[Oggi ricorre il trentennale della scomparsa di Giorgio Caproni. Da Il mio Enea di Giorgio Caproni, a cura di Filomena Giannotti, con Prefazione di Alessandro Fo e Postfazione di Maurizio Bettini, da poco uscito per Garzanti, pubblichiamo la Prefazione di Alessandro Fo e una parte dell’Introduzione di Filomena Giannotti. Ringraziamo l’editore per la concessione (mb)].

 

Il messaggio d’Enea (un momento alto della vita)

di Alessandro Fo

 

A celebrare la ricorrenza del trentennale della morte di Giorgio Caproni (22 gennaio 2020) interviene, fra le numerose altre iniziative, questa particolare raccolta di suoi scritti: un libro inconsueto, strano e affascinante. E un libro necessario.

 

Un giorno dell’estate del 1948, il trentaseienne Giorgio Caproni – nato a Livorno, cresciuto a Genova, e residente con la moglie Rina e i due figli Silvana e Attilio Mauro in Roma, dove lavora come maestro, poeta già riconosciuto, la cui giovinezza è stata segnata dai profondi traumi dell’improvvisa morte di una prima fidanzata, e poi degli anni di guerra – si trova a Genova e passa in piazza Bandiera. D’improvviso, prende allora corpo per lui uno di quegli eventi che vorrei definire «momenti alti» della vita. Attimi in cui, in un lampo, diverse contingenze convergono a condensare un’esperienza profonda, toccante e decisiva, un’epifania che illumina, con forte impatto emotivo, un qualche asse portante dell’esistenza.

 

Fra le rovine causate dai bombardamenti, Caproni scorge una settecentesca statua di Enea, col vecchio padre Anchise sulle spalle e il piccolo figlio Ascanio per mano. Sebbene fermo nella sua statuaria (e barocca) coniazione nel marmo, Enea sta «passando» qui, in Genova, da piazza Bandiera, sorpreso in un ‘fotogramma’ della sua annosa fuga obbligata dalla patria distrutta, e nella sua inesauribile ricerca di un nuovo spazio in cui stabilirsi. Istantaneamente si manifesta a Caproni un travolgente significato di quella apparizione: Anchise è il passato, una tradizione invecchiata e logora, Ascanio il futuro in erba, Enea lo specchio di Giorgio Caproni stesso, uscito a stento vivo da una guerra tremenda, e ora immensamente solo nella responsabilità di ‘ricostruire’ per sé e i propri cari. Al contempo, quell’Enea è anche lo specchio di tutta l’umanità della sua generazione, alle prese con le medesime urgenze, pressioni e difficoltà. Ragioni tutte per cui Caproni non tarderà a definire quell’Enea «quanto di più commovente io abbia visto sulla terra».

 

Questa sconvolgente rivelazione è, com’è evidente, di natura poetica: nutrita di cultura (la memoria virgiliana) ed ‘elevata alla potenza’ figurale dell’allegoria. Un grumo d’ispirazione che coverà a lungo nell’animo di Caproni, fino a trovare il suo naturale esito in parole per rima con Il passaggio d’Enea (composto fra 1954 e 1955), poemetto consegnato all’eponima raccolta pubblicata da Vallecchi nel 1956.

 

Ma i momenti alti pretendono a loro volta di essere subito raccontati e condivisi, e così, nella (forse inconsapevole) attesa che questo zenit di commozione trovi la sua più giusta e affilata enunciazione, prontamente esso si riversa in un cospicuo flusso di prose che – a partire da due contigue cronache dell’ottobre 1948 fino a un cammeo interno al lungo articolo che Caproni dedica a Genova nel 1979 – ripetutamente torna a ricostruire contesto e lineamenti di quell’inattesa e sorprendente incursione direttamente al cuore della verità, a limarne i particolari, ad accrescere le riflessioni a margine.

 

Intorno a queste principali occasioni vortica un fitto complesso di riferimenti occasionali che, fra i primi anni Cinquanta e la fine degli Ottanta, documenta in recensioni, articoli, testimonianze e interviste, come quell’attimo di chiaroveggenza non abbia mai più interrotto, in tutto l’arco della vita del poeta, la sua spinta fecondatrice e ideologicamente propulsiva, portando l’eroe virgiliano a fare da vera e propria carta d’identità di Caproni stesso.

 

Grazie alla gentile autorizzazione degli eredi del poeta, Silvana e Attilio Mauro Caproni, che sentitamente ringraziamo, si sono potute qui raccogliere tutte queste occorrenze, per la paziente e meticolosa cura di Filomena Giannotti, già autrice di un cospicuo apparato di note all’ultima edizione Einaudi dell’Eneide (2012). La sua puntuale e appassionata Introduzione («Enea sono io, siamo tutti») ripercorre, dopo l’amore di Caproni per i classici (più diffusamente illustrato in un separato articolo preparatorio: Giannotti 2020), l’inclinazione della sua personalità creativa al costante recupero di certi temi dominanti, per come si manifesta anche in questa rosa di metamorfiche fluttuazioni, e infine i fondamentali valori simbolici che, fra le prose e i versi, Caproni assegna al suo Enea. Particolarmente prezioso è l’apparato di Note, che, oltre a segnalare le fonti dei vari interventi, con filologica attenzione tratta i problemi testuali eventualmente posti dai materiali, chiosa i principali riferimenti dotti, puntualizza dettagliatamente i vari slittamenti concettuali e tematici all’interno dei singoli resoconti dell’incontro fra il poeta di oggi e l’eroe virgiliano – non senza approdare a sicuri guadagni per gli studi caproniani. E guida in particolare alla lettura del complesso e assai studiato poemetto Il passaggio d’Enea, così che il dovizioso paratesto consolida un vero e proprio commento a quest’opera così cruciale nel Novecento poetico italiano, completo di tutti i debiti riscontri con Virgilio, Georgiche ed Eneide in prima linea.

 

Il volume è completato da un prospetto che, prescindendo dalle differenti tipologie (prose specificamente dedicate al tema, oppure menzioni occasionali di quel «momento alto») elenca in ordine di pubblicazione le varie occasioni d’incontro letterario fra Giorgio Caproni ed Enea (Cronologia), e da un Apparato iconografico. Ed è ulteriormente arricchito dalla riproposizione di un noto saggio con cui Maurizio Bettini mostra come nel Secondo dopoguerra «questo incontro con Enea lo si ricercasse non solo in Italia, ma anche in Germania e negli Stati Uniti, e più o meno esattamente negli stessi termini»: cosa che «getta solo un ulteriore fascio di luce sull’importanza della poesia di Caproni» – e della costellazione di prose e testimonianze che le fa da corona.

 

Un libro insolito, dicevo: e questo proprio perché, nel cangiante, caleidoscopico avvicendarsi dei motivi e dei punti di osservazione, la somma delle notazioni di Caproni mette capo di necessità al ciclico riproporsi di alcuni principali stralci descrittivi o narrativi, e dei nodi concettuali determinanti. Ma questo tratto di eccentricità si traduce in un accattivante punto di forza, perché Caproni – il musicista Caproni – mostra di lavorare, anche in questa reciproca interazione fra prose e versi, secondo la da lui prediletta tecnica musicale di «tema con variazioni». Questo libro nel suo complesso finisce dunque per presentarsi come una sorta di poema sinfonico, una singolare, sperimentale nuova Eneide della contemporaneità, che travalica lo stesso poemetto direttamente dedicato al Passaggio d’Enea, componendosi per progressive alternanze di avvicinamenti e fughe, in un suggestivo ventaglio di costanti e di scarti.

 

«Il mio Enea» è anche un libro, scrivevo sopra, necessario. Necessario per chi voglia comprendere a fondo l’umanità ferita e fraterna del poeta Giorgio Caproni, ma anche i traumi profondi della sua epoca e i destini generali di fronte a cui si è trovata («amore, com’è ferito il secolo», scrisse Giorgio alla moglie: Caproni-Verdino 2004). E necessario per chi (come me, come noi), crede fermamente che l’antichità abbia ancora un importante ruolo da giocare nell’oggi e che vada a tutti i costi stornato il rischio di quel «provincialismo» di cui scriveva T. S. Eliot, «derivante dall’applicare all’intera esperienza umana criteri normativi acquistati in un’area limitata». E precisamente (cito dal suo celebre, postbellico saggio What is a Classic, del ’44, pubblicato nel ’45) «un provincialismo non di spazio ma di tempo; per cui la storia non è che la cronaca delle invenzioni umane via via superate e messe da parte, e il mondo proprietà esclusiva dei vivi, una proprietà di cui i morti non posseggono azioni» (Eliot 1993; Fo 2004).

 

In questo senso gli studi di ricezione – non a caso in crescente incremento fra i cultori del mondo greco e romano – sono tutt’altro che un gioco di comparazione letteraria fine a se stesso. E non solo si manifestano come uno fra i più efficaci mezzi di diffusione di quel portato di forme e contenuti che lo specialista dell’antichità si è educato a indagare con amore, e fanno sì che sempre meglio se ne mettano a fuoco il rilievo e il valore, ma divengono anche uno strumento di piena comprensione di quella che è la naturale, imprescindibile azione profonda della tradizione sulla nostra società. È anche al servizio di tale obiettivo che Filomena Giannotti ha posto la sua sicura competenza di classicista. E pochi libri possono pervenire a segnalare, con una chiarezza pari a questo, a quale altezza di risultati uno stretto rapporto di continuità nell’innovazione possa collegare un capolavoro del passato quale l’Eneide a un capolavoro della contemporaneità come Il passaggio d’Enea, con il nuovo universale messaggio che esso veicola.

 

Questo regesto dell’incontro fra Enea e Caproni è infine, se mi si consente l’opinione, importante politicamente (e nell’Italia di oggi più che mai «necessario»), in quanto libro antifascista per genesi e natura. È infatti un’opera contraria – per le posizioni di Caproni – a ogni retorica vacuamente celebrativa e a ogni possibile avallo di violenza e sopraffazione. Enea assume la nuova epocale statura che Caproni gli assegna non già in quanto guerriero protagonista di mirabili aristìe, e meno ancora in quanto conquistatore, colonizzatore, fondatore di un impero. Bensì perché – e già in gran parte nel mite poeta Virgilio, che tentò così di ‘addomesticare’ una materia bellica estranea alla sua più intima vena – questo Enea impegnato nel suo inesausto «passare», uomo in difficoltà, vedovo, orfano, solo, alle prese con l’imperativo di sopravvivere, e di rigenerare il mondo, in un presente dai connotati estremi è – negli anni di Caproni – il sopravvissuto al Secondo conflitto, ma anche colui che in giro per il mondo ne è stato ridotto alla condizione di profugo (penso alla poesia di Heinz Piontek citata in Bettini 2002). Così come, dopo Caproni, diverrà il «detto immigrato» e «ignoto Enea, che mica lo si canta» di una poesia di Tiziano Rossi (in Gente di corsa, 2000: Bettini 2002; Fo 2007), o il migrante dei nostri giorni a repentaglio su un barcone (Bettini 2019).

 

Il passaggio di questo Enea è, d’accordo, in primo luogo il trascorrere dell’eroe virgiliano con il suo doppio carico in Genova e in prossimità di Caproni. Ma è anche il trascorrere di Caproni-Enea, con i suoi carichi verso un nebuloso avvenire tutto da rifondare (e che, nella sfera dell’individuo, fatalmente culminerà con le nebbie definitive in cui resta per noi avvolto l’Erebo del dopo-vita).

 

È anche l’intervenire di Enea nella nostra vita ovunque siamo, fosse pure in un «luogo non giurisdizionale» come una casa cantoniera, e in una notte qualsiasi.

 

Ma, se per un attimo volgiamo il nostro sguardo all’accezione del verbo «passare» che più ci turba e incrina di malinconia, poiché coglie l’ineluttabile natura transeunte di tutte le cose umane, allora ci accorgiamo che, dopo Virgilio e nella nostra modernità, anche grazie all’operazione con cui Caproni lungo tutta una vita ha recuperato e riscritto l’eroe di Virgilio (e dunque un poco anche grazie a questo libro, che ne registra il capillare lavoro), l’Enea che Caproni ritrae in questo suo «passare», designandolo come altissimo simbolo della condizione umana, è un Enea che si sottrae allo stesso inesorabile «fato» della precarietà: è un Enea che, ormai, ‘non passa’ più.

 

*

«Enea sono io, siamo tutti»

Introduzione di Filomena Giannotti

 

L’Enea di Caproni: «meno arma che vir»

 

Nel 1930 cadeva il bimillenario della nascita di Virgilio, che il regime fascista celebrò con grande enfasi, funzionalizzando tanto le Georgiche al rilancio del ruralismo, quanto il mito di Enea, presunto fondatore dell’impero romano, all’avventura coloniale. Giorgio Caproni aveva diciott’anni, ma erano già chiari quelli che Barbuto chiama gli «indizi del suo antifascismo connaturato», in particolare l’«umile e intransigente esempio del padre che non prese mai la tessera fascista», e al quale, date le sue idee anarchiche, i fascisti avrebbero poi bruciato i libri in piazza a Bonassola. A fare il resto furono gli studi compiuti privatamente presso il maestro Alfredo Poggi, sospeso dal pubblico insegnamento in quanto antifascista, che poi Caproni avrebbe ritrovato dopo la guerra «annerito dal campo di concentramento»[1]. Nel 1939 Caproni fu richiamato alle armi presso il 42° Reggimento Fanteria e nel periodo dal 10 al 25 giugno 1940 partecipò agli scontri contro i Francesi sul fronte occidentale. Da questa esperienza di guerra nacque Giorni aperti, un testo diaristico composto di quaranta brevi capitoli, in cui narra «gli spostamenti, le fatiche, l’attesa, le sensazioni e le emozioni della sua prima esperienza di guerra». Ma furono i diciannove mesi di guerra civile fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, trascorsi in Val Trebbia assieme alla famiglia e collaborando con i partigiani della locale Divisione Garibaldi, il vero snodo biografico – e, come si vedrà, letterario – di Caproni: «qui misi i primi capelli bianchi, assistendo con Rina e coi bambini (che più d’una volta hanno dovuto dormire sulla nuda neve) a indicibili scene di orrore»[2]. L’8 settembre Caproni era dunque in Val Trebbia e lì si unì ai partigiani fino alla Liberazione, per tornare a Roma solo nell’ottobre 1945. Ma la partecipazione alla Resistenza è rievocata nei suoi scritti sempre con grande modestia. Nel trafiletto Partigiano in Val Trebbia «senza sparare un colpo», che il 22 gennaio 2010, a vent’anni dalla sua morte, accompagnava la pubblicazione sul quotidiano «L’Unità» di una serie di racconti sulla sua esperienza dopo l’armistizio del 1943, si riportavano le frasi in cui Caproni affermava: «Non sono stato un partigiano nel senso eroico della parola. La mia parte, in quella lotta, fu molto più modesta». E sosteneva che il suo ruolo era stato solo quello di sfamare il paese e riaprire la scuola. Ma anche dopo il 1945, per Caproni e non solo, la guerra era in qualche modo proseguita nella vita quotidiana tra la miseria e la fame, tra le ferite dei bombardamenti e le lacerazioni degli animi. Dal 1946 diventò frequente la sua presenza su quotidiani e periodici della sinistra e nel 1948 il poeta partecipò sia all’Alleanza per la difesa della cultura, in cui erano schierati molti intellettuali di sinistra, sia al primo Congresso internazionale degli intellettuali per la pace a Wrocłac in Polonia, visitando, in questa occasione, il campo di concentramento di Auschwitz. Un ulteriore, significativo esempio del suo antifascismo è la decisione, nel gennaio 1961, di abbandonare «La Fiera letteraria» – con cui aveva collaborato nel 1947 e, dopo qualche articolo sporadico, in modo sistematico fra il 1955 e il 1961 con la rubrica Taccuino dello svagato –, in seguito alla scelta del direttore, Diego Fabbri, di pubblicare il saggio Poesia e libertà del rumeno Vintilă Horia, antisemita e simpatizzante filonazista.

 

Al di là della rilevanza di questi ultimi episodi, è il poeta stesso a ricordare nei suoi interventi quanto traumatici siano stati per lui quegli anni di guerra. Fra gli sparsi e toccanti passaggi che Surdich ha recentemente raccolto e riordinato nel saggio che chiude la ripubblicazione dell’opera Il «Terzo libro» e altre cose, se ne è scelto solo uno a titolo di esempio:

 

[…] sono nato durante la guerra di Libia, ho assistito da bambino alla prima grande guerra, sono cresciuto sotto la dittatura, ho fatto la seconda grande guerra e sono stato per giunta partigiano.

 

In questo stesso saggio, Surdich arriva a proporre che «a condensare in una cifra espressiva di intensa e autentica risonanza il sentimento di chi ha transitato gli anni dei totalitarismi, della guerra, della Resistenza, della Liberazione, e ha inteso darne testimonianza poetica», valgano proprio le parole, questa volta in versi, di Caproni, «“la guerra/ penetrata nell’ossa”: così semplici, così vere, così antiretoriche nella loro consapevolezza del male e dell’orrore, nella loro dignità che respinge qualsiasi forma di resa».

 

Non rimane che sottolineare, a questo punto, quanto profondamente quei tragici eventi abbiano inciso, fino alla fine, sulla sua scrittura e sulla sua visione del mondo – oltre che sulla sua vita. «L’esperienza della guerra significa per Caproni tanto la decisiva maturazione della propria opera di fronte ai drammatici eventi imposti dalla storia, quanto una profonda presa di coscienza di crisi della modernità. Sulla scorta di Dante ed Eliot, il presente è denunciato come “terra guasta”[3], incapace di fornire appoggio, riferimenti o futuro»[4]. Di qui, da un lato «la coscienza che l’essere umano perde il suo mondo […] e la propria identità nel momento stesso in cui distrugge il mondo e l’identità dell’altro», e le indagini sulle «ferite profonde che incide nelle coscienze il mostro della guerra», dall’altro l’infrangersi della «retorica letteraria, ideologica e comunicativa del linguaggio» una volta «chiamata a confrontarsi con il silenzio dei morti».

 

Questa lunga ma doverosa premessa aiuta a comprendere pienamente il significato del mito di Enea per Caproni. Con «la guerra/ penetrata nell’ossa» era infatti inevitabile che, in ogni sua ripresa, venisse riletto, riscritto in una versione depurata da quegli aspetti su cui aveva insistito la retorica augustea prima e fascista poi, e trasformato anzi in un «anti-mito»[5]. Tale trasformazione culmina, come si è già visto, nei versi del Passaggio, ma è realizzata nelle prose che lo precedono e lo seguono – siano esse articoli specificamente incentrati su Enea o testimonianze occasionali sulla sua figura –, e che sono state giustamente definite «una sorta di officina in cui meditare e rilavorare il mito di Enea».

 

Riconsiderando da questo punto di vista le numerose prose che, con le costruzioni, i montaggi e le revisioni, hanno portato a tale (ri)lavorazione, è d’obbligo partire da quelle in cui Caproni tiene a precisare che l’incontro con Enea ebbe una sua fisicità: «io Enea me lo vidi davanti». E ancora: «non avrei mai scritto Il passaggio d’Enea […] se non avessi incontrato, in piazza Bandiera, Enea in persona».

 

Senza questa sensazione, non sarebbe forse apparsa tanto eccezionale nemmeno la serie di casualità che lo hanno interessato, sia pure in forma di monumento: «che, da Troia totalmente incendiata e diroccata dalla guerra», abbia finito la sua fuga «proprio in una delle città più bombardate d’Italia»; che dopo tante peregrinazioni da una piazza all’altra di Genova, «tale statua sia venuta a capitare proprio nella zona più bombardata e tartassata della città»; infine che «un gruppo che partito così da Troia in combustione, così se n’è rimasto tra le fiamme di questa tremenda guerra, uscendone con un minimo danno: un piede sbocconcellato ad Anchise, il quale è l’unico danno subìto su una piazzetta angusta dove le bombe han risparmiato ben poco».

 

Ma soprattutto, senza quella fisicità, sommata alle altre incredibili circostanze che si sono appena elencate, non avrebbe fatto la sua comparsa nemmeno quel misterioso soffio giunto alle orecchie del poeta con le parole «il fato di Enea», tuttavia subito bollate come scolastiche e retoriche, forse perché frutto di un ricordo, maturato proprio sui banchi di scuola, dell’espressione con cui Virgilio definisce l’eroe fato profugus (Aen. I 2): «“Il fato di Enea”, sentii soffiare al mio orecchio. Ma era una reminiscenza scolastica, e subito la scacciai come cosa indegna e del tutto retorica di fronte a quella minuta statua cariata così dimessa, così umana, così vera».

 

Da quest’ultimo brano emerge con particolare evidenza quanto profonda sia la distanza che separa l’Enea di Caproni da quello scolastico, e quanto forte, di conseguenza, appaia il disinteresse del poeta sia per l’antico aspetto augusteo e ‘cortigiano’ dell’eroico viaggio di Enea, che avrebbe poi dato vita ai romani e alla gens Iulia, sia per l’uso fascista e imperialista della sua missione di conferire un ordinamento civile alle città vinte[6]. Mentre parallelamente, e per opposizione, prende forma, in tutte le sue sfaccettature, il valore simbolico che Caproni attribuisce al suo Enea.

 

Si tratta, in primo luogo – dice l’autore – di «un Enea scaturito, dopo una lunga dittatura, dalla terrificante esperienza della guerra, che ha investito in pieno la mia generazione e ha lasciato tante macerie non soltanto materiali». E con queste rovine «non soltanto materiali» Caproni voleva forse alludere anche a quella che nel gruppo statuario è la «tradizione che ormai crolla da tutte le parti, perché è stata sbugiardata dalla guerra». Insieme alle case e alle istituzioni, ai miti e ai valori tradizionali, questo nuovo Enea ha visto dissolversi anche le speranze. Di conseguenza il futuro gli si presenta a sua volta incerto e precario, con «la speranza che ha bisogno di essere sorretta, invece di sorreggerlo». Il compito immane di fronte al quale Enea si ritrova, con il proprio dolore e le proprie domande, è reso ancor più difficile dalla circostanza per cui, essendo stato sconfitto, è «in cerca, dopo la guerra e l’incendio, d’una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondata nuova città». Quest’ultima osservazione sulla «mai fondata nuova città» schiude un’altra sostanziale differenza con l’Enea virgiliano, destinato invece a porre le basi per la successiva fondazione di quella che sarebbe diventata il caput mundi. E intanto un ulteriore valore simbolico va ad aggiungersi a quelli già esaminati, ovvero la condizione di esule:

 

Nel punto in cui, trascinando il fanale

rosso del suo calcagno, Enea un pontile

cerca che al lancinante occhio via mare

possa offrire altro suolo – possa offrire

al suo cuore vedovo (di padre,

di figlio – al cuore dell’ottenebrato

principe d’Aquitania), oltre le magre

torri abolite l’imbarco sperato

da chiunque non vuol piegarsi[7].

 

In questa ricerca, Enea, che era già «solo nella catastrofe», giunge «nel punto/ d’estrema solitudine»[8]. Si tratta forse, tra le varie sfaccettature simboliche, di quella che segna la maggiore distanza dal modello virgiliano, ma che, al tempo stesso, si presenta più carica di significato. È Caproni stesso a sottolinearlo: «Enea simbolo, insomma, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere».

 

Di diverso, rispetto alla tradizione classica, vi è il fatto che, mentre il personaggio virgiliano poté giovarsi dei consigli del padre per buona parte dei suoi viaggi nel Mediterraneo, fino alla sua morte a Drepanum, e poi nell’incontro ultraterreno, quello di Caproni si ritrovi privo di riferimenti: «un Enea, insomma, sola guida di se stesso e disperata guida di quelle (la tradizione: il padre; la speranza: il figlio) che dovrebbero essere le sue guide». Non solo Attilio Caproni morì proprio nel 1956, lo stesso anno in cui uscì Il passaggio d’Enea, ma più volte il poeta ebbe occasione di esprimere (per ricorrere a una centrata sintesi di Antonio Barbuto) il proprio «disorientamento esistenziale provocato da un presente stravolto e degradato; sicché la situazione generazionale richiama forzosamente l’Anchise-Enea-Ascanio de Il passaggio d’Enea fuori ormai però del contesto del dolore storico che caratterizzava quella stagione».

 

È utile ripartire da quest’ultima osservazione per aggiungere che proprio la solitudine è determinante per l’attualità e quasi l’atemporalità di questo Enea: «l’uomo colto nella sua più assoluta solitudine, simbolo, per me, dell’uomo di quegli anni, e forse non soltanto di quelli, se ancora oggi ci troviamo soli di fronte a una tradizione che sta per sgretolarsi e una speranza che non riesce a prendere consistenza». E ancora: «Sono i miei consueti temi, più scarniti: la solitudine dell’uomo d’oggi nella massa, forse la morte stessa dell’uomo, Enea sempre più solo e che sempre meno sa quale città fondare».

 

È, dunque, quello di Caproni, un Enea vivo e concreto, non scolastico e libresco, anzi antieroico e antiretorico. E, in quanto nato in un preciso e drammatico momento storico (scampando ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, dopo essere ‘sopravvissuto’ all’incendio di Troia e alle peregrinazioni nel Mediterraneo), fortemente simbolico: sospeso tra passato e futuro, privo di una guida, in uno stato di confusione ‘generazionale’, esule in cerca di un approdo e, soprattutto, terribilmente solo e terribilmente attuale. L’identificazione non poteva che farsi esplicita («Enea sono io») e totale («siamo tutti»).

 

Due giorni dopo la morte di Caproni, avvenuta all’alba del 22 gennaio 1990, usciva sul quotidiano «La Nazione» l’intervista Sempre solo a cura di Paolo Alberto Valenti. «Mi pare che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta non fa che leggere se stesso», aveva dichiarato Caproni. Anche in Virgilio, in fondo, Caproni non aveva fatto che leggere se stesso e, nel proprio destino di uomo in una grande tragedia, non aveva fatto che tornare, con appassionata e commovente insistenza, a incontrare il proprio Enea.

[immagine: Foto di Dino Ignani]

 

 

 

NB: Alcune delle note sono rimosse in questo post, per cui si rinvia al volume. Ci scusiamo per l’inconveniente.

[1] Il commovente ricordo dell’incontro è in Caproni 1945. La Lettera da Genova, dell’ottobre 1945, «è il resoconto di un concitato e disperato attraversamento della città» tra le macerie delle vie e dei quartieri (Traverso-Surdich 2011, p. 42). Secondo Frabotta 1993, p. 66, «fu probabilmente quella sciagurata visita a suggerirgli l’idea di ricostruire, almeno poeticamente, la “sua” città». Sulla figura di Alfredo Poggi vd. Barbuto 1980, pp. 31-32.

[2] Dalla lettera a Betocchi del 18 agosto 1954, ora in Caproni-Betocchi-Santero 2007, p. 138. Le «indicibili scene di orrore» a cui Caproni allude sono probabilmente quelle narrate nei Racconti di guerra e partigiani – in particolare Sangue in Val Trebbia, Anche la tua casa, Un discorso infinito – in Caproni-Dei 2008, ed evocate nei sonetti I lamenti dalla sezione Gli anni tedeschi del Passaggio, in particolare nel Lamento V (OV, p. 119).

[3] «Terra guasta» era secondo Caproni la migliore traduzione del titolo The Waste Land del poema di Eliot. Vd. per esempio la conclusione della breve intervista su Dante per il libro, a cura di Francesca Pansa, Amore amore. I poeti e gli scrittori italiani contemporanei raccontano il loro poeta più amato e ne presentano i versi a loro più cari, Roma, Newton Compton, 1989 (pp. 41-44, poi in Caproni-Greco 2012, pp. 19-20 e in Caproni-Rota 2014, pp. 417-418). Cfr. anche Dei 1997, p. 60, n.  21 (a p. 66 = Dei 2003, pp. 14-15, con n. 21 a p. 23) e Dei 2016, pp. 67-68, n. 6.

[4] Baldacci 2016, p. 61.

[5] L’espressione si deve ad Annoni 2000a, p. 136.

[6] «L’uso fascistico dell’Eneide è ossessivo e stucchevole, in ispecie del VI libro e dell’ampia profezia post eventum che esso contiene […]. E […] il mito di una sorta di predestinazione teleologica dell’Italia a un ruolo direttivo, ‘imperiale’ (con largo uso di Eneide VI 851: “tu regere imperio populos” ecc.), rientra in modo quasi indolore nella preparazione ‘ideologica’ dell’avventura coloniale» (Canfora 1980, pp. 107-109).

[7] Il passaggio d’Enea, Versi v 1-9.

[8] Il passaggio d’Enea, Versi iv 2 e 14-15.

 

2 thoughts on “Giorgio Caproni, Il mio Enea

  1. Bello rileggere di Caproni e del mito di Enea, di cui mi sono occupato qualche anno fa.

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