, scriveva Pancrazi in un tempo in cui Pinocchio era a rischio di cominciare a vestire la camicia nera, come ha ricordato in un bel libro di qualche anno fa Luciano Curreri.
Iperrealistico, macchinoso, nostalgico, statico e orrorifico, con rari guizzi tragicomici (la scena col gatto e la volpe all’osteria, il responso medico del corvo e la civetta, la trasformazione in ciuchino) questo Pinocchio beneficia di una fotografia capace di catturare luci e colori di un paesaggio meraviglioso (di Nicolaj Brüel, già collaboratore di Dogman) e di un make up in grado di combinare senza fratture umanità e animalità (di Mark Coulier, il truccatore di Harry Potter, due volte premio Oscar, per The Iron Lady, 2012, e Grand Budapest Hotel, 2015), ma tradisce in fondo la sua stessa aspirazione di restituire Pinocchio a Collodi: un film tratto da un libro può, forse deve, essere letto in autonomia dal libro, ma non quando del libro vuole essere la resa cinematografica anziché una rivisitazione in soggettiva. Può un film tratto da un libro, del resto, ignorare la storia del libro e delle sue interpretazioni fino a noi, saltando all’indietro nel tempo senza fare i conti con la contemporaneità? Pinocchio al cinema può oggi essere forse solo un Pinocchio plurale, che sia consapevole della sua origine, ma anche della distanza e delle metamorfosi che da quella origine ci separano: un commento a Pinocchio, secondo l’esempio di Luigi Compagnone, o un libro parallelo, seguendo il modello ideato da Giorgio Manganelli (attraversando, magari, Ferdinand Guillaume, il primo Pinocchio al cinema, Carmelo Bene, puer aeternus per il teatro, la radio e la tv, Stanley Kubrick e Steven Spielberg, che ne hanno voluto “a picaresque robot version”, nonché le innumerevoli varianti musical, animate e anime). La filologia a questo serve: non a restituire il testo originale, ma a rendere conto del percorso che l’ha portato fino a noi.
Idealizzando, Garrone ha rinunciato a quell’umanità che secondo Benedetto Croce era la caratteristica fondamentale di quel pezzo di legno che dà vita al romanzo: come le nazionali senz’anima e senza carattere degli ultimi mondiali, il suo film passa alla storia più come occasione mancata che per i risultati, o almeno la simpatia.
(a visione relativamente fresca, mi sento di aggiungere una nota di demerito per i dialoghi di Garrone e Ceccherini [!], che rispetto alla lingua di Collodi si arrestano ai limiti della decenza).
“La breve vita di Pinocchio è di quelle che dovrebbero lasciare il lettore senza fiato. Se si toglie l’apparente parentesi giocosa con i fratelli burattini, è tutta una corsa verso la morte.”
Emilio Garroni, Pinocchio uno e bino. Laterza, Bari, 1975. p. 82
Sul PINOCCHIO di Garrone
In questi giorni ho riletto con nuova attenzione “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi e davvero siamo in presenza di un capolavoro, autentico patrimonio genetico della nostra cultura. La potenza della storia, delle invenzioni e della trama sono tali che è difficile non rimaner presi dal suo fascino. Chi si è avvicinato artisticamente ad esse ne ha comunque ricevuto un beneficio, diciamo che il grosso l’ha fatto già Collodi tra il 1881 ed il 1883, quando a puntate è uscita questa storia di un burattino sul “Giornale per bambini”. Il successo è clamoroso e di lì viene tradotto in tutto il mondo. Addirittura un certo Aleksej Nikolaevič Tolstoj, lontano parente del geniale autore di “Guerra e pace” ne farà una sua parziale rilettura, diffondendo il mito del burattino bugiardo anche nelle terre sovietiche.
Per la mia generazione Pinocchio è quello di Comencini, e questo è un dato di fatto al pari di un dogma della fisica. L’ambientazione perfetta, la bravura degli attori e la struggente bellezza delle musiche di Fiorenzo Carpi ne fanno una sorta di colonna portante della nostra infanzia. Il fatto che fosse uno sceneggiato a puntate, esteso su alcune ore complessive ha dato modo sia al regista di sviluppare al meglio la trama, sia al pubblico di affezionarsi di più alla creatura artistica, a tal punto che oggi molte persone non accettano, a prescindere, l’idea stessa che vi possa essere un altro pinocchio o un altro Geppetto dopo lo straordinario Manfredi.
Nei decenni trascorsi, nonostante la sua intensità, il Pinocchio di Carmelo Bene non ha scalfito l’aura del piccolo Andrea Balestri, mentre il film di Benigni del 2002 è stato velocemente e fortunatamente dimenticato.
E veniamo dunque al Pinocchio di Garrone.
Il film ha a mio avviso un grande pregio, ossia quello di attenersi il più possibile al racconto effettivo di Collodi, dove Pinocchio è per tutta la storia un burattino e solo all’ultimo capitolo, dopo un percorso di redenzione – sarà lui stesso a salvare il padre – si trasforma definitivamente in un bambino, con tutto il carico di significati che possiamo immaginare. Nella serie a firma Comencini manca in verità questa dinamica proprio perché Pinocchio, interpretato dal piccolo Balestri, è sin da subito bambino e in quella veste vive le sue disavventure, tornando momentaneamente ad essere burattino – nella precisione quando eccedeva nella marachelle – per tornare poi umano all’interno dello sceneggiato nel corso delle puntate. Questo perché, al tempo non c’erano le capacità tecniche per far compiere ad un burattino di legno certe evoluzione sceniche. A tutto vantaggio del piccolo attore toscano che ha avuto modo di conquistare i cuori di milioni di italiani.
Il Pinocchio di Garrone è appunto sempre un burattino, Federico Ielapi nel corso del film, vive le avventure di Collodi trasformato nel trucco e solo all’ultima scena mostra il suo volto di bambino reale, dando al finale un forte impatto emotivo, così come pensato dall’autore. Naturalmente il film ha una durata accessibile ad un serata al cinema, quindi siamo intorno alle due ore totali, il che – rispetto al nostro Comencini – rende il tutto più compresso, e per certi aspetti non paragonabile.
Personalmente attendevo questo film perché nel mio intimo, desideravo che Roberto Benigni tornasse a far parlare di sé per quel che è, ossia un grande attore, e credo ci sia riuscito. A me è sembrato semplicemente perfetto in ogni scena in cui è presente. A tratti ha anche recuperato quel suo fantastico accento toscano che ce l’ha fatto tanto amare e che purtroppo negli anni a noi più vicini aveva perso, per rincorrere dizioni più auliche ma forse prive di verità.
Come affermato dallo stesso Garrone, il modello visivo assunto per lo stile del film è da trovarsi nei disegni di Enrico Mazzanti, il quale illustrò la prima edizione in volume delle storie di Collodi. Qui c’è uno scarto generazionale, essendo Garrone del 1968, quindi più grande di alcuni anni, non moltissimi ma sufficienti affinché nel suo immaginario i disegni di Mazzanti abbiano giocato un ruolo decisivo nella sua percezione della storia, e difatti diverse scene del film sono l’esatta riproposizione di alcune tavole – bellissime – del disegnatore fiorentino. Uno stile complessivo del film che potrebbe far pensare a Tim Burton, ma che a ben vedere trova la sua fonte tutta nell’immaginazione grafica di Mazzanti. Naturalmente è pur sempre un film di Matteo Garrone, quindi si vivono due ore di visione, immersi in un’atmosfera tendenzialmente da fiaba dark, soprattutto quando appare la fatina adulta, con lineamenti decisamente allogeni.
Accanto a Benigni nel ruolo di Geppetto è doveroso sottolineare l’interpretazione della volpe di Massimo Ceccherini, che data la sua carriera credo abbia meritato questo film, al quale, a quanto pare, ha dato molto più dell’ottima interpretazione, aiutando Garrone nella stesura di alcune scene. Il risultato è brillante e coinvolgente, con il buon Papaleo a fare da gatto-controcanto.
Ma dove secondo me il film trova dei picchi di forte godibilità e gran bella recitazione è nelle parti in qualche modo minori, in tutte quelle figure secondarie che però nel loro svolgersi disegnano la storia di Pinocchio e quindi il corpo reale del film. Proietti di fatto appare poco nel suo Mangiafuoco, ma bravissimi a mio avviso sono gli interpreti del maestro che bacchetta gli alunni somari, l’uomo di burro, la lumaca, i personaggi del circo, il tonno e quello che più mi è piaciuto, il giudice, che vuole sbattere in galera il burattino perché è onesto, un bravissimo Teco Celio, in uno dei momenti più esilaranti del film!
Ecco, queste righe – forse troppe – per dire che il Pinocchio di Garrone è un bel film e che merita di essere visto, distogliendo la mente da tutto ciò che c’è stato prima, nella speranza che anche le nuove generazioni si possano appassionare alla figura straordinaria di Pinocchio, così come nata dal genio di Collodi.
“Un film astratto e informale sulla ‘non vita’. Non ci sono personaggi, né situazioni, non ci sono premesse né sviluppi né catarsi, un balletto meccanico, frenetico e senza scopo da museo delle cere elettrizzato. Casanova-Pinocchio”.
Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 1980 p. 176