di Italo Testa
[Questo saggio è appena uscito sul nuovo numero monografico della rivista «Kasparhauser» (XVII, 2020), curato da Guido Cavalli].
1. Hypotheses non fingo
Se essere contro la poesia fosse una condizione di possibilità per essere poeti. Essere contro la poesia per poter scrivere poesie. Per poter aspirare a scriverne di autentiche. Scrivere come se nessuna poesia data potesse mai dirsi riuscita, esaudire l’aspirazione che incarna. Dovendo scontare un’impossibilità, l’impossibilità della poesia quale sua matrice costitutiva. Un’impossibilità metafisica che non possa essere pensata sino in fondo, ma che vada immaginata sempre di nuovo, messa in parole finite, esibita nel qui ed ora di un oggetto assurdo, terrestre e alieno al mondo.
Se ogni poesia che sia veramente tale volesse rifare da capo il mondo, e la poesia stessa, finendo così per dichiarare la non esistenza di ciò che sino ad allora è stato chiamato come tale. Una protesta contro il fatto che nessuna poesia abbia potuto sino a ora soddisfare tale pretesa. Non una teologia negativa, una forma di neoplatonismo poetico, come vorrebbe Ben Lerner in The Hatred of Poetry. Piuttosto un’individuazione senza residui che confinerebbe con un nominalismo radicale. Ogni poesia, all’altezza delle sue pretese, sarebbe così contro la poesia come essenza fissa, invariante. Lo svelamento della tradizione che la precede come di manto di ombre sonore, labili emissioni di voci. Quasi la poesia non avesse ancora avuto luogo. O si sottraesse a ogni reductio ad unum.
Se essendo contro la poesia si resistesse alla sua reificazione, alla riduzione del suo fantasma a cosa morta, fenomeno catturabile, afferrabile come oggetto determinato.
Se essere contro la poesia significasse svelarne l’aperta molteplicità, come essa non si lasci stringere al singolare, ma si dia solo in una pluralità di pratiche, atti, modi.
2. Sotto copertura
L’impossibilità strutturale, se non metafisica, come modo di essere contro la poesia standovi dentro, suscettibile di differenti indicizzazioni storiche. All’altezza del primo novecento questa logica si indicizza scontando un’impossibilità psicologica e sociale, la vergogna della poesia di cui parla già Guido Gozzano nella Signorina Felicita («io mi vergogno, | sì, mi vergogno di essere un poeta»). Non solo una postura reattiva rispetto al dannunzianesimo, ma espressione formulare di quella che diventerà quasi una condizione di socializzazione del poeta almeno sino alla mia generazione. Da un lato identificazione psicologica con l’aggressore, introiezione mimetica da parte dei poeti di una situazione di avvertita crisi sociale. Ma insieme è come se la condizione di un apprendistato poetico riuscito divenisse la rivendicata disponibilità ad attraversare il mondo come agenti sotto copertura, vestendo i panni di un altro, doppiogiochisti, agenti dell’invisibile.
Il secondo mestiere, non dichiarato, dissimulato, di chi non solo si protegge così da un mondo avvertito come inospitale, ma insieme mimeticamente partecipa della sua ostilità verso la poesia e verso di sé. Diffidare di chi si identifichi immediatamente con il ruolo di poeta, di chiunque spacci per essenza socialmente accettabile il nome della poesia. Non si può diventare poeti se non si è contro la poesia e contro i poeti, se non si avverte un profondo disagio a identificarsi con loro, e con se stessi, sino a nutrire quel perfect contempt, quel disprezzo senza riserve che chiunque abbia mai preso sul serio la poesia, o l’abbia avvertita come destino personale, non può non aver avvertito per sé, sentendo affiorare sulle proprie labbra i primi versi di Poetry di Marianne Moore: I too, dislike it.
3. Poesia e barbarie
Con la sentenza di Adorno per cui “è diventato impossibile oggi scrivere poesie”, si indicizza un mutamento epocale come impossibilità etica e antropologica: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro”. Che si tratti di un interdetto, come è stato troppo frettolosamente inteso, di un nuovo tipo di mandato a scriverne, o di altro ancora, l’acuminata frase di Adorno coglie uno spostamento di confine, ove la poesia, res amissa, si sposta versi luoghi non giurisdizionali, su bordi non aggiudicati, in territorio barbaro. Come se la poesia venisse ad assumere una posizione xenotica, cercando impossibilmente di parlare una lingua altra, estranea al massacro: “La poesia dopo Auschwitz”, scrive Lyn Nehjian in Barbarism, “deve essere barbara: deve essere straniera alle culture che producono atrocità”.
D’ora in poi essere contro la poesia non sarà più solo condizione psicologica e sociale, ma etica e antropologica del fare poesia. “Se ne scrivono ancora” – Vittorio Sereni ne Gli strumenti umani – “se ne scrivono solo in negativo”. L’antipoesia si installa al centro della poesia stessa, della sua fragile e dolorosa consapevolezza, in una forma di negativismo che esprime lo sforzo paradossale ma necessario di andare oltre l’interdizione adorniana, di renderla produttiva in un’esegesi senza fine – il movimento incessante del continuare a scriverne – “recitando la poesia contro se stessa”, così Rachel Blau Du Plessis nella Midrash (Draft 52) che percorre il gioco intricato di figure retoriche, divieti, imperativi in cui l’affermazione adorniana può essere di volta in volta sciolta, appropriata, infinitamente esorcizzata.
4. Antipoesia dell’ordinario
L’antipoesia entra nell’arsenale dell’avanguardia del dopoguerra, addomesticata come forma specifica di poesia: come fare poesia nell’età del consumo, dell’uomo di massa del capitalismo avanzato? Non negazione radicale della poesia stessa, ma strategia di sopravvivenza, adattamento a condizioni mutate, sul doppio sfondo dell’atrocità recente e dell’industria culturale in via di dispiegamento. Allora essere contro la poesia, contro il sublime, lo stile alto, l’io lirico, il poetico, per poter continuarne a scriverne ex negativo, nelle pieghe, nei tropismi dell’ordinario e dell’infraordinario. In fondo, sottoscrive Nicanor Parra, il geniale inventore dell’antipoesia come brand, “la poesía morirá si no se la ofende / hay que poseerla y humillarla en público / después se verá lo que se hace”.
5. Cenerentola e il principe dell’estetizzazione
Negli anni più recenti assistiamo a una strana congiuntura. Diagnosi di medio termine, come quella spietata offerta a più riprese da Guido Mazzoni, denunciano un decentramento della poesia nello spazio letterario, rispetto alla posizione di cui ancora godeva nel dopoguerra, a favore del romanzo, con conseguente esaurimento del capitale simbolico ereditato, connessa revoca del supposto mandato sociale e marginalizzazione editoriale. Bisognerebbe proprio mettersi con Corrado Costa In cerca dell’uomo invisibile, insomma, per trovare traccia del poeta nell’attuale circuito della comunicazione sociale e della sfera pubblica. Nell’epoca del narcisismo di massa, dell’economia dei desideri e della postrealtà, intesa quale progetto ed effetto di tecniche di potere finzionale gestite dai media – il canovaccio offerto da Walter Siti in Troppi paradisi – i poeti in quanto tali si sentono condannati a un ruolo marginale. Dichiarano la posizione residuale della poesia, continuando ad abitarla contraddittoriamente nelle loro nicchie, stando con la propria poesia contro la poesia, oppure, per meglio lasciarsi contagiare dallo Zeitgeist, si prostituiscono al romanzo e alle tecniche finzionali, con occasionali compensazioni in forma di prosimetro. “L’introvertito architetto del pensiero abita dietro la luna, sequestrata dai tecnici estrovertiti”.
Eppure, proprio nel momento in cui i poeti domestici sono largamente disponibili a riconoscersi in queste diagnosi, e a dibattervisi senza trovare una via d’uscita, la (post?)realtà batte un colpo, inizia l’importazione di nuove specie di poeti globali, instagram si offre come terreno di sostituzione della poesia con una sua immagine addomesticata, i reality annettono qualche performer al loro dominio, i dati di vendita della poesia mandano segnali incoraggianti, e l’editoria e gli inserti culturali dei quotidiani danno a volte l’illusione di guardare alla poesia come alla next big thing, o se non altro come a patina erotizzante per altri contenuti culturali, mostre d’arte, hashtag. Non ci si raccapezza più. La diagnosi sul decentramento viene puntellata ipotizzando l’incipiente modellamento del consumo di poesia sulla falsariga di ciò che era negli anni novanta e zero il mercato della musica popolare, bipartito in prodotti di largo consumo in basso e circuito alternativo di nicchia alta – salvo poi realizzare che anche questa partizione è già obsoleta vista le trasformazioni insorte nella produzione, distribuzione e consumo di musica, cui non è estraneo lo stesso circuito della poesia.
Che cosa sta accadendo? La poesia, fino a ieri cenerentola dell’industria culturale contemporanea, è forse pronta a essere incoronata dal principe dell’estetizzazione? Una semplice estensione alla poesia odierna delle tesi di Franco Fortini, già riprese da Walter Siti e Valerio Magrelli, sul surrealismo di massa gestito da televisione e nuovi media – una sorta di avanguardia per tutti che utilizzerebbe parassitariamente le tecniche della finzione letteraria neutralizzandone il potenziale dirompente – è una strategia interpretativa esposta però a notevoli rischi. Non si tratta di bendarsi gli occhi di fronte a fenomeni quali il successo planetario di ‘poeti’ globali come Rupi Kaur, con conseguente estensione del dominio del poetese quale immagine stereotipica di #poesia che sintetizza onirismo e immediatismo, ed è come tale ammissibile nella buona società dei selfie. Ma il luogo comune teorico che società dei selfie e narcisismo di massa – che sarebbe forse meglio chiamare ‘pseudo-individualismo’ – siano un fenomeno strutturale piuttosto che schiuma, effetto di superficie, andrebbe prima o poi messo a prova. E paga senz’altro pegno alla sopravvalutazione di diagnosi conservatrici della modernità à la Lash e Girard, che tendono a equiparare individualismo, narcisismo, ed espressivismo, e non offrono strumenti per distinguere forme riuscite da forme mancate di individualizzazione. Inoltre, si corre anche il rischio di riproporre una lettura monodimensionale dell’industria culturale e dell’estetizzazione contemporanea, replicando il gesto snob che conduceva Adorno e suoi followers a squalificare in massa il jazz e la commedia hollywoodiana degli anni trenta e quaranta, senza sapere cogliere gli aspetti mutageni, senza sapere intercettare il nuovo che non si lasci già incasellare negli schemi di intelligibilità in uso.
Assistiamo oggi a una proliferazione poco regimentata di forme di espressione poetica, al di fuori dei domini istituzionalizzati, vagamente polimorfa. Percepiamo un pericolo di integrazione, di normalizzazione della poesia, ma nello stesso tempo avvertiamo l’inadeguatezza degli schemi interpretativi che siamo portati ad applicarvi, tarati su un mondo in via di sparizione. Sentiamo, oscuramente, di toccare qualcosa di profondo, quasi in questo soprassalto si manifestasse una resistenza della poesia, quasi antropologica, a qualsiasi diagnosi sulla sua fine, alla sua più volte annunciata riduzione tendenziale a linguaggio elitario di nicchia. L’inaspettato colpo di coda della poesia, sopravvissuta ai suoi liquidatori, è un fenomeno ambivalente, ad alto tasso di ibridazione.
6. La posizione barbara, revisited
Se l’antipoesia non fosse la negazione della poesia, né una mera corrente poetica, bensì un’antinomia interna alla struttura della poesia.
Se essere contro la poesia fosse stata una condizione logica, e via via psicologica, sociale, etica, interna all’espressione poetica stessa.
Come si traduce al presente questo discorso, quali sono i margini entro cui si potrebbe, dovrebbe essere contro la poesia oggi?
Come si declina oggi la posizione barbara in poesia?
La vergogna di essere poeta sospetto non sia da qualche tempo più il medio fondamentale di socializzazione di chi aspiri a scrivere poesie. E per quanto ci si affezioni alla propria sanguinosa infanzia, e pure allo stigma più o meno consapevolmente introiettato, non c’è forse anche una punta d’invidia, la sensazione che vi sia qualcosa di liberatorio nell’affrancamento da quella posizione che ci pareva la seconda natura di un apprendistato autentico?
La presa del monito adorniano sembra essersi allentata, quasi ci si fosse anestetizzati rispetto al suo contenuto, ma anche si fosse divenuti meno sensibili rispetto alla sua formulazione ricattatoria, repressiva.
A fronte della musealizzazione dell’avanguardia, l’antipoesia dell’ordinario è divenuta ordinaria amministrazione, un altro strumento nella cassetta degli attrezzi, un’opzione.
La critica della poesia come essenza singolare, rimane un contravveleno senza il quale non è nemmeno possibile prendere le distanze da quei fenomeni di brandizzazione e normalizzazione estetizzante che rappresentano uno dei rischi del contemporaneo. Parlare al singolare del rischio di reificazione della poesia, come se non vi fosse invece un fascio di pratiche, non riducibili ad unum, come se la vicinanza allo sfondo estetizzante fosse una condanna a cui siano tutti egualmente soggetti, finirebbe per riproduce quella fallacia da cui l’antipoesia poteva immunizzarci. Rivendicare la posizione barbara. L’antipoesia come sua condizione. Si può, si deve essere ancora contro la poesia.
[Immagine: © Mitch Epstein, Tag Sale III].
Il poetico, inteso come mitopoietica fondativa cumulata nei secoli, oggi non e’ piu’ nazionale ma va verso il transnazionale, e non passa piu’ attraverso la forma chiamata poesia gia’ dal tempo del cinema muto… del resto, che forma possono mai avere robe *scritte* in global English? Passera’ e si fara’ allora per gli invisibili di massa tramite altri mezzi con altre forme visive, oggi gli instagram o youtube che partono globali dal principio.
Gentile Italo Testa,
dovrebbe leggere i miei versi, che sono un attacco frontale a tutta la poesia (almeno in Italia) fino ad adesso scritta, e credo anche in futuro.
A. S.
“La brutta poesia è prodotta da quelle persone che si siedono e pensano: ora sto per scrivere una Poesia”
Charles Bukowski