di Matteo Marchesini
Nella letteratura, e in generale nelle arti, sembra oggi molto scarsa la disponibilità a rimettere in discussione i valori che ci vengono dal passato, almeno da quel passato otto-novecentesco che malgrado tutto continua a nutrire le ricerche contemporanee. Allo stesso tempo, come se fossero fatte della medesima sostanza, si agganciano al suo cielo di stelle fisse le opere appena uscite che godono del miglior lancio o di una fortuna inattesa. Anziché demistificare il racconto storiografico, si mitizzano così zone sempre più vaste di un presente ancora immerso nella cronaca (quanti “capolavori assoluti” escono al mese?). L’unica forza in grado di ostacolare questo processo è l’oblio: spesso i “capolavori” sbattono come falene contro la luce e ricadono subito nel buio. Ma dato che sui motivi di ascesa e caduta non si riflette, il giorno dopo la sfilata ricomincia. Quando poi la critica, ormai rara, per qualche incidente costringe a farlo, i registi della sfilata sobbalzano increduli o quasi offesi. La disabitudine al dibattito è tale che istintivamente, e senza rendersi conto di quale comica immagine di sé implichi l’affermazione, bollano chi lo suscita come un invidioso. A scanso di equivoci: con critica s’intende qui la capacità di illuminare una realtà estetica attraverso argomentazioni, intuizioni e idee-forza in grado di comporsi originalmente in gusto e visione del mondo. S’intende, cioè, qualcosa di molto diverso dalle caricature di stroncatura prodotte da certe caricature di Papini, che invece s’inseriscono benissimo nel contesto di una comunicazione pubblica parossistica, e che sono un sottoprodotto residuale dello stesso clima acritico da cui sorgono le canonizzazioni arbitrarie. Chi si specializza in queste invettive, limitandosi a rovesciare l’opinione dei fan come un guanto, contribuisce infatti a stabilizzare il regime pubblicitario contro il quale protesta, ricavandovisi magari il ruolo di una brancaleonesca élite dello spirito. Se la critica è rara, è anzi proprio perché l’intero orizzonte viene occupato dai due atteggiamenti speculari di “viva” e “muoia”, oltre che naturalmente dalle anodine vie di mezzo dei commentatori più machiavellici. In questa situazione, chi tenta di esercitarla deve sottoporsi a continue acrobazie dialettiche. Così gli capita di tirare un sospiro di sollievo se a dargli manforte arriva qualcuno che, per la sua autorevolezza, non può essere liquidato nella solita maniera, ma al massimo può essere neutralizzato – cosa del resto altrettanto sconfortante – con il silenzio che tronca e sopisce, che promuove per rimuovere, e che elogia la statura indiscutibile per non discutere i giudizi emessi. Paradosso malinconico: la critica troverebbe dunque un po’ di ascolto solo dove non la si rispetta in quanto tale ma per le ragioni contro cui nasce, quelle dell’ipse dixit. Chissà però che ogni tanto, grazie ad aiuti del genere, non torni comunque ad aprirsi un sentiero verso la revisione di certe opinioni ricevute. Una buona occasione la offre oggi l’uscita di Meglio star zitti? Scritti su letteratura cinema teatro (1964-2004), l’Oscar Mondadori in cui Luca Daino ha raccolto e introdotto buona parte della più battagliera produzione di Giovanni Raboni, quella che in vita l’autore aveva antologizzato solo in alcuni brevi pamphlet sul costume culturale, e che è rimasta finora in ombra rispetto alle sue testimonianze sulla poesia contemporanea.
Quasi ogni intervento di Meglio star zitti?, dai saggi dei “Quaderni Piacentini” ai corsivi del “Corriere”, passando per le panoramiche e le recensioni pubblicate su “Europeo” e “Avvenire”, contribuisce a mettere in dubbio il quadro della storia recente fissato da editoria e università, che imbalsamano in una serie di rozzi idoli un paesaggio ancora caotico e fluido. Nei primi scritti, il giovane Raboni descrive un’industria culturale altrettanto giovane, e a poco a poco vede sorgere un tipo di mitizzazione immediata che conosciamo fin troppo bene. Nel 1978, ad esempio, stigmatizza l’operazione con la quale Mondadori, dopo avere creato intorno a Horcynus Orca una suspense da capolavoro, stampa una guida all’opera di D’Arrigo come fosse un classico, e dà così per acquisito quel che sarebbe da dimostrare, cioè la sua grandezza. Con ironie via via più amare, Raboni denuncia l’arroganza qualunquistica con cui si spende l’epiteto “grande”: “da quando dobbiamo cominciare a contarli, i ‘grandi poeti moderni’: dalla Rivoluzione francese? dalla prima macchina a vapore? dal 1945? E quanti saranno, pressappoco: cinque? cinquanta? cinquecento?”.
Questa enfasi fa un salto di qualità negli anni Ottanta. Gli editori, tanto più disinibiti quanto meno sono liberi, lanciano allora “il più grande” giovane narratore ogni stagione, mentre la retorica dell’editing pseudo oggettivo, sciatta e proterva, sostituisce il dibattito tra visioni critiche consapevoli. Aumentano, a fine Novecento, i libri non scritti, tutti risvolto e fascetta; le poetiche si riducono a marchi; e i canoni s’impongono con tronfi atti d’arbitrio (il modello è Bloom). Nel frattempo, più diminuisce lo spazio della letteratura all’interno della cultura generale, più si moltiplicano gli inviti pretestuosi alla lettura. Celebre, negli anni Novanta, quello di Pennac, che insiste sulla fisiologica fame di storie degli esseri umani, e a cui Raboni risponde sensatamente che se si trattasse solo di soddisfare un tale bisogno basterebbero i telefilm. Ma appunto in materia da telefilm la televisione sta trasformando i testi e soprattutto gli autori, esibiti come personaggi in primo piano a discapito dell’opera. Al doping retorico sono sottoposti anche titoli e figure di cui si tenta un recupero postumo; e quando la loro verità è affidata a una voce fioca, da “piccoli miti che avrebbero tutto da guadagnare dall’esser lasciati in penombra”, questa voce rischia di essere coperta dal frastuono o di vedere ingigantiti i propri difetti. Una tipica vittima della “riscoperta” è Antonia Pozzi, poetessa morta a ventisei anni nel 1938, alla quale nel 1989 viene dedicato un volumone imbottito di inediti, varianti e apparati bibliografici, dove i pochi versi acerbi ma suggestivi affondano nell’ingenuità, nel sentimentalismo e nell’inconsistenza metrica e figurale di un’opera artificiosamente presentata come organica.
Ciò che accomuna monumentalizzazioni accademiche e campagne pubblicitarie è la finzione che esista un cielo di stelle fisse, ma un cielo assai più elastico di quello della tradizione astronomica. Contro ogni evidenza storica, ci si comporta come se l’arte prevedesse un “club dello spirito” da cui una volta entrati non si può più essere espulsi. Al contrario, ricorda Raboni, “ogni valore deve continuamente tornare in gioco, esser ripensato, rivissuto, sottratto a qualsiasi luogo comune e a qualsiasi principio di autorità”. Gli autori non vanno amati come statue in posa perenne, ma come vivi dalla sorte mai certa: occorre “lottare giorno dopo giorno con loro sapendo che un giorno potrà anche succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più”. E che non siamo davanti a una predica vaga, il critico lo dimostra con gli esempi. Si veda il bilancio affidato nell’86 alle pagine dell’“Europeo”, dove confronta scrittori che gli sembrano sottovalutati con altri intorno a cui ritiene ci sia troppo clamore: procedendo per vicinanza di latitudine culturale e differenza di prospettiva oppone Cordelli a Del Giudice, Volponi a Calvino, e si spinge a rivendicare la maggiore statura di Rebora, Tessa e Saba rispetto a Montale, che già in vita era trattato indebitamente come un autore canonico da secoli, cioè come un oggetto di puro studio del quale si dà per presupposta la valutazione. In particolare, risalendo le correnti delle storicizzazioni frettolose, Raboni sottolinea che certi giudizi derivano da una complicità con la propria epoca destinata a non reggere al tempo. Chi ricorda più tanti autori che a inizio Novecento occupavano il centro della scena, i Virgilio Brocchi o i Luciano Zuccoli? E chi, giustamente o meno, tra quelli di oggi subirà il loro destino? Domande simili si possono porre solo se non si crede che la storia ricominci a ogni generazione, come il giovane scrittore Covacich che nel 2000, in un elzeviro sul “Corriere” satiricamente ripreso da Raboni, s’interroga sulla scomparsa dell’introspezione a partire da Martin Amis e Bret Easton Ellis, quasi non fosse mai esistito il nouveau roman.
Quando dal panorama si passa a uno sguardo più ravvicinato ai testi, non essere schiacciati sul presente significa poter distinguere le sperimentazioni necessarie dalle patine decorative che si sovrappongono inerti alla materia, e che nella stagione postmoderna funzionano sempre più da segnaletica di una raffinatezza simulata (anche perché quella vera non è accompagnata da vistosi cartelli indicatori). “Certi scrittori (…) che una parte non irrilevante della critica si ostina a considerare barocchi o neogaddiani (…) a me sembrano soltanto mediocri falsari che tentano di dissimulare sotto roselline di stucco, incrostazioni di finta madreperla e glasse colorate la superficie di una scrittura intrinsecamente non meno piatta e desolata del retro di un casamento popolare”, afferma Raboni. Tra i bersagli troviamo qui il Consolo più lezioso, Bufalino e di nuovo Del Giudice, di cui si rileva l’incoerenza tra i progetti ambiziosi e la prosa “vaga e svolazzante”, frutto di un “vezzoso, frivolo accumulo di stereotipi grammaticali e figurali”; e troviamo poi, trattato con una severità commisurata al carattere più volgare del prodotto, l’edificante Stefano Benni, che con la sua stralunatezza sforzata appare “come l’ultimo scrittore al mondo che crede ancora nell’irresistibile comicità della congiunzione ‘laonde’ e della litote ‘non avremmo discaro’”. A volte alla sofisticazione corrispondono un talento e un’originalità reali, che però attraverso il suo schermo vorrebbero truccare le proprie debolezze – nascondere il bozzetto che sta dietro la pretesa vertigine sperimentale, o magari l’atteggiamento da goliardi velato dal gesto dissacratorio. Così in Nostra Signora dei Turchi, secondo Raboni, Carmelo Bene ci regala notevoli intuizioni di regia e performance di mimo, ma a volte, malgrado l’esibita oltranza sintattica, non oltrepassa la gag alla Walter Chiari, e soprattutto si sceglie obiettivi troppo facili, spernacchiando feticci da illustrazione ottocentesca già coperti di polvere.
A generazioni educate da media che gonfiano tutto a leggenda, e da una letteratura secondaria altrettanto dogmatica, giudizi simili sembreranno ormai incomprensibili o insultanti. Chi glielo va a dire, ai lettori e agli spettatori del 2020, che non solo Raboni non è uno sprovveduto, ma non è nemmeno un agente provocatore? Chi convincerà a ragionare gli odierni compulsatori di supplementi e frequentatori di festival culturali, i tifosi esagitati che per gli autori di cui sopra spendono aggettivi un tempo quasi negati a Dante? Missione quasi impossibile; specie se si considera che anche quando parla di raffinatezza in falso oro, il critico allarga il panorama a idoli più esotici e venerati. Si prenda il ritratto di Borges, in cui vede un epigono del filone fantastico che ha avuto una risonanza del tutto sproporzionata alla sua statura. Le prove? Il fatto è che mentre della grande letteratura, se parafrasata, resta assai poco, le “macchinazioni narrative” borgesiane sono così nitide ed elementari che “si conficcavano a meraviglia nella testa dei lettori e potevano benissimo essere raccontate agli amici come fossero battute di spirito o barzellette, senza che – nel passaggio dalla pagina scritta al riassunto orale – si perdesse quasi nulla del loro irresistibile sprint intellettuale”. “Barzellette”: cioè congegni privi di ambiguità e spessore, che non prevedono il ri-uso. Narrazioni del genere coincidono col loro progetto, con il meccanismo “che viene offerto alla nostra vista come un interno d’orologio water proof messo a far pubblicità alla propria marca e ticchettante dentro una vasca piena d’acqua”; e questo meccanismo lascia “assaporare l’ebbrezza della complessità” a chi non riconosce la complessità dove si trova davvero: “Con Borges si viaggia nell’infinito a poco prezzo, e col biglietto di ritorno prepagato”. Nelle opere dove si corre sul serio qualche pericolo da viaggiatori, invece, i labirinti non sono segnalati e “non si chiamano nemmeno labirinti ma, più modestamente, amore, gelosia, paura, porta di casa, finestra d’ospedale, ospizio, tunnel, tana”.
Al di là del caso Borges, Raboni diffida delle suggestioni capziose dell’allegorismo, il cui rischio “è quello di portarci attraverso lunghi e tortuosi cammini a significati così universali e sublimi da sfiorare l’ovvietà”; e per gli stessi motivi non apprezza la falsa profondità squadernata dagli aforisti di professione. Abisso trompe l’oeil da una parte, e griffe stilistica dall’altra, sono quasi sempre inseparabili dallo snobismo, ossia da un’angustia di visione estetica e in definitiva umana. Così, molto giustamente, il critico la denuncia in Thomas Bernhard: “la mia certezza di trovarmi di fronte a un buon scrittore (…) è inferiore solo alla mia certezza che la sua immaginazione, il suo pensiero, la sua anima, non siano – non siano mai stati – quelli di un grande scrittore”. Bernhard somiglia per Raboni a una “caricatura tirolese di Swann”. E qui aggiungiamo che malgrado i suoi enfatici lodatori fingano di respirare l’aria delle alte vette di spirito e strazio, un’indagine accurata rivelerebbe probabilmente che ne sfogliano i libri con la soddisfazione di chi si prende un po’ di riposo: l’autore di Antichi maestri è oggi una lettura d’evasione. Se su di lui aleggia il mito dello Stile, il mito della Struttura da gustare come una saporosa pietanza avvolge il Perec di La vita istruzioni per l’uso. Quest’opera, scrive Raboni offrendoci uno di quei paragoni debenedettiani in cui l’esattezza coincide con una rivelazione conoscitiva, “appare come la pantografia all’infinito, non meno superflua che ingegnosa, di una trovata che non ha in sé più forza propulsiva, più ‘destino’ di un aforisma o di una barzelletta”. Aforisma, barzelletta: ecco di nuovo i termini che indicano la più recisa condanna. Il Perec manierista costruisce sì una “cattedrale”, ma non a tre dimensioni: semmai “uno di quegli stupefacenti modellini in scala che altrettanto stupefacenti bricoleurs fabbricano per intero con dei fiammiferi usati o dei vecchi tappi di bottiglia”. Potremmo dire che se Le cose è un libro da novecentesco Flaubert, La vita l’ha concepito uno straordinario erede di Bouvard e Pécuchet. La vicenda dello scrittore francese disegna insomma una linea involutiva. Qualcosa di simile è capitato anche a Calvino, che dopo gli incantevoli esordi realistico-fiabeschi approdò all’idea di letteratura poi condensata nelle Lezioni americane, dove “Ridotto a piccole formule elementari, piacevoli, rassicuranti, a pochi temi pulitamente svolti ad uso, si direbbe, di studenti sprovveduti e neghittosi, l’esaltante corpo a corpo che oppone e identifica le forme dell’esperienza e quelle della scrittura, l’incandescenza dell’emozione e la ‘freddezza’ dell’oggetto poetico finito ci appare come un gioco enigmistico di illusoria, fraudolenta facilità, un investimento alla portata di tutte le borse come l’acquisto di un nuovo televisore o di una nuova lavatrice”. L’apologo migliore e più malinconico, Calvino ce lo ha dato con la sua carriera di accortissimo imprenditore letterario: e la morale è che “chi vuol farsi ascoltare da tutti ci riesce, purché rinunci a dire quello che aveva da dire”. Una diagnosi simile viene estesa anche a scrittori molto diversi come Kundera e Moravia. Cos’altro è, se non un percorso di normalizzazione, quello che porta dalla mirabile orchestrazione dello Scherzo alla “confezione di lusso, all’esibizione del paradosso, allo smercio dell’intelligenza in pillole” dell’Insostenibile leggerezza dell’essere? “Un grande scrittore ‘di provincia’”, emarginato dal regime cecoslovacco, si è trasformato in Francia “in un mediocre, brillante scrittore cosmopolita”. Anche Moravia è stato da giovane un “grande scrittore”; poi, secondo Raboni, poco sensibile al “meraviglioso stile di plastica” lodato da Luigi Baldacci in alcune tarde opere moraviane, non è stato quasi più scrittore affatto, ma piuttosto una sorta di rozzo pittore di ex voto, insieme arido e prolifico, intento a replicare le sue poche idee in forme schematiche ed edificanti. Non senza coscienza dell’empietà del pensiero, Raboni sospetta che forse avrebbe fatto meglio a fermarsi come Rimbaud. Invece Moravia ritorna dall’Africa “ogni volta più sano, più vispo e più petulante che mai, e con la valigia, ahimè, piena di articoli per il ‘Corriere della sera’…”.
Questi giudizi sul canone interno di autori comunque stimabili s’intreccia a una più generale polemica contro il midcult, cioè contro i prodotti estetici che volgarizzano i caratteri sperimentali dell’arte maggiore spargendoli come un profumo di lusso su una sostanza stereotipa. Da questo punto di vista l’insidia non sta tanto nei libri brutti quanto nei libri falsi, che non dichiarano ciò che sono e ingannano chi vi si accosta, intercettando e tradendo insieme “esigenze ‘ingenue’ ed esigenze ‘sofisticate’”. Un libro falso, scrive Raboni, è costruito “per sembrare ciò che non è, per fingere qualità e virtù che non possiede”: perciò “esso irretisce, confonde, ‘cattura’ i poveri lettori, facendo perdere loro il senso e persino il ricordo del sapore, della sostanza, del nutrimento offerti dalla vera letteratura alla quale, esternamente, assomiglia in modo impressionante, o comunque sufficiente a trarre in inganno un gran numero di persone”. Questo prodotto ricorda i “cibi adulterati (…) che siamo costretti ogni giorno a ingurgitare; e che a loro volta, oltre a nutrirci di meno e a propiziarci malattie mortali, ci fanno fatalmente dimenticare il sapore, l’aspetto, l’‘immagine’ dei cibi genuini…”. Nel pezzo del 1988 da cui abbiamo tratto le citazioni, il critico compila una lista di libri “veri” e “falsi” allineandoli su due colonne a fronte, e in conclusione accenna anche alla categoria che si potrebbe definire del fantasma testuale. Non si può infatti giudicare né brutto né semplicemente truccato un libro che resta al di qua di quell’azzardo esistenziale e formale da cui solo può sorgere la differenza tra riuscita e stecca. E’ il caso del Pendolo di Foucault di Umberto Eco, autore per criticare il quale, se non si vuole essere subito accusati di mitomania, oggi occorre davvero appoggiarsi all’ipse dixit (oltre che di Raboni, che so, di Francesco Orlando, o di Pietro Citati…), perché quel che molti della sua generazione ritenevano ovvio, ossia che fosse un divulgatore abile e un po’ grevemente goliardico, ma in nessun senso un pensatore o uno scrittore, è stato reso invisibile dalla vittoria accademico-mediatica del personaggio. “Non può essere brutto un libro che in nessun caso avrebbe potuto essere bello” dice Raboni del Pendolo, allora appena uscito. “Il bello, in letteratura, è una sorta di utilità marginale: nasce, se nasce, dal sovrappiù di senso che lo stile riesce a strappare al di là della realizzazione del progetto”; e in questo caso il progetto realizzato a tutto poteva somigliare “tranne che al libro di uno scrittore”. Quindi “sotto il profilo letterario Eco va assolto per non aver commesso il fatto”.
Ma proprio nel periodo in cui si esprime in modo così netto, il critico si accorge che nemmeno la sua autorevolezza basta più. Tentare di chiarire queste distinzioni a un pubblico quotidianamente indottrinato da altre voci, che possiedono la ben più potente autorità del fatto compiuto, significa pretendere di svuotare il famigerato mare col cucchiaino. La confusione dei valori, prima interessata e poi, consolidatosi un gusto midcult, proposta senza più coscienza, appare ormai fatale, e le categorie consuete quasi inservibili. Tuttavia Raboni sa anche che l’adulterazione non può cancellare le sue tracce: “E’ vero che letteratura d’arte e letteratura di consumo sono (…) due grandi vasche comunicanti; ma è anche vero che i passaggi forzosi da una vasca all’altra (e, si badi, in un senso come nell’altro) lasciano (…) striature incancellabili e ripugnanti sulla pagina”. Questa frase caparbia spiega in parte perché Raboni scriva parecchie stroncature proprio quando, a partire dagli anni Ottanta, nota che in assenza di spazi decenti in cui discutere, gli strali suonano spesso come pretestuose operazioni di cecchinaggio di una scuderia contro un’altra. Ma la frase serve anche a capire perché Meglio star zitti?, oltre che dalle stroncature (del resto, come ricorda il curatore, più ad rem che ad personam), si compone di molte riflessioni nelle quali il critico indica i punti di resistenza alla deriva. Almeno davanti agli autori di talento, la censura delle striature ripugnanti equivale infatti al riconoscimento di quel talento, e implica dunque il richiamo alla vera misura di quegli autori. Dove questa misura è rispettata, ed è evitata la stonatura, ossia in fondo la pretesa di essere ciò che non si è, Raboni mostra ben poche idiosincrasie. Poco importa che parli di un artista elitario o popolare, dalla vena esile o copiosa: assapora tutto, avidamente, con una quasi infinita disponibilità a lasciarsi sedurre che è proporzionale alla finezza del suo orecchio. Questo eclettismo si riflette nel calore con cui accompagna le esperienze di ricerca più diverse, evidenziando i bilanci in positivo con un tono che risente della formazione fenomenologica richiamata da Daino. Se si considera che i rappresentanti ufficiali di quell’abito filosofico, pur evocando di continuo la concretezza, nei loro discorsi farraginosi lasciano di rado emergere un oggetto ben definito, potremmo anzi dire che Raboni è uno dei pochissimi fenomenologi che lo siano davvero nella prassi, come dimostrano le sue approssimazioni calibratissime e aderenti alle “cose” più diverse. Chi voglia avere una prova emblematica della sua apertura può leggere l’articolo su Prévert, trattato con un’equità aristocratica che è l’esatto contrario dello snobismo di Arbasino, il quale mentre il francese conquistava le masse scrisse che ormai la gente si suicidava citando “poeti di terz’ordine”. Raboni racconta come si è colorata nel tempo la sua lettura del poeta: prima, da ragazzo, è stato incantato dall’impalpabile souplesse, poi se ne è disamorato fino a considerarlo inconsistente, e in seguito, in età matura, ha sperimentato “una sorta di irresistibile e gradevolissimo solletico”, scoprendo con ammirazione “quanti piccoli prodigi formali” si nascondessero sotto “tanta apparente facilità”. Ma anche Prévert, per essere apprezzato, va sottratto a misure inadeguate di grandezza: bisogna gustarlo “distrattamente, quasi di nascosto”, e non pretendere di farne un autore da Pantheon. D’altra parte “Che gusto ci sarebbe se acrobati e clown si esibissero alla Scala anziché al circo o per la strada?”.
A questa disponibilità di lettore corrisponde in Raboni una flessibilità anche stilistica. La sua è una prosa sciolta e pieghevole, che a volte, come per un eccesso di ricettività, sembra quasi priva d’ossatura. Gli epigrammi sono elegantemente sciolti nel flusso di informazioni e commenti, il tono di fondo è ironico e partecipe insieme. In questo critico convivono singolarmente sprezzatura e trepidazione. Usa spesso l’antifrasi di cui parla Daino, da fedele manzoniano, ma solo nei momenti di più altero rifiuto la si trova disgiunta dal sentimento di chi parla in nome di una comune collaborazione alla cultura e all’arte. Né va sottovalutato il registro intermedio dell’umorismo. Pensiamo soprattutto ai riassunti di certi libri, film o spettacoli teatrali un po’ ricattatori o pomposi, che pretendono di veicolare densi significati scandalosi o metafisici, magari attraverso quell’estetismo degradato che ora dilaga ovunque, e di cui quindi quasi nessuno percepisce più la comicità involontaria. Parlando del film che Bevilacqua ha tratto dal suo romanzo La califfa, Raboni conclude la recensione con questa sequenza lapidaria: “La fotografia è a colori. La musica – di Morricone, è chiaro – sembra tolta di peso da un elegiaco documentario sulla pesca delle anguille”. Ed ecco la chiusa del pezzo su Sergio Leone, che con C’era una volta il West ha rinnegato la sua identità, e anziché fare allegramente il verso a John Ford ha preteso di emularlo approdando a un gigantismo manieristico e monotono: “Tutti camminano con estrema lentezza, facendo scricchiolare gli stivali, e spostano gli oggetti più leggeri come se fossero macigni”. Ma forse l’articolo in cui l’umorismo e l’intelligenza analogica si fondono nel modo migliore è quello che descrive il libro-intervista di Ludovica Ripa di Meana a un anziano Gianfranco Contini. A proposito di miti, Raboni osserva che la cultura italiana è sempre impaziente di eleggere un Grande Vecchio a cui strappare oracoli su tutto lo scibile umano. Ne ha così bisogno da cercarlo addirittura tra i filologi. Curioso, ma anche un po’ triste, è che Contini accetti la parte, finendo per dare risposte in apparenza distanti dal suo consueto rigore. E si dice in apparenza perché quelle risposte, che vorrebbero evocare atmosfere da circolo esclusivo, ma che si adagiano su un sentimentalismo falso nobile e su un catalogo di idee ricevute, sebbene vezzosamente enunciate, costituiscono forse il vero retroterra su cui si stagliano le performance dello specialista puntiglioso, che ora, rivelandosi a nudo, ricorda al traduttore della Recherche l’erudito Brichot.
Ma si diceva che la sprezzatura e l’ironia convivono nella prosa raboniana con la trepidazione; e a testimoniarla, tra tanti segni, basti qui uno dei tic stilistici che più rivela il suo gusto, e che lega la scrittura del critico a quella del poeta. Come al lontano Pasolini, non poche cose sembrano a Raboni insieme “splendide” e “atroci”. Con l’ossimoro si riferisce di solito a opere eccessive, sbagliate eppure straordinarie, perché recano il segno di un’esperienza umana irrefutabile ed estrema. Sono simili ad architetture dirute, queste opere, a corpi sfatti e osceni che col loro crollo esprimono una verità più forte del fallimento. Dopo avere detto benissimo che il vero Hemingway si brucia al fuoco di un presente assoluto, non parafrasabile né commentabile, e che quando perde la presa diretta non può reinventarsi nel registro memoriale, Raboni afferma di ammirare tuttavia Di là dal fiume e tra gli alberi, dove l’incapacità dello scrittore-torero di eseguire la sua indimenticabile “veronica” è messa in scena con un’impudicizia temeraria, e lo sfacelo appare dunque “indecente e bellissimo”. Allo stesso modo, davanti al Journal di guerra di quel Drieu che non ama, perché l’ideologia fascista penetra fino in fondo nel vitalismo non eccelso della sua immaginazione nera, il critico ammette di essere ipnotizzato dai segni di un tormento autentico e senza scampo. Questo tormento, pure spudoratamente esibito, non cancella gli aspetti ripugnanti, ma scopre la loro radice in un destino tragico che impedisce al lettore di rifiutarlo come estraneo. Qualcosa di simile accade anche con Pasolini. Raboni non riesce a liberarsi di questo suo avversario. Più passa il tempo, più ne ammira la chiaroveggenza di saggista. Ma l’irrefutabile non sta solo lì. E’ vero che nelle opere d’invenzione lo trova fallimentare: un poeta in tutto fuorché nella sua poesia, della quale non padroneggia e forse inconsciamente condanna la “suggestione formale” e l’“ambiguità metaforica”, che utilizza come meri addobbi per rendere più persuasivi i ragionamenti. Eppure Raboni aggiunge che persino in quella poesia, “se c’è pochissimo (…) che prima o poi non le si ritorca contro, non c’è d’altronde niente, in tutto il male che possiamo dirne o pensarne, che non si ritorca in qualche modo contro di noi”.
Qui il “noi” esprime la coscienza del fatto che ci muoviamo sempre all’interno di una rete culturale e sociale, da cui dipende almeno in parte la possibilità di realizzazione del talento. A volte è proprio questa rete che costringe certe vocazioni a crescere contorte come alberi su un terreno ostile. Si veda l’elzeviro del 2002 nel quale Raboni si confronta col vecchio tema della refrattarietà italiana al romanzo, e col periodico vagheggiamento di un suo Grande Esemplare sempre di là da venire. Il cuore del pezzo sta nell’idea che assai più della poesia, e quasi quanto il teatro, il romanzo esiga un’osmosi continua tra chi scrive e una comunità ampia e relativamente compatta di lettori. Di conseguenza, la mancanza dell’osmosi non può non riverberarsi su tutti i livelli del testo. Così, se è vero che nella modernità italiana ci sono stati grandi narratori, non essendoci stata una “civiltà del romanzo” è altrettanto vero che il loro profilo ne risente. Anche davanti a uno spartito assai consunto, lo si vede, Raboni sa schivare sia la banalità sia la tentazione del finto anticonformismo. Finché si muove tra la singola pagina o figura e questo campo lungo di diagnosi culturale, risulta quasi sempre efficacissimo. Diverso l’esito quando vuol saldare la diagnosi a un discorso politico che appena scopre le sue carte, oltre a uno schematico marxismo, rivela un moralismo e un pragmatismo lombardi né davvero pratici né moralmente convincenti. Soprattutto, Raboni sembra allora troppo poco propenso all’autocritica ideologica necessaria a chi, come lui, ha ricoperto ruoli di responsabilità, e quindi ha contribuito a determinare, seppure in piccola parte, la situazione che deplora. Le pagine meno felici sono insomma quelle in cui tenta di delineare una politica della cultura. Velleitaria e ingannevole, ormai lo sappiamo, è ad esempio la proposta di affiancare alle classifiche commerciali una cosiddetta giuria di qualità, dato che gli operatori che dovrebbero farne parte sono di solito prodotti della mentalità a cui dovrebbero opporsi. Per parafrasare Raboni, dove non c’è una civiltà della critica, anche l’attività dei critici ne risente; e se pretendono di costituirsi in potere di controllo collettivo dentro il sistema mediatico, non fanno che creare l’ennesima corporazione omologa a quel sistema, rivendicando un privilegio incongruo rispetto alla funzione intellettuale. Quanto al podio del critico di testata, che Raboni rimpiange, tramontata la sua generazione i giornali hanno sostituito alle armi della critica la critica delle armi editoriali, ed è illusorio pensare che si possa tornare indietro su quel terreno. Del resto è la stessa analisi raboniana, per come si sviluppa in questi pezzi, a confermare che strade del genere sono chiuse da tempo, e che lui, da critico come da poeta, è un eccezionale ultimo epigono. Fin dagli anni Settanta, infatti, parla dell’“ossequio alle ‘veline’ diramate dagli uffici stampa delle grandi case editrici”, e aggiunge che “Il fenomeno è così generalizzato e macroscopico da riuscire (…) praticamente invisibile”. I critici venivano già chiamati a cose fatte, a ratificare le decisioni dell’industria culturale. Divertente almeno quanto deprimente, sul tema della loro impotenza chiassosa, è l’articolo del 1979 che prende in esame il caso creato intorno a un romanzo di Carolus L. Cergoly. Prima dell’uscita, qualche settimanale lo ha lanciato insistendo sul profilo dell’autore, squisito lirico triestino erede della memoria asburgica; dopo l’uscita, i critici hanno montato un piccolo scandalo perché il romanzo non era il capolavoro che loro stessi avevano evocato. Qui Raboni cita un racconto di Malerba, Il pilota, dove il protagonista, coi piedi ben piantati sull’erba del suo giardino, cerca di guidare il moto terrestre: più o meno questa, dice, è la condizione di una critica che s’illude di pilotare ed è invece pilotata da chi ha bisogno dei “casi”. Nella vicenda Cergoly c’è poi una sfumatura in più. Alcuni svalutano il romanziere opponendogli il poeta, lui sì valoroso, eppure dei suoi versi non si sono mai occupati. Tipico, oggi più di ieri: si esclude dal dibattito letterario la poesia, e come un’onorificenza che non costa nulla la si assegna all’autore che si vuole espellere dai luoghi “che contano”. Il “però è un poeta” equivale a un “vada a giocare in giardino e lasci in pace i manovratori”. Eppure, più questo sistema di potere e di comunicazione accentua la sua impudenza tragicomica, più si nota un fenomeno bizzarro. Malgrado la critica residua conti così poco, si pretende che anche la sua debole voce celebri i “grandi” a cui si offrono enormi canali distributivi, sponsor illustri, comparsate in tv e costosi spot multimediali. Un po’ come i borghesi arricchiti, impazienti di travestirsi con i blasoni della nobiltà ormai sul lastrico, senza quel sigillo le starlette del sistema sentono di non esistere del tutto. Nel 1995 Raboni commenta un’intervista in cui De Crescenzo ha confessato di aspirare più che a ogni altra cosa alla recensione di un autentico critico: “Impossibile non commuoversi;” ironizza l’“autentico critico” sul “Corriere”, “e infatti (…) mi sono commosso. Poi però, ripensandoci, mi sono venute in mente due cose. La prima è che quando, anni fa, mi è capitato di recensire in questa stessa rubrica un suo libro, mi risulta che De Crescenzo non ne sia stato affatto contento. Forse perché ciò a cui aspira non è tanto una recensione quanto, più specificamente, una recensione favorevole?
La seconda cosa è più seria, e trascende il toccante episodio da cui sono partito. La verità d’ordine generale che traspare dal desiderio di De Crescenzo è, molto semplicemente, questa: gli autori di bestseller, i beniamini del pubblico, i re del mercato librario non tollerano che ci sia, accanto a quello che li esalta, un altro sistema di valori. Vogliono tutto; pretendono l’unificazione di tutte le glorie, da quella delle classifiche a quella della critica”.
A questo punto va detto che nel regime successivo a quello descritto da Raboni, l’unificazione apparente si è compiuta in maniera così perfetta che il “tutto” ha finito per svalutarsi in una spirale inflazionistica a cui nessuno riesce a opporre argini robusti. Con il web, e con una pervasività mediatica sempre maggiore, il sistema è stato portato alle estreme conseguenze, e come accade in ogni estremizzazione ha rivelato l’ideologia che nel suo stato precedente rimaneva nascosta. Adesso il re è sempre vestito di menzogna, ma è anche sempre nudo. Ormai si fatica a credere almeno un po’, come molti ancora vent’anni fa, in quelle strutture di mediazione editoriale e “umanistica” che erano già da lungo tempo corrose, ma che prima, siccome occorreva passare per forza dai loro uffici, ostentavano senza troppo timore di smentita le insegne dell’alta cultura. Però vale anche il contrario: il riconoscimento di un mare in cui tutti si nuota non serve a cambiare nulla. Si è anzi aggravata, lo sappiamo, quella che negli anni Novanta Raboni chiamava “solenne ubriacatura di populismo e di qualunquismo”, offrendo tra gli altri l’esempio di una pubblicità della rivista MicroMega che nel 2020 non può non fermare l’occhio del lettore: al numero in edicola l’ottobre del 1997, vi si dice, “hanno collaborato fra gli altri Immanuel Kant, Beppe Grillo, Massimo Cacciari…”. Questa ubriacatura, osserva il critico, testimonia dell’unica rivoluzione che si sia realizzata in Italia, la rivoluzione che istituisce la democrazia delle opinioni di competenti e incompetenti. D’altra parte, se gli scrittori meglio promossi non sono molto più attendibili dei cuochi che scrivono un romanzo, i cuochi meritano di non essere discriminati rispetto a loro. Semmai l’incoerenza rivelatrice di questa democrazia, l’ingiustizia nell’ingiustizia che unisce al peggio del nuovo il peggio del vecchio regime, sta nel fatto che si arresta o addirittura arretra davanti al dominio economico: chiunque può dire la sua sotto i riflettori più potenti, basta che sia già potente. Da un lato si finge che le classi non esistano più, dall’altro che le disuguaglianze sociali dipendano da una sorta di differenza biologica. Se però il problema immediatamente politico esige una lotta organizzata, e ricorda quanto sia urgente tornare a elaborare prassi non demagogiche, quello critico credo debba essere affrontato spostando il punto d’osservazione. I vecchi ruoli pubblici, con le loro reti corporative, rendono oggi addirittura impossibile una critica schietta. Ma in fondo anche questa impossibilità ha fatto chiarezza: più che esserlo stato sul serio, l’intellettuale moderno si è voluto credere legislatore, sopravvalutando la sua influenza e dimenticando che critica e potere sono inversamente proporzionali. Adesso, senza gli equivoci determinati da una modernità in cui la letteratura contava ancora qualcosa, questa verità è soltanto più evidente. Non a caso i pochi giudizi davvero inattendibili di Raboni, i giudizi ingiustificati quasi quanto quelli che biasima, somigliano ai gesti irritati di un funzionario che ordina di fermare un cittadino pericoloso per l’ordine costituito: non sembrano cioè del tutto scindibili dai posti di potere che ha ricoperto. Ma senza il critico col podio, cosa resta? Restano scrittori che per uno strano miscuglio di vocazione e ossessione scrivono di libri, film o pièce, confrontandoli col resto dell’esperienza umana; resta che se lo fanno davvero, qualunque sia il grado di visibilità toccato al loro lavoro, hanno comunque più realtà dei miti imposti da una pubblicità travestita da cultura; e resta che farlo davvero significa non poter essere garantiti neppure da un apriori teorico, dato che “non c’è metodo che non abbia bisogno, per realizzarsi davvero in un giudizio non gracile e non tendenzioso, dell’aiuto di un altro metodo, di altri metodi – o magari, perché no?, del libero, onesto esercizio di quell’ineffabile ma indispensabile dovere-virtù che è (absit iniuria verbis) l’intuito critico”. A prescindere dal contesto, ecco una tautologia dalla quale non si scappa.
[Una versione più breve di questo articolo è uscito sul Domenicale del «Sole 24 Ore»].
Caro Matteo, il piacere di leggerti è divenuto puro sballo quando, leggendo che “ [s]i è anzi aggravata, lo sappiamo, quella che negli anni Novanta Raboni chiamava « solenne ubriacatura di populismo e di qualunquismo », offrendo tra gli altri l’esempio di una pubblicità della rivista MicroMega che nel 2020 non può non fermare l’occhio del lettore: al numero in edicola l’ottobre del 1997, vi si dice, « hanno collaborato fra gli altri Immanuel Kant, Beppe Grillo, Massimo Cacciari… » “, mi sono ricordato di un mio vecchio diario, questo: “ Giovedì 9 ottobre 1997 – « A questo numero hanno collaborato tra gli altri: Immanuel Kant, Beppe Grillo, Massimo Cacciari, Piercamillo Davigo… » («Micromega», 4/97, copertina) “. Caro Matteo, lo sai qual è il primo “ testo “ di questa specie di diario che da quasi quarant’anni vado scrivendo? È quello che, nel dicembre 1972, si propone di “ tenere la bocca chiusa / tenere lo spirito dentro / fa un bel calduccio dentro / e mette voglia di scopare “… A parte lo scopare, è quello che penso ancora. Stiamo zitti e, soprattutto, cerchiamo di ridere. “ Rideamus igitur “, come direbbe, se non fosse abbondantemente morto, il famigerato professor Eco.
Ho letto con interesse il lungo pezzo: mi lasciano a dir poco perplessa i commenti su Thomas Bernhard. Già di per sé non ritengo che quella breve recensione con cui Raboni stroncava nel 1993 “Antichi maestri” faccia onore all’illustre critico. Una paginetta stizzosa e umorale, piena di asserzioni tanto perentorie quanto superficiali, in cui senza mai entrare nello specifico del romanzo e della poetica di Bernhard, si riassume il personaggio di Reger (e si condanna Bernhard tout court) con una formula a effetto, sprezzante e e riduttiva: “una caricatura tirolese di Swann”. Formuletta semplicistica e accusa ingiusta, giacché tutto si può imputare a Bernhard, fuorché di essere uno snob.
Ora Matteo Marchesini se la prende oltre che con Bernhard anche con i suoi ingenui e un po’ stolidi ammiratori (che sono legione… Giusto per ricordarlo: Thomas Bernhard è ritenuto unanimemente dalla critica come uno dei maggiori scrittori tedeschi del secondo Novecento…). Scrive Marchesini: “E qui aggiungiamo che malgrado i suoi enfatici lodatori fingano di respirare l’aria delle alte vette di spirito e strazio, un’indagine accurata rivelerebbe probabilmente che ne sfogliano i libri con la soddisfazione di chi si prende un po’ di riposo: l’autore di Antichi maestri è oggi una lettura d’evasione.”
“Antichi Maestri”: una lettura d’evasione?
Che cosa vuol dire? Che noi lettori, interpreti, ammiratori di Bernhard siamo uno stuolo di intellettualini velleitari che si trincerano dietro le eleganti copertine color pastello dei Bernhard adelphiani facendo finta di elucubrare sui massimi sistemi, ma – stante le nostre modeste doti critiche e intellettuali e stante il modesto valore di Bernhard – meglio faremmo a leggere Fabio Volo o Sophia Kinsella?
Hanno ragione Raboni e con lui Marchesini a rammentare il grado di rapida obsolescenza cui sono stati sottoposti nomi un tempo glorificati dalla critica e dai media, ma proprio questo avvertimento dovrebbe anche indurci a considerare che la fama di Bernhard è stata tutt’altro che effimera. A trent’anni dalla sua morte e a ventisette dalla recensione liquidatoria di Raboni, possiamo tranquillamente affermare, parafrasando Boulez: “Bernhard demeure”.
“ 16 febbraio 1988 – Il critico è sempre « uno spettatore che scrive », come dice Raboni? Il critico e il suo attore: una specie di rapporto sessuale. Brutale, come nel caso di Davico Bonino – che tratta Bene come una ragazza coccodè -, assente ma sensuale come in Raboni, impotente perché imitativo in Almansi. “.
Come spesso accade, provi e riesci a dirci che in maniera quasi ciclica si creano le condizioni per riprendere il giudizio di un critico del novecento. In questo caso, sulla scorta di Raboni puoi denunciare l’assunzione a mito di Bernhard, un fenomeno degli ultimi anni; così come le caricature di Papini ricordano gli articolisti di Pangea, gli asini e le carote. E poi Eco, Borges e il re dei meme Bene. Gli autori intoccabili sono già stati toccati, ma ce l’hanno fatto dimenticare.
Non farei molto affidamento sulla forza dell’oblio come forza alla quale abbandonarsi in attesa che ripulisca il campo dai meno adatti alla sopravvivenza. L’industria editoriale non potrebbe sopravvivere senza un’obsolescenza programmata: proprio perché sa che domani è un giorno lontano, deve innalzare alle stelle i prodotti dell’oggi. Dire che un giorno ci dimenticheremo delle lodi sperticate con cui accogliamo l’ennesimo capolavoro è fare il loro gioco. Quando esce l’ennesimo capolavoro, qualcuno dovrebbe dire subito che è una fuffa (e qualcuno lo fa: come lo faceva, appunto, Raboni).
Dai una defizione circostanziata della critica. Personalmente, la condivido, e condivido anche l’appello all’intuito: ma mi rendo conto che dichiarare l’intuito essenziale all’attività critica potrebbe assolvere anche chi si affida all’intuito come forza irrazionale che scombussola e vandalizza la conversazione e i giudizi giusto per vedere chi si fa più male. Il proprio intuito è facile da difendere, di quello degli altri è invece sempre lecito sospettare.
Se è vero che una certa figura del critico si estingueva con Raboni perché non c’erano più le condizioni per tenerla in vita, dovremmo anche capire meglio se così se ne va la critica tout court o se invece abbia assunto altre forme più in linea coi tempi senza farsene serva. Già da alcuni anni si vedono giovani critici italiani che prendono a modello la saggistica anglosassone e americana, le recensioni delle riviste letterarie di questi paesi e il loro modo d’argomentare, senza poterne importare il sistema di finanziamenti e posizionamenti che in quei paesi è consustanziale all’idea di diventare ed esercitare la professione di critico letterario. Quindi va bene il critico isolato e invisibile, ma la sua invisibilità è sana o patologica a seconda della rete culturale che siamo in grado di tessere. Al momento, il critico è più saltuario, meno sistematico, non scrive per raccogliere i suoi scritti, e pubblica dove può. Ma, nei casi migliori, questo non è un limite: anzi, induce a un senso di responsabilità molto più severo, a un contatto più quotidiano con un futuro che non si ricorderà di noi.