di Francesco Pecoraro

 

Nel primo anno del decennio in cui probabilmente, cioè statisticamente e ragionevolmente, morirò, se mi andrà bene farò le solite cose. Mi auguro di farle, perché la noia della normalità quotidiana sarà segnale che la civiltà occidentale, di cui per caso faccio parte, avrà tenuto anche qui, dove Roma ci culla nel suo niente. Quindi anche quest’anno la carta asciuga-tutto in cucina e la carta igienica finiranno un certo numero di volte e andranno ri-comprate. Ciclicamente finirà il vino e andrà ricomprato, scegliendo nell’infinita varietà dell’offerta di bottiglie attorno ai 10-13 €. Anche quest’anno verso maggio giugno passeremo al vino bianco e sarà estate. Andremo al cinema quasi mai. Vedremo film in tv e qualche serie e discuteremo circa mezz’ora prima di scegliere un film che poi si rivelerà già visto, ma non ricordato, da entrambi. Faremo analisi cliniche, di routine e non. Se ci andrà bene avremo solo mal di testa e di schiena, male alla spalla, cervicale, bruciori di stomaco, eccessivo senso di sazietà, qualche diarrea, dolori vaganti al petto, crampi muscolari notturni alle gambe e alle dita dei piedi, oltre alle nostre patologie storiche. Ci taglieremo le unghie di mani e piedi un certo numero di volte. E la barba ogni settimana e i capelli saranno quasi rasati ogni quindici giorni: a tale scopo ogni volta caricherò le batterie del trimmer per circa mezz’ora. Mi farò la doccia a giorni alterni con shampoo delicato e sapone delicato e mi asciugherò con accappatoi morbidi comprati di recente e mi dirò cento volte della necessità di togliere il calcare dalla cipolla della doccia e mi spalmerò la crema idratante per il viso. E faremo tutto ciò che serve per tenerci puliti e avremo cura dei nostri denti.

 

Una volta ogni tre mesi faremo la pulizia dall’igienista dentale. Durante queste sedute nella mia bocca sarà scovata almeno una piccola carie l’anno, da curare subito. Di conseguenza ci sdraieremo sul lettino del dentista e, grati, pagheremo il dovuto a chi ci tiene i denti in bocca. Anche quest’anno mi si bucherà irrimediabilmente un certo numero di calzini e comprerò un altro inutile bonnet di lana, nero o blu scuro, che si aggiungerà al mucchio già in armadio. Anche quest’anno non comprerò sciarpe, né di lana né di cotone. Userò le vecchie. E non comprerò giacche, né camicie, perché non le metto più. Forse prenderò scarpe nuove, ma solo così, per consumismo. Forse cambierò le lenti degli occhiali. Forse comprerò un nuovo tablet, forse no. Forse una nuova macchina fotografica, ma più probabilmente no. Ogni giorno mi chiederò se il frigorifero è sufficientemente fornito, oppure se debba fare un salto al super-mercato. Latte uova vino crackers mozzarella verdura devono sempre esserci e nel 2020 non sarà diverso. Prevedo una mail mensile al medico della mutua per le solite ricette dei soliti farmaci da acquistare nella solita farmacia. Prevedo le bollette del condominio e tutte le altre, ormai saldabili quasi tutte on line, anche se io amerò lo stesso andare alla posta, amerò la sospensione temporale cui ci costringe la posta, le vecchie che non avranno nulla da fare eppure, come fanno da quando sono nato, scalpiteranno e protesteranno per l’attesa e cercheranno consenso all’intorno per parlare male delle Poste Italiane. Se tutto andrà bene, anche nell’anno che comincia comprerò un certo numero di hamburger di scottona da 150 grammi l’uno e un certo numero di confezioni di petto di pollo da 300 grammi l’una, e una quantità di fiordilatte industriale, che non deve mai mancarmi e molti chili di biscotti ai cereali e molti litri di latte e molte confezioni di caffè e di fette biscottate. Nel 2020 prevedo almeno due barrette di cioccolato nero alle nocciole intere e diversi vasetti di acciughe sott’olio e trappole per microblatte—molto efficaci, due ogni 15 giorni, «si avvelenano, tornano al nido e muoiono, quelle sane se le mangiano e muoiono anche loro»—un paio di sacchetti di pistacchi, qualche pezzo di parmigiano, non molti. Mi sarà anche necessaria una certa quantità di pecorino sardo, in modo da potermi sentir dire anche per quest’anno Buono questo pecorino, dove l’hai preso? Gli animali che mi riforniranno di prosciutto crudo sono già morti da tempo e i loro cosci sono ormai già stagionati e appesi da qualche parte, forse già dal norcino, la semisfera della testa del femore che emerge dal grasso salato e pepato. Mentre quelli che doneranno il loro corpo in forma di hamburger di filetto di petto di pollo, probabilmente devono ancora morire. E non lo sanno. Anche quest’anno credo mi basterà una risma di carta e due cartucce per stampante e come sempre cercherò di ignorare le false segnalazioni della mia Canon MG5760. Comprerò pastelli e acquerelli e carta buona e promettente da disegno, che poi non userò e penne e segna-pagine che perderò nel marasma delle mie cose & cosucce accatastate sul tavolo da lavoro e nello spazio residuo sui ripiani della libreria e altrove, cioè ovunque: tutte le cose auto-identitarie che hanno fatto la mia-vita-sin-qui. Per i disegni che non farò, andrò da Muji a via del Tritone e acquisterò qualche confezione da 10 di penne da 0.38, inchiostro nero, tratto molto sottile, astuto, atte a disegnare pesci. E con l’occasione darò un’occhiata a tutto ciò che c’è nel negozio, constatando che lì niente fa per me, a causa delle taglie troppo piccole. Anche quest’anno uscirò a camminare a passo svelto—larga falcata braccia a pendolo—due o tre volte la settimana, per 4, meglio 5 chilometri, sudando e annoiandomi, ma godendo della fatica e del fiatone con polveri sottili. Andrò più volte a passeggiare dalle parti di Campo de Fiori dove la statua di Bruno mi piace più di spalle e a via dei Giubbonari—dove in una breve fase della mia ur-vita da studente ebbi uno studio—acquisterò una confezione da tre di mutande Fruits of the Loom, bianche e dove il negoziante mi chiederà se ho bisogno d’altro e io risponderò di no e lui, come fa da vent’anni, mi guarderà con un certo disprezzo, non so perché. Anche quest’anno, come accade da tempo, schiverò le montagne di rifiuti della mia città, considerandole normali. E ogni cosa danneggiata e non riparata, o malfatta alla fonte, sarà per me come una puntura di spillo mentale. Anche quest’anno ragionerò sulla mancata modernità della città e del paese in cui vivo. Io, che appartengo a una generazione che volle essere moderna, riuscendoci solo per pochi anni, e slittando all’indietro per tutto il tempo concesso alle nostre vite. Quindi anche questo sarà un anno all’indietro.

 

 

[Foto di © Massimiliano Vecchi, My Shadow My City (mge)].

4 thoughts on “Il decennio in cui morirò: anno uno

  1. “ Giovedì 13 marzo 1997 – Ho l’influenza, sto in casa. Per passare il tempo sfoglio i vecchi fascicoli dei Grandi fotografi dei Fratelli Fabbri. Vedo un foto famosa di Ferdinando Scianna dal titolo – ammesso che sia un titolo: Benares (India), 1973. Vi si vede un cane che si morde la coda su una piattaforma di pietre in riva a un grande fiume che immagino sia il Gange. Il bello della foto – è una bella foto – è che il cane, impegnato nella nervosa caccia alla pulci che gli martoriano il didietro, si esibisce in una torsione innaturale ed eloquente del corpo che ripete perfettamente il movimento circolare delle pietre della piattaforma al centro della quale si verifica l’evento, circolarità sottolineata anche dall’obbiettivo, presumibilmente un grandangolo. Questa torsione, questa rotazione, questo vortice che anima la foto ha poi un punto di fuga nell’orizzonte dove grandiosamente convergono le linee dritte delle rive del fiume e la massa allungata delle nuvole, facendo della foto – che è assolutamente verticale – una foto praticamente perfetta. Alle foto capita di essere così, inspiegabilmente perfette: dipende dalla bravura del fotografo, è ovvio, ma anche da una certa fortuna. Quello che mi lascia perplesso è il titolo. Sono sicuro che sia l’India quella che sto guardando, o non piuttosto un’immagine metafisica, certo forse un po’ indiana, come un mandala, per esempio? Quello che so è che Ferdinando Scianna – che praticamente è un mio coetaneo – ha visto questa scena, questo cane che-si-morde-la-coda, che ruota su se stesso, che è preso al centro di un vortice, che improvvisamente si slancia all’indietro per addentare qualcosa, questa strana bestia che ha la testa sul culo, che mentre è ancora proteso in avanti ha un repentino gesto di ritorno su di sé, sul proprio (di)dietro. C’era bisogno di andare in India? Lo sa anche Scianna che no: ce l’avranno mandato, penso. “.

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