di Franco Lolli

 

[È da poco uscito il nuovo libro di Franco Lolli: Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi domandanti, Poiesis, Alberobello, 2019, pp. 204, є 18,00. Saggio che, nel tornare a interrogare l’effettivo compito dello psicoanalista, prende risolutamente le distanze da quelle teorie “decliniste” che addebitano a una supposta “morte del Padre” l’attuale disagio della civiltà e che, nate in Francia, trovano nella riflessione di Massimo Recalcati un sostanziale rilancio. Quella che qui di seguito pubblichiamo è l’introduzione al volume (at)]

 

Questo libro propone un ragionamento teorico e clinico intorno a tre tesi di fondo.

La prima parte dalla critica al postulato secondo cui ci sarebbe un’associazione diretta tra la psicopatologia contemporanea e la presunta crisi del padre. Si intendono qui dimostrare, da un lato, il carattere ideologico (e sotterraneamente reazionario) della teoria cosiddetta “declinista” e, dall’altro, l’immutabilità del processo di strutturazione del sintomo. Che, pur se in maniera camuffata e dissimulata nel suo contrario dal discorso del capitalista, conserva il profondo legame con la rinuncia pulsionale di cui esso, qualunque forma assuma, è per l’appunto – coerentemente con quanto affermato dall’insegnamento di Sigmund Freud – l’effetto.

 

È questo il focus dell’attenzione e dell’interesse dello psicoanalista. Egli osserva, attraverso le parole che ascolta in seduta, il soggetto alle prese con il conflitto generato dall’impossibilità del pieno soddisfacimento pulsionale: impossibilità che prescinde dal tipo di organizzazione socioculturale nella quale la sua esistenza si svolge. La pulsione, infatti, non può mai appagarsi del tutto e una volta per tutte. Ciò non toglie, tuttavia, che proprio da tale impossibilità strutturale (che le richieste della Civiltà non fanno che enfatizzare), il soggetto dell’inconscio “impari” a ricavare un altro tipo di soddisfazione, che Lacan chiamerà godimento: la (paradossale) soddisfazione nell’insoddisfazione. È questo il dato invariante con il quale ogni cura psicoanalitica deve fare i conti e che lo psicoanalista rinviene immancabilmente all’interno dei sintomi – pur se essi appaiono, sotto l’aspetto fenomenico, in continua evoluzione, a causa della profonda influenza che il discorso sociale dominante esercita su di loro.

 

Quello dello psicoanalista, del resto, è un punto di osservazione privilegiato, che gli consente di entrare in contatto con il disagio del presente, facilitandogli, di conseguenza, la comprensione di alcune caratteristiche peculiari dell’epoca a lui contemporanea. Ma egli sa altrettanto bene che i pazienti che ascolta in seduta non esauriscono, con il loro dire, la varietà di posizioni soggettive che definiscono lo spirito del tempo. Lo psicoanalista non ignora, infatti, che una porzione altrettanto significativa di umanità non si rivolge a lui; che il mondo che egli “frequenta” nel proprio studio di consultazione non è l’intero mondo; che le riflessioni che ricava da quanto osserva in seduta non possono avere un carattere universale. La sua pratica clinica, in altri termini, gli consegna una sorta di lente d’ingrandimento necessariamente limitata nella sua capacità di cogliere l’estrema poliedricità della realtà sociale. Il che, in sostanza, non lo autorizza a proporre una teoria di critica sociale. La psicoanalisi è una tecnica, afferma Lacan: una tecnica, per giunta, applicata ad una parte (circoscritta) della popolazione. Non è attraverso di essa che lo psicoanalista può pretendere di affermarsi come interprete del mondo in cui vive.

 

Alle teorie decliniste non è mia intenzione, dunque, contrapporre un’altra lettura, altrettanto generale e assoluta, che nessuna raccolta di dati clinici sarebbe sufficiente a giustificare. Mi limiterò, al contrario, a fornire spunti di riflessione, frutto dell’ascolto di quelli che definirò i nuovi “domandanti”. Spunti di riflessione che, come avrò modo di dimostrare, entrano in una significativa risonanza con contenuti teorici e interpretazioni della contemporaneità capaci di mettere in luce aspetti del sociale che le teorie decliniste lasciano in ombra. Pertanto, il ricorso a contributi di tipo sociologico, antropologico, filosofico e letterario che attraversano il testo, servirà a facilitare un aperto confronto con l’attitudine “catastrofista” e nostalgica che condiziona l’attuale pensiero psicoanalitico, e ciò non certamente per promuovere l’adesione ad una teoria di critica sociale che si vorrebbe capace di spiegare (meglio) la realtà.

 

Non è infatti questo il compito dello psicoanalista. Il suo sapere (che è fondamentalmente sostenuto dalla propria pratica professionale e dalla riflessione metapsicologica che la fonda) lo autorizza esclusivamente a sviluppare una teoria della clinica in grado di rispondere efficacemente alla sofferenza di colui che viene a chiedere il suo aiuto. Ed è con la realtà psichica di quest’ultimo che l’analista entra in contatto: realtà psichica che, per quanto determinata e condizionata dalla realtà sociale, non può mai ridursi o sovrapporsi interamente ad essa. È all’economia di godimento del soggetto dell’inconscio, infatti, che lo psicoanalista punta, consapevole che questa si struttura in funzione dell’impatto traumatico che il significante (incarnato, certamente, nelle varie narrazioni che si avvicendano nel corso dei secoli) impone al vivente. All’incontro con la rinuncia pulsionale che la Civiltà esige – incontro unico e irripetibile per ognuno – lo psicoanalista dedica la propria attività, affinché l’analizzante possa trovare, in quel momento costitutivo della sua struttura, il fondamento e le ragioni della propria questione sintomatica.

 

La seconda tesi avanzata da questo libro prende le mosse dalla constatazione che, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ossia da quando la psicoanalisi ha iniziato ad occuparsi di forme di disagio psichico che il suo fondatore aveva perentoriamente escluso, l’allargamento dell’interesse a patologie originariamente ritenute intrattabili abbia introdotto nella riflessione teorico-clinica l’ipotesi di una trasformazione della sintomatologia classica. Si è cioè accreditata la convinzione che le mutate condizioni socio-culturali abbiano inciso sul processo di costituzione dei sintomi e abbiano trasformati radicalmente questi ultimi generandone di nuovi, che risponderebbero a logiche etiopatogenetiche inedite.

 

Una tale ipotesi – che, per giunta, rivela una quota sospetta di suggestionabilità della psicoanalisi nei confronti della sociologia (questione che il libro interroga e indaga in varie forme) – non riconosce, in effetti, la vera mutazione in atto, o meglio il vero agente della trasformazione che la realtà attuale, innegabilmente, presenta: è la psicoanalisi che ha smesso di essere una pratica riservata ad una classe sociale privilegiata e che, nel momento in cui ha scelto di ampliare il proprio raggio d’azione, ha incontrato situazioni cliniche le cui caratteristiche di funzionamento psichico, per quanto avvolte in involucri diversi, erano, probabilmente, già attive in patologie che coesistevano (non trattate) con le sintomatologie descritte da Freud. Sono nuovi “domandanti” coloro che da qualche tempo si rivolgono allo psicoanalista evidenziando – sin dai primi colloqui – un’attitudine all’incontro del tutto diversa rispetto a quella alla quale la clinica tradizionale ci aveva abituati. Portatori di una domanda “muta”, presenze silenziose e diffidenti, corpi attraversati da pratiche di godimento incontrollabili (e, spesso, non riconosciute come tali), increduli rispetto alle possibilità “terapeutiche” della parola, certi della propria assoluta “innocenza”, i nuovi “domandanti” destabilizzano il setting, minacciandone, attraverso agiti e continui sabotaggi, la definitiva rottura.

 

I nuovi “domandanti” sono coloro che lo psicoanalista incontra nel proprio studio, finalmente aperto anche a chi non ha una domanda d’analisi fondata sul transfert sulla psicoanalisi (e sul suo sapere), a chi è portato “a forza” (da parenti o amici) in studio, a chi riduce la propria sofferenza sintomatica ad una sfortunata (e non significativa) contingenza della vita, a chi ritiene che la miglior cura sia uno psicofarmaco o l’attenersi a prescrizioni comportamentali indicate dall’esperto. Sono coloro che la psicoanalisi aveva escluso dalle possibilità del trattamento, pensato e formalizzato – dal punto di vista della tecnica e del metodo applicativo – per un essere umano (colto, sensibile, intelligente, con buone capacità di elaborazione e, non ultimo, con sufficienti disponibilità economiche) appartenente alla medio-alta borghesia e, ovviamente, all’aristocrazia occidentali.

 

L’articolazione di queste due tesi esposte nel libro conduce, pertanto, alla terza: la necessità di un aggiornamento della tecnica, chiamata ad adattarsi non tanto alle cosiddette “nuove forme del sintomo”, ma a quelle situazioni sintomatiche che, fino a pochi decenni fa, non venivano in alcun modo intercettate dalla psicoanalisi. L’ultima parte del volume propone, pertanto, una teoria della clinica che intende rispondere alle problematiche sollevate dall’incontro (finalmente possibile) con quelle forme di disagio psichico sfuggite per anni all’attenzione degli psicoanalisti. Si avanzerà, allora, una proposta di aggiornamento della postura clinica dell’analista: proposta che, se da un lato prospetta una maggiore “elasticità” di costui (finalizzata ad accogliere domande di cura evidentemente refrattarie al classico trattamento analitico), dall’altro è assolutamente indispensabile mantenga, tuttavia, il suo legame con i fondamenti e i principi della psicoanalisi.

 

Necessario, a questo scopo, sarà allora il vaglio dei riferimenti di Lacan alla posizione dell’analista e alla dimensione etica del suo atto, materiale vasto e complesso che costituisce il secondo capitolo di questo libro. L’intento è quello di definire il nucleo teorico-clinico invariante sul quale ogni eventuale modifica della tecnica possa svilupparsi senza incorrere nel rischio di far scivolare la pratica analitica in un esercizio psicoterapeutico, non più orientato dall’insegnamento di Freud.

 

 

[Immagine: Foto di © Ryan McGinley (mge)].

4 thoughts on “Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi domandanti

  1. IL LASCITO DI FREUD
    Che fine ha fatto Sigmund Freud? Le teorie “scientifiche” del padre della psicanalisi ci spiegavano, fino a ieri, che ogni comportamento umano era dovuto al subconscio. Molte patologie fisiche – vedi la stessa ulcera – erano considerate neurotiche, psicosomatiche, da guarire sul divano del ben pagato psicanalista. La ricerca del trauma infantile – e chi non l’ha subito? – forniva la spiegazione a tutto o quasi. I genitori avevano il posto fisso sul banco degli imputati. Persino l’autismo del figlio era imputato a papà e a mammà. Dietro ogni comportamento eccezionale, dietro ogni atto di dedizione e d’altruismo, i seguaci della religione freudiana scorgevano il ghigno della bestia umana. Per costoro, gli eroi e i santi erano persone che avrebbero avuto invece bisogno di lunghe sedute psicanalitiche per sanare i loro conflitti sessuali irrisolti.
    La psicanalisi saturava la cultura, il linguaggio. Ogni romanzo, ogni film americano aveva il suo bravo intreccio psicanalitico. Oggi, invece, nelle serie televisive americane trionfano il DNA, i gruppi sanguigni, i liquidi organici, le autopsie, le necroscopie, le analisi al microscopio… Sembra che le telecamere abbiano lasciato il divano psicanalitico per installarsi in obitorio.
    È difficile negarlo: la famiglia è uscita con le ossa rotte dall’ubriacatura psicanalitica. I rapporti familiari, infatti, erano stati posti da Freud sul piano dell’eros, con l’invidia del pene, il complesso di castrazione, il desiderio di andare a letto con la madre e la voglia di uccidere il padre. E il “pater familias” è stato effettivamente ucciso, in Occidente. Grazie anche al matrimonio gay.
    La rivoluzione, quella vera, quella sessuale – auspicata da Freud – ha trionfato su tutta la linea. Ma non ha dato i frutti promessi. Il sesso gioioso, che pur avrebbe dovuto trionfare, trionfa solo nella pubblicità. Il pericolo dell’AIDS ha sostituito la sanzione morale contro il sesso promiscuo. Sono poi apparse nuove patologie come l’anorexia, il body piercing, l’automutilazione, i tatuaggi sul fondoschiena… Le “nevrosi” abbondano. L’”alienazione” trionfa. Chi tra voi non è depresso alzi la testa!
    Nel trionfante permissivismo odierno, sopravvivono, non si sa come, solo gli antichi tabù dell’incesto e della pedofilia. Dare oggi una caramella a un bambino che non sia nostro figlio rischia di farci avere seri guai. Un nuovo tabù, sancito dal codice penale, è poi apparso in Occidente: il Negazionismo.
    Il freudismo è passato di moda. Ma intanto quanti guasti!

  2. Quando si finirà di interpretare tutto lo scibile, persino la psicologia e la spiritualità umana, attraverso inadeguatissime categorie ideologico-politiche? Non è affatto vero che il riferimento al “padre” è “in modo sotterraneo reazionario”. Alcuni studiosi – di qualunque schieramento – dovrebbero liberarsi di questi occhiali ideologici con cui leggono tutto, per capire meglio e far capire meglio anche agli altri.

  3. Giusto proclamare ad alta voce, come fa l’autore del libro nella prefazione, che Freud ha ragione, in fin dei conti… Però qui allora si predica bene e si razzola male! Infatti, se si dice che le categorie della psicoanalisi sono desuete, bisogna anche assumersi una responsabilità che altrimenti si sarebbe autorizzati a credere che la presenza destabilizzante, per lo specialista, di esseri silenziosi e muti nel suo studio abbia dei risvolti complessi nella psiche dello psicanalista. Si dice che non ci si può staccare dalla teoria fondamentale di Freud, però si azzarda la possibilità che esistano concrezioni teoriche possibili che esulerebbero dall’impianto fondativo. Encomiabile! Ma azzardato… ripeto.

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