di Mariangela Caprara

 

[Riprendiamo l’articolo pubblicato dalla rivista “il Mulino”, n. 5/2019, pp. 763-771, nella rubrica “A scuola”].

 

Inquadrare l’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia come ideologicamente reazionario non basta. L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019), è un libro ardimentoso. Non esattamente un saggio sulla scuola. Un libro molto emotivo e pesantemente autobiografico, poco documentato, sostenuto da una passionalità acre, benché non proprio distruttiva. La nostalgia del tempo che fu, dominante (quando non ottundente) nel ragionare dell’autore, circola da mesi sintetizzata nell’immagine della ‘predella’, la pedana sotto la cattedra, divenuta correlativo oggettivo dell’autorità degli insegnanti in un editoriale dello stesso Galli della Loggia (“Corriere della Sera”, 5.6.2018), che conteneva dieci suggerimenti all’allora neo-ministro Bussetti; il libro rilancia il decalogo rispondendo in modo articolato alle critiche, anche violentissime, piovute sull’editoriale. Ma c’è dell’altro. Anche qui, come nel suo Credere, tradire, vivere (Il Mulino, 2016), l’autore fa i conti con una gioventù infuocata e ‘marxisteggiante’ atterrata in una adultità acquiescente, responsabile e complice della paralisi attuale del Paese. In una prospettiva personalissima, l’analisi è intrecciata a un’autoaccusa che travolge un’intera generazione di intellettuali cosiddetti ‘di sinistra’. L’autodenuncia riguarda comportamenti omertosi e complici: “Chi, per esempio, lavorava all’università (è stato il mio caso) vedeva, sì, giungere ai propri corsi in sempre maggior numero ragazzi e ragazze privi dei più elementari punti di riferimento, incapaci di ripetere ragionamenti anche semplici in modo coerente e comprensibile, da un certo momento in poi addirittura non più in grado nemmeno di usare la punteggiatura […]. Ma – io e molti altri – abbiamo mantenuto il silenzio” (pp. 16-17). Per essere stato, dunque, in questa passività conformista, responsabile del consumarsi progressivo di una catastrofe, chi scrive queste parole cerca un’assoluzione, ma il suo temperamento leonino e un certo autocompiacimento non gli consentono un atteggiamento equanime e non accelerano il perdono. I toni della sua prosa, infatti, oscillano tra la ferocia e la tenerezza, distruggono ed esaltano in una passionalità che può travolgere. E infatti L’aula vuota è un libro molto rischioso.

 

L’obiettivo dichiarato è demolire i (falsi) miti sull’istruzione elaborati e divulgati sotto l’insegna della «scuola democratica» dalla sinistra italiana, divenuta culturalmente egemone a partire dagli anni Sessanta. In questa “storia mitologica”, come Galli della Loggia l’ha chiamata altrove, sono state definite delle categorie dalla singolare persistenza, per cui tuttora “la disciplina è di destra e l’assemblea è di sinistra, i voti sono di destra e le lavagne elettroniche sono di sinistra; di sinistra sono anche i genitori autorizzati a dire la loro sulla scuola, mentre la predella, be’, si sa, la predella sotto la cattedra altro che di destra, è praticamente l’anticamera del Terzo Reich” (p. 47). A causa dello “strapotere che in tutte le faccende italiane ha ancora l’ideologia”, non è possibile discutere di vere e proprie idee sulla scuola, che vengono troppo rapidamente inquadrate nel campo della reazione o del progresso. Nell’umile dipanarsi della vita scolastica, la fossilizzazione su posizioni elaborate ormai mezzo secolo fa, comune a una buona parte del corpo docente in virtù di una imponente catechizzazione sindacale, impedisce spesso di modificare abitudini ataviche in una risposta pragmatica ai mutamenti storici. Accade così che coloro che si dichiarano progressisti agiscano in realtà da conservatori.

 

Galli della Loggia difende con forza la trasmissione della cultura umanistica italoeuropea: la sua “inutilità” rispetto alle materie tecnico-scientifiche che, in un’inquadratura peraltro sbagliata, sarebbero i pilastri di una “scuola utile”, cioè orientata al mondo del lavoro, consiste invece nell’esercizio del dubbio e del confronto e nello sviluppo dell’emotività, secondo una convinzione peraltro diffusa (e proprio tra gli insegnanti di quelle materie). Astruse elaborazioni psico-pedagogiche non devono offuscare l’insegnamento di letteratura, arte, filosofia e storia, che educano e formano intrinsecamente con i loro contenuti. L’autore rilancia così un vero e proprio quadrivio: lingua e letteratura, storia, matematica e geografia (p. 55). Si rischia di essere senz’altro simpatetici con questa rassicurante delimitazione della funzione e dell’azione della scuola, tanto più nella centrifuga di modernizzazioni forzate che ha reso il mestiere di insegnante molto logorante. Ancor di più lo si è quando l’autore subito dopo si chiede perché mai “il modello dell’istruzione dei figli delle classi dominanti occidentali (dell’aristocrazia prima e della borghesia poi) non debba essere esteso anche ai giovani di diversa estrazione sociale” (p. 56), alludendo alla gerarchia piramidale delle scuole superiori che vede al vertice il liceo classico e alla base gli istituti professionali.

 

Però le riflessioni sembrano fermarsi qui: l’autore si sottrae all’esame di dati statistici sull’istruzione, né entra con proposte fattuali nel presente, per il quale sono necessari cambiamenti anche di sistema. Se infatti quel tradizionale quadrivio, nella sua solidità e ampiezza disciplinare, è una strada da considerare per recuperare, nella selezione anche drastica dei contenuti del canone scolastico, la dovuta incisività dell’insegnamento, si deve pensare anche a un ciclo unico fino ai sedici anni, di cui questi assi culturali siano struttura portante e nello stesso tempo adattabile, per tempi e modi della didattica. La scuola media non può più essere un triennio assolutamente incoerente con l’attuale limite dell’obbligo scolastico, residuo del ‘ginnasietto’ dal quale poi il 6-7% degli studenti parte per la “grande avventura umanistica” del liceo classico. Galli della Loggia, non fornendo ai lettori una prospettiva futuribile, finisce col produrre argomenti sovrapponibili a quelli di altri lodatori della scuola ‘giusta’, ma dall’efficacia perfino inferiore.

 

Un altro tema caro all’autore è quello dell’autorità degli insegnanti. La parola ‘autorità’, non addomesticata in ‘autorevolezza’, vuole provocare i lettori sinistrorsi, ideologicamente allergici alle gerarchie. Ma soprattutto, nell’esaltare l’autorità dell’insegnante e la centralità dello studio individuale, l’autore pentito del suo passato sinistrorso accarezza ed eccita una vasta platea di docenti, ritraendoli, secondo la mesta vulgata, senza possibilità di carriera, scarsamente retribuiti, privati della “facoltà di bocciare” (falso, a tutt’oggi) che li rendeva temibili all’interno dell’aula e fuori, insomma privi di ogni prestigio, frustrati e con l’autostima sotto i piedi. Il crescendo di mestizia approda a toni perfino mistici, quando Galli della Loggia riconosce una sola categoria di veri insegnanti, quelli capaci “di mettere l’allievo in contatto […] con il portato vitale e simbolico del sapere. Il che è possibile, peraltro, solo se egli ha un’assoluta padronanza di ciò che insegna. Solo alla condizione che egli ne abbia fatto la propria carne e il proprio sangue” (corsivo mio, p. 142). Questo è uno dei passaggi più arrischiati del libro: in questa esaltazione cristica del docente finiscono col riconoscersi infatti non solo i veri migliori, ma anche quelli che credono, ingenuamente o no, di possedere il carisma semplicemente perché hanno una laurea o un diploma magistrale.

 

Anche qui infatti, dopo aver toccato il punto più alto della rappresentazione, l’autore non propone modello alternativo che non sia il ritorno alla scuola degli anni Cinquanta; non parla, dunque, dell’urgenza di una formazione elevata, di un reclutamento per merito, di una strutturazione di carriera o della chiamata diretta dei docenti della scuola pubblica, che non parrebbe, nella sua prospettiva, troppo fuori luogo come terapia della scarsa qualità dell’insegnamento. Se dunque non vogliamo vedere, come Galli della Loggia, insegnanti professionalmente attivi perduti nei labirinti delle più vaghe mode pedagogiche, incalzati dalle urgenze della didattica ordinaria e speciale (quella per i “bisogni” definiti tali, che al nostro autore fanno ribrezzo), va definito nel corso di studi preparatorio all’insegnamento quale pedagogia e quale psicologia sono veramente utili nei vari ambiti disciplinari, quali tecniche possiamo riconoscere come sperimentate e valide. Sbagliato è dunque l’attacco alle specializzazioni post-laurea (p. 146, nota 2). Piuttosto, l’università deve assumersi la piena responsabilità di formare i nuovi docenti, sia sul piano disciplinare, sia sul piano più strettamente ‘tecnico’, e non ripetere, ad esempio, l’errore di promozioni indiscriminate, anche di veri incapaci, nelle varie scuole post-laurea inventate dai politici: in questo quadro, la ‘lettera dei Seicento’ o l’appello per il tema di storia all’esame di Stato, insieme a periodiche reprimende pubbliche sugli alunni capre che abbiamo, sono irricevibili.

 

La parte centrale del libro offre un compendio della storia dell’istruzione in Italia, che si richiama principalmente a La scuola degli italiani di Adolfo Scotto di Luzio (Il Mulino, 2007). All’esaltazione di Gentile, vero difensore della libertà e della qualità di insegnamento, fa seguito il racconto, non sine ira, del progressivo disconoscimento della valida scuola ‘borghese’. Galli della Loggia individua infatti negli obiettivi ‘popolari’ della Carta della Scuola di Bottai “quelli che nell’Italia repubblicana saranno gli assunti dell’ideologia ‘democratica’ in merito all’istruzione. Per una certa imbarazzante sovrapponibilità fra i principi invocati nel dopoguerra, specie dalla sinistra, circa la riforma dell’istruzione, e quelli enunciati da Giuseppe Bottai davanti al Gran Consiglio nell’anno XVII dell’era fascista” (corsivo mio, p. 101). Sarebbe dunque lo spirito del più fascista dei ministri dell’Istruzione a rinnovarsi negli anni Sessanta, quando una scuola, rimasta sostanzialmente immutata malgrado la caduta del fascismo, vista anche una certa timidezza dei padri costituenti nel definire l’istruzione come diritto soggettivo originario della persona, viene messa in moto dalla “grande trasformazione” (pp. 115 ss.).

 

È questo il momento della confessione del gigantesco abbaglio della cultura sessantottina di sinistra: la riforma della scuola media unica del 1962, momento fondamentale del passaggio a una scuola di massa all’insegna della “coesione sociale e culturale del Paese”, lasciava presagire un “ridisegno complessivo dell’intera costruzione educativa italiana” (p. 117), che rimane incompiuto. Sulla scuola si abbatte una furia riformatrice, animata soprattutto dal Pci, in senso non culturale, ma politico, i cui più nefasti aspetti sono la sindacalizzazione del corpo docente e l’introduzione dei meccanismi di decisione e di controllo per mezzo dei Decreti delegati. La descrizione tragicomica del funzionamento di questi organismi elettivi e assembleari è uno dei momenti più forti del libro: “La meccanica riproduzione a livello di ogni istituto del famigerato ‘dibbbattito’, come una sorta di parlamentarismo dei poveri, quindi come un continuo riunirsi, discutere, deliberare e dividersi, mettere tutto ai voti”. Di qui “l’inevitabile stanchezza per l’inconsistenza delle chiacchiere e dei risultati, la democrazia discutidora che si conclude in una vuota ritualità”, mentre incarichi, progetti e finanziamenti vengono spartiti “tra chi si riconosce in questa o quella parte (non necessariamente colorata politicamente) del corpo insegnanti e, nei casi più tristi, fra chi è o non è nelle grazie del ‘dirigente’” (pp. 125-126).

 

Il furore riformatore arriva a generare, alla fine degli anni Novanta, la scuola dell’autonomia, raffigurata da Galli della Loggia in tinte mostruose; tra osservazioni fortemente critiche vi è tuttavia l’importante riconoscimento di un fatto: “L’autogoverno dei singoli istituti, il presunto potere dal basso dipendono per intero dal centro ministeriale per tutto quanto riguarda gli aspetti organizzativi e amministrativi importanti. A cominciare naturalmente dall’erogazione della maggior parte delle risorse” (p. 131). Spesso, infatti, le aspirazioni culturali di una scuola non sono realizzabili, e la libertà, nella frustrazione dei risultati difficili da conseguire, fa sì che la pigrizia abbia la meglio, e dunque non vi sia nessun cambiamento reale, ma al massimo una riverniciatura verbale dei propositi didattici riportati negli obbligatori documenti di programmazione. Il fatto è che di ogni riforma manca la valutazione complessiva da parte dello Stato; e questo è un vizio italiano a cui l’autore del libro non dà il dovuto rilievo, mentre forse è troppo pessimista sugli sforzi fatti dai docenti per rendere serio l’incompiuto.

 

Va detto che una discussione approfondita sull’autonomia scolastica in Italia è tutta da costruire. Galli della Loggia appare scarsamente informato su molti dei suoi aspetti, e proprio in questo punto del libro si rilevano due gravi omissioni storiche: la prima riguarda gli anni Ottanta, quelli su cui hanno impattato una formazione universitaria scadente dei docenti (quella degli anni della ‘rivoluzione’, per intenderci) e un reclutamento in grandi numeri, ma senza criteri di qualità; la seconda riguarda i governi di centrodestra che hanno preso in mano la scuola riformata da Berlinguer negli anni Duemila. La nostra è infatti una scuola targata sostanzialmente Moratti-Gelmini, i cui esiti più gravi sono il fallimento del sistema tripartito dell’istruzione superiore, licei-tecnici-professionali (questi ultimi in una crisi gravissima), e i tassi elevatissimi di dispersione scolastica. E mentre non si è ancora fatto in tempo a valutare danni o benefici dell’ultima riforma, la famigerata “Buona Scuola”, nuove politiche populiste intervengono a opacizzare il quadro. Appare dunque urgente una valutazione culturale, e non solo politica, di questa scuola cosiddetta autonoma, alle cui magnifiche sorti e progressive è sempre più difficile credere. L’aula vuota raggiunge a colpo sicuro le frustrazioni di molti dei suoi potenziali lettori, ma questa emotività non può restarne l’unico effetto.

 

Terminato il percorso storico, il libro riprende la critica della modernizzazione mal-compiuta. Gli effetti nefasti del ripudio della tradizione culturale umanistica/nazionale/eurocentrica alla ricerca di un sapere futuribile sono esaminati con estrema durezza nel capitolo La storia e il nanerottolo saputo, un altro passaggio molto forte e molto giusto. Nei propositi attuali della scuola primaria il bambino “sarà un conoscitore […] (a dieci anni!) del ‘processo di ominazione’ e della ‘rivoluzione neolitica’, così come dei ‘processi di mondializzazione e globalizzazione’”, in “un delirio costruito affastellando e sdottoreggiando nel sadico tentativo (di cui è palesemente impossibile la riuscita) di trasformare un povero decenne in un nanerottolo saputo emulo di Paul Vidal de la Blache, Max Weber e Fernand Braudel messi assieme” (p. 154). Denuncia a chiare lettere di dato indiscutibile, basta sfogliare un libro di testo e ascoltare le proteste degli stessi bambini. Ma ancora: “La giovane vittima dovrà essere vaccinata, come impone la nevrosi politicamente corretta che pervade la scuola italiana, contro l’eventuale pericolo di rifiutare, Dio non voglia, la felice prospettiva di una società multiculturale e multietnica” (ibidem).

 

La selezione dei contenuti disciplinari è dunque avvenuta all’insegna di una catechesi globalista che sacrifica la conoscenza dei fatti storici (comprese le ormai innominabili date) all’indottrinamento ideologico, cioè ad una educazione intesa ‘alla Rousseau’, una formattazione politica del buon cittadino. Galli della Loggia vede bene che questa impostazione ideologica e catechetica pervade anche lo studio della storia del Novecento, dove le Indicazioni Nazionali per la secondaria di primo e secondo grado sono particolarmente enfatiche nell’imporre come centrali i binomi fascismo-antifascismo e Resistenza-Costituzione, da elaborare in una narrazione in chiave moralistico-materialistica (pp. 150-151), sacrificando in particolare l’osservazione delle dinamiche di potere, per cui uno studente al termine degli studi superiori è in grado di produrre davanti ai fatti storici un forte sentimento di indignazione, ma non di adottare categorie di tipo storiografico. Lo spettro di questa catechesi si annida anche nell’insegnamento chiamato «Cittadinanza e Costituzione» (capitolo La cosmopoli democratica): “Nella scuola […] la Costituzione figura ormai come una specie di mantra, di noumeno ispiratore evocato di continuo al quale cercare di ricondurre ogni cosa, e l’apprendimento dei cui valori – fissati in un’immobile astoricità da testo sacro – è quasi indicato come il fine ultimo dell’istruzione” (p. 223).

 

Questa impressione di Galli della Loggia, molto scomoda, può indurre una presa di posizione critica sulla imminente trasformazione di questo insegnamento in materia transdisciplinare, la cui valutazione rischia di distinguere gli alunni, alla stregua del voto di condotta, in buoni/cattivi, come nella vecchia (questa sì) educazione ‘morale e civile’. Il rischio da evitare è che un corretto inquadramento della Costituzione in chiave storica e istituzionale, nazionale e internazionale, sia trasformato in un paradossale indottrinamento di studenti già troppo poco critici, dei quali Galli della Loggia si chiede “se mai oseranno avere in merito alla scuola un’idea propria almeno all’apparenza non collimante con la vulgata di ciò che è ‘costituzionalmente corretto’” (p. 226). Aspetti di formattazione non solo culturale, ma anche psicologica, Galli della Loggia rileva poi nei propositi della didattica per competenze, a cui è dedicato il capitolo Il fare al posto del sapere. Evocando scenari orwelliani, dopo aver ripetuto la diffusa critica alla fumosità delle competenze e alla loro aspirazione astratta e utopica, l’autore esprime il timore di una valutazione psicometrica: dietro l’osservazione di ciò che l’alunno sa fare, si cela il giudizio su quegli aspetti del comportamento che attengono propriamente alla sfera psicologica.

 

La valutazione delle cosiddette soft skills può diventare l’anticamera (sempre in un eccesso apocalittico) di un nuovo totalitarismo attraverso la pratica legalizzata di forme di controllo/condizionamento psicologico di massa, travestito da bonario ‘orientamento’ a trovare il proprio posto in questo mondo, in un addomesticamento foriero di danni assai seri.

 

La resistenza degli insegnanti italiani di fronte a tali innovazioni si esplica, secondo l’autore, nel “meccanismo dell’obbedienza simulata. Si finge cioè di applicare la novità ma lo si fa solo formalmente, sulla carta, compilando tutte le scartoffie di prescrizione ministeriale” (p. 176). In realtà il modo ‘antico’ di fare scuola resiste attivamente, soprattutto nei licei, dove la cultura umanistica tradizionale è ancora dominante, non senza che questo produca effetti nocivi, come la pretesa enciclopedica e nozionistica nel senso più deteriore: dati trasmessi senz’anima. Resistenze analoghe si manifestano nei confronti dell’adozione indiscriminata della didattica digitale, in un quadro in verità ancora molto diversificato su scala nazionale, malgrado i sempre fumosi ed utopici auspici del cosiddetto Pnsd (Piano nazionale della scuola digitale, anno 2015), il “Moloch” su cui l’autore formula una critica per alcuni aspetti condivisibile, anche se inutilmente apocalittica quando paventa la scomparsa del libro e il suo effetto collaterale, la caduta di ogni capacità di concentrazione, elaborazione, memorizzazione: insomma, lo studio.

 

I terrori riguardo agli alunni/automi, controllati da forze esterne alla relazione di insegnamento, si intrecciano ancora con la questione del giudizio e dell’autorità degli insegnanti, arrivando a toccare il tema delle bocciature e, inevitabilmente, la figura di Don Milani. Ecco allora che l’autore circoscrive con precisione all’interno del suo contesto storico il portato rivoluzionario, da qualcuno definito addirittura ‘sovversivo’, della Lettera ad una professoressa. In quel contesto, ossia pochi anni dopo la riforma della scuola media unica, quella lettera coglieva il segno nel denunciare una scuola classista, che emarginava i poveri attraverso le bocciature. Come accade però per molte profezie, il testo è stato più interpretato che letto, e diventando uno dei manifesti della cultura sessantottina sembra aver ispirato riforme che sono andate in tutt’altra direzione rispetto alla lotta di classe donmilaniana.

 

Brandendo infatti il feticcio della ‘promozione indiscriminata’ come insegna di una scuola non classista, il nostro Paese ha prodotto la più classista della scuole: da un lato ha infatti indotto un livellamento verso il basso, rinunciando a guidare gli alunni della scuola di massa, spesso marcati negativamente dai contesti socio-economici di provenienza, attraverso i contenuti astratti del sapere; dall’altro evita di differenziare i capaci dagli incapaci, finendo col depositare ciascuno di nuovo nel suo contesto al termine degli studi, senza averlo trasformato, così che i poveri non trovano i mezzi per emanciparsi e le élite continuano invece a riprodursi. La bocciatura va quindi considerata non già il feticcio di una posizione reazionaria, ma uno strumento che senza mortificare o discriminare promuove gli sforzi e indirizza i capaci. L’autore non arriva anche in questo caso a proporre soluzioni concrete, come la bocciatura cosiddetta ‘selettiva’, cioè nelle singole materie, senza la ripetizione dell’intero anno, ma con certificazione finale dei livelli raggiunti. L’antidoto più immediato allo stato delle cose restano, per lui, il rapporto uno-a-uno tra docente e allievo e l’alterità della scuola nella società, la sua neutralità e indipendenza da politicizzazioni indebite.

 

Al termine del percorso, il lettore rischia di assumere una posa donchisciottesca, emotivamente travolto e innamorato di idee grandiose ma dalla veduta corta, senza prospettiva. E quindi il libro resta un libro, oltreché ardimentoso, pericoloso. Per quanto la passionalità negativa di chi lo ha scritto faccia pur sentire, alla fine, che a una rivoluzione si può sempre quanto meno pensare.

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