di Emanuele Coccia
[Emanuele Coccia insegna filosofia all’EHESS di Parigi. Queste pagine sono tratte dal suo ultimo libro, La vita sensibile (Il Mulino, 2011)]
1.
Accade persino a occhi chiusi o quando tutti i sensi sembrano chiudersi al mondo. Se non è il rumore del nostro respiro, è un ricordo o un sogno a strapparci da un isolamento solo apparente, per immergerci, di nuovo, nel mare del sensibile.
Ci consideriamo esseri razionali, pensanti e parlanti eppure per noi vivere significa innanzitutto guardare, gustare, tastare o annusare il mondo. Sappiamo e possiamo vivere solo attraverso il sensibile, ma non solo perché abbiamo bisogno conoscere ciò che ci circonda: la sensibilità è qualcosa di più di una facoltà conoscitiva. Sensibile è, in tutto e per tutto, il nostro stesso corpo. Siamo sensibili nello stesso grado e con la stessa intensità in cui viviamo di sensibile: siamo per noi stessi e per gli altri solo un’apparenza sensibile. La nostra pelle e i nostri occhi hanno un colore, la nostra bocca ha un certo sapore, il nostro corpo non cessa di emettere luci, odori o suoni muovendosi, parlando, mangiando, dormendo.
Viviamo di sensibile, ma la questione non è riducibile nemmeno a una necessità fisiologica. In tutto ciò che siamo e facciamo abbiamo a che fare col sensibile. Il nostro pane quotidiano non è una somma di principi nutritivi uno spettro infinito di sapori, di consistenza che esiste solo in una precisa palette di colori e di temperature. Il nostro passato e il nostro futuro sono – nella loro immediatezza – la luce dell’immaginazione attraverso cui li ricordiamo. E ogni volta che ci rapportiamo a noi stessi non ci scontriamo con un’essenza incorporea e invisibile, ma qualcosa la cui consistenza è innanzitutto sensibile. Passiamo ore, ogni giorno, a dare al nostro corpo e al mondo che ci circonda forme, colori, odori diversi da quelli che essi avrebbe naturalmente. Vogliamo proprio quella stoffa, quel taglio, quel colore e quelle righe. Facciamo di tutto perché nello spazio che abitiamo ci siano certi odori; e tracciamo segni sulla pelle o sul viso o sul corpo –colore attorno agli occhi e colore sulle unghie – quasi fossero marche, ipoteche da cui dipende il nostro futuro.
Non è un’ossessione narcisistica: il mondo è realtà sensibile, e la cura del mondo – di cui siamo porzione – non può che essere cura del sensibile. Il nostro rapporto primario all’esistente non è un atto di contemplazione immateriale, e nemmeno un fatto pratico, morale, etico. Il nostro rapporto al mondo è vita sensibile: sensazioni, odori, immagini, e soprattutto un’ininterrotta attività di produzione di realtà sensibili. Di vita sensibile si materia infatti anche tutto ciò che creiamo e produciamo: non solo le nostre parole, ma l’intero tessuto delle cose in cui si oggettivano la nostra volontà, la nostra intelligenza, i desideri più violenti, le immaginazioni più disparate. Il mondo non è semplice estensione, non è una collezione di oggetti e non definisce nemmeno la semplice e astratta possibilità di esistenza. Essere-nel-mondo significa innanzitutto essere nel sensibile, muoversi in esso, farlo e disfarlo senza interruzioni.
Vita sensibile non è solo ciò che la sensazione risveglia in noi. È il modo in cui ci diamo al mondo, la forma in cui siamo nel mondo (per noi stessi e per gli altri) e assieme il medio in cui il mondo diviene per noi conoscibile, agibile, vivibile. Solo nella vita sensibile si dà mondo, e solo come vita sensibile siamo al mondo.
2. […]
La vita sensibile non si estingue nell’istante in cui si consuma l’atto percettivo. Il sensibile vive prima di noi e continua a vivere dentro e fuori di noi dopo la percezione. Vive quasi come il mormorio di fondo di ogni nostro pensiero, come il fluido vivo di ogni ricordo e l’orizzonte ultimo in cui ogni progetto e tutte le nostre attività prendono corpo, diventano realizzabili se non reali. Tutti i viventi, del resto, non si limitano a ricevere sensibile. Non cessano di produrlo. Un animale si nutre di immagini, suoni, odori, sensazioni e può sopravvivere solo grazie ad esse, ma in tutto ciò che fa restituisce del sensibile al mondo. L’esistenza di ogni vivente superiore si materializza in un sensibile immediatamente incarnato nel proprio corpo (che diviene per così dire il medio di esistenza di questo sensibile – così accade per la pelle degli animali, o per le vesti umane) e in una perpetua emanazione di sensibili, di vita sensibile capace di vivere oltre i confini anatomici del suo corpo. Vivere, per un animale, significa anche e soprattutto dar luogo a immagini autonome, nelle forme più diverse, del tutto indipendenti dal corpo anatomico. Ed è proprio in questo che l’uomo supera tutti gli altri animali: parla, emette odori, disegna, schematizza e fa del mondo sensibile che produce il proprio mondo, la propria cultura. Gran parte delle operazioni che gli antropologi archiviano solitamente sotto la rubrica di “attività spirituali” o “culturali” non solo prendono a oggetto il sensibile, ma non hanno altra consistenza che una precisa forma di esistenza del sensibile. L’arte figurativa, la letteratura, la musica, ma anche gran parte delle cerimonie politiche, la totalità delle liturgie religiose consistono innanzitutto in attività di produzione di forme sensibili. Tutti i nostri costumi, le nostre abitudini si realizzano in un sensibile disincarnato dal nostro corpo anatomico. Viceversa, qualsiasi oggetto della cultura materiale (tecnico, industriale, artigianale) non è che un’incorporazione sensibile, una “sensificazione” di volontà, soggettività, spiritualità. L’uomo, innanzitutto e per lo più, non fa che sensificare lo spirito, sensificare la sua razionalità. Non siamo uomini solo perché siamo capaci di astrazione, di sottrarre razionalità all’empirico, di sublimare l’esperienza. Scrivere, parlare, disegnare, costruire, progettare e persino pensare significano innanzitutto muoversi nel senso inverso: trovare la giusta immagine, il giusto senso che permette di rendere reale ciò che si pensa e si prova e che permetta anche di liberarsene.
3.
È stato Lacan, nella cultura moderna, a riconoscere il ruolo fondativo del sensibile nella costituzione di ogni individuo. L’esperienza del bambino dinanzi allo specchio è secondo Lacan l’evento che innesca la genesi della personalità individuale e assieme il paradigma della funzione svolta dalle immagini nella vita psichica dell’individuo: quella di «stabilire una relazione dell’organismo alla sua realtà, o come si dice dell’Innenwelt all’Umwelt».
Che un’immagine possa essere «capace di effetti formativi» radicali era già un luogo comune nella zoologia: Lacan cita il caso del piccione che solo attraverso «la vista di un congenere, poco importa il suo sesso» riesce a innescare lo sviluppo delle gonadi. A differenza degli altri animali, e in particolare delle scimmie, per le quali l’interesse per l’immagine «si esaurisce una volta appresa l’inanità dell’immagine», nel bambino d’uomo l’esperienza di sé-come-immagine «si prolunga in una serie di gesti in cui egli sperimenta ludicamente i movimenti fatti dall’immagine rispetto al suo ambiente riflesso e i rapporti di questo complesso virtuale con la realtà che essa duplica, con il proprio corpo cioè e con le persone o gli oggetti che gli sono accanto». La relazione con le immagini non si arresta alla semplice constatazione conoscitiva: diventa il rapporto più importante per costituire se stessi e la propria personalità. L’immagine osservata, infatti, «situa l’istanza del sé [moi] prima ancora della sua determinazione sociale in una linea di finzione, che è per sempre irriducibile per il solo individuo, o piuttosto che non raggiungerà che asintoticamente il divenire del soggetto, quale che sia il successo delle sintesi dialettiche attraverso cui deve risolvere in quanto io la sua discordanza con la propria realtà».
È al sensibile quindi, alle immagini, che l’uomo chiede la testimonianza radicale sul proprio essere, e sulla propria natura, ed è nel rapporto con questo sensibile (rapporto che va ben oltre l’atto di riconoscimento formale) che un uomo diventa umano, usa e dà forma alla propria umanità. L’immagine nello specchio fornisce infatti all’individuo «un’immagine ortopedica della sua totalità» del suo corpo, altrimenti parcellizzata nelle diverse esperienze percettive, e attraverso «la forma totale del corpo» «il soggetto affronta in un miraggio la maturazione della sua potenza». Bisogna ripeterlo: non si tratta solo di un atto conoscitivo, perché l’immagine non fornisce solo un’informazione sulla propria natura, ma è ciò che permette di costituirla. «Questa forma è più costituente che costituita», scrive Lacan, e «soprattutto essa appare al bambino in un rilievo di statua che lo fissa e in una simmetria che lo rovescia, in opposizione alle turbolenze di movimenti di cui prova ad animarla». In fondo, si potrebbe dire che abbiamo bisogno di un’immagine per costituire la nostra unità allo stesso modo e secondo la stessa necessità per cui abbiamo bisogno di un pronome (o di un semplice nome) per afferrare noi stessi nella parola. Questo atto di riconoscimento originario è l’inaugurazione della nostra vita sensibile, il battesimo attraverso cui iniziamo a esistere come vita sensibile.
L’identificazione che ha luogo nello stadio dello specchio, secondo Lacan, è possibile perché il bambino umano anche se «è superato nell’intelligenza strumentale dallo scimpanzé, riconosce la sua immagine nello specchio come tale». L’infante dell’uomo è cioè meno intelligente di uno scimpanzé, ma a differenza di questo è capace di identificarsi con la propria immagine. Quello che lo separa dall’animale tassonomicamente più vicino non è un eccesso di ragione, ma la capacità di riconoscersi in un’immagine, di essere per così dire assorbito dal sensibile. Con una boutade si potrebbe dire che lo scimpanzé diventa uomo solo quando inizia a interessarsi più all’immagine che alla realtà che essa rappresenta. Un animale diventa umano quando impara ad amare e riconoscere le immagini, a perdersi in esse. Ed è questa l’esperienza cui dà accesso la scrittura letteraria. Quanto chiamiamo letteratura è solo il mezzo per ripetere l’esperimento che ci ha permesso di diventare umani. «Poco importa che lo si faccia bene o male» ha annotato Flaubert in una sua lettera «scrivere è una cosa meravigliosa: non essere più se stessi, circolare in tutta la creazione di cui si sta parlando. Oggi, per esempio, uomo e donna, tutto insieme, amante e amata, contemporaneamente, ho passeggiato a cavallo in una foresta, in un pomeriggio d’autunno, sotto foglie gialle. Ero il cavallo, le foglie, il vento, le parole che si dicevano e il sole rossastro che faceva socchiudere le loro palpebre annegate d’amore». È umano tutto ciò che ci permette di coincidere con quanto immaginiamo.
4.
Il nostro io vive, sin dalla sua nascita, sotto l’influenza del sensibile. Facciamo esperienza di questa influenza sottile e silenziosa molto più spesso di quanto pensiamo. Ogni notte, proprio quando crediamo di interrompere ogni contatto con il mondo esterno per stringerci in assoluta intimità con noi stessi, i nostri sogni non ci propongono l’ininterrotta contemplazione del nostro volto. Se lo fanno è solo attraverso l’allegoresi di una folla di immagini. Inchiodato a se stesso, abbandonato alla sua sola natura, liberato dalle distrazioni che il mondo offre durante la veglia, in questo quotidiano vicolo cieco esistenziale in cui ogni vivente è costretto a non avere a che fare che con se stesso, l’esperienza di sé diviene del tutto paradossale. Ogni volta che si sogna, la nostra natura cessa di essere definita dal corpo anatomico o dal quel fantasma spirituale che chiamiamo «io». Alla certezza di poterci riconoscere in una somma di organi o in una psiche che ne governa i movimenti, il sogno sembra sostituire un cogito più insicuro, una liturgia di voci e personaggi, di figure e di storie. L’opposizione tra io e mondo che è così evidente nella veglia scompare: chi sogna scopre di avere gli stessi limiti del mondo e tutto il mondo è ora contenuto e ricreato dall’io.
Nel sogno la vita sensibile rivela la sua fisiologia più profonda. Sognare vuol dire, infatti, immaginare; ma nei sogni le immagini, i suoni, gli odori non sono mere intenzioni psichiche, sono la materia, la vita di cui tutto ciò che esiste o appare è fatto. Sognando, noi stessi non abbiamo altro corpo se non quello definito da ciò che immaginiamo. L’immaginazione cessa di definire una relazione con qualcosa di esterno e coincide per un attimo con il fatto, le forme, il ritmo della nostra esistenza. Sognando si esiste solo perché si è capaci di immaginare, e solo nelle forme che l’immaginazione è capace di creare: è ciò che immaginiamo a darci la nostra stessa forma ed è il fatto stesso che immaginiamo ad assicurare la nostra esistenza. Nel sogno, insomma, la vita sensibile diviene talmente intensa che «sembra una certa vita, ma minore e esistente in una natura propria». È quanto aveva già notato Sinesio di Cirene filosofo neoplatonico autore del più bel trattato sui sogni che sia mai stato scritto in Occidente. Ogni volta che sogniamo, spiega Sinesio «vediamo dei colori, intendiamo dei suoni, proviamo delle sensazioni tattili più nette eppure gli organi del nostro corpo non sono attivi». La vita sensibile e immaginativa non è il risultato dell’esercizio dei cinque organi di senso: è qualcosa di anteriore, più profondo, quasi una vita autonoma anche se inferiore a quella della veglia, perché meno autonoma e più effimera. La vita che le immagini ci permettono di vivere ogni volta che sogniamo, spiega Sinesio, è una sorta di «primo corpo dell’anima» perché siamo innanzitutto ciò che siamo capaci di immaginare, e i limiti fisici, anatomici arrivano là dove arriva la nostra vita sensibile.
L’antropologia ha sempre descritto l’uomo e la sua natura a partire dalle forme della veglia. Eppure ogni individuo passa almeno metà della sua vita a sognare. È necessario imparare a descrivere il nostro corpo, il nostro ego, la nostra fisiologia a partire dalla capacità di far sogni. Il sogno è l’esperienza dell’impossibilità di difendersi dalle immagini che ci travolgono: in esso intratteniamo un rapporto di consanguineità con esse. Essere vita sensibile significa essere della stessa materia delle immagini che danno un volto e un corpo ai nostri desideri e alle nostre paure, e avere un corpo definito dalla sola capacità di essere e divenire ciò che riusciamo a immaginare. Il corpo non si limita a contenere, a custodire il sensibile catturato o prodotto dai nostri organi di senso: è la nostra vita sensibile in azione, la nostra vita in quanto realtà sensibile a noi stessi e a tutto il mondo.
5.
La nostra vita sensibile non coincide quasi mai con l’esercizio dei nostri sensi. Vediamo, gustiamo, odoriamo innanzitutto fuori dai cinque sensi. Il sogno è una delle forme di questa sensazione vissuta fuori degli organi di senso, ma non è la sola. Queste forme di vita sensibile extrasensoriale, profonda e incosciente, sono molto più diffuse di quanto possiamo pensare. La moda ne costituisce l’esempio più evidente nello stato di veglia. Tutte le nostre vesti, i trucchi con cui coloriamo il volto e le mani, i profumi con cui circondiamo il nostro corpo sono una forma di sensazione a fior di pelle. I vestiti sono gli atti percettivi di un corpo che non si è ancora diviso in organi di senso, specie intenzionali en plein air, sensazioni di una mente che non vuole più distinguere il fatto di sentire da quello di essere vista. Grazie alla moda abbiamo accesso a una vita sensibile speciale, in cui tutta la nostra esistenza diventa sensazione a cielo aperto, in cui il percetto non esiste più nella camera chiusa e asfittica della coscienza, ma è la realtà stessa incandescente e gravida di sensibile del nostro corpo. È come se l’anima fosse rimasta chiusa fuori di sé e sia costretta a diventare ciò che sente e che vede: la moda è il pensiero selvaggio di noi moderni, percezione senz’organi, spirito incapace di restare soggetto e che non può più servirsi di parole o sillogismi.
Nella moda siamo vita sensibile: vestendoci, truccandoci, odorandoci, il nostro corpo non è più lo strumento di cattura e interiorizzazione del sensibile che esiste fuori di noi. La moda è cinema di puro sensibile, cinema fatto pelle, vita sensoriale capace di esistere a cielo aperto, non più protetta sotto il tetto di un io. Da questo punto di vista la moda è l’esatto opposto del sogno. Se in quest’ultimo ci rinchiudiamo in noi stessi e dimentichiamo il mondo per coincidere con ciò che percepiamo, nella moda ci facciamo cosa, coincidiamo col mondo per ritrovare quella stessa beata coincidenza col sensibile in una vita priva di coscienza. Nella veste viviamo come puro colore e come forma senza dover aggiungere nemmeno un briciolo di coscienza. Moda e sogno, da questo punto di vista, sono i due estremi di cui la veglia rappresenta la tensione perpetua e irrisolvibile. Vestirsi è sognare a corpo aperto, sognare è vivere in uno spazio in cui, per un attimo, siamo solo la moda dell’anima.
[Immagine: Miriam O’Connor, Attention Seekers (2010-11) (gm) – http://miriamoconnor.com/]
un pensare toccante. molto bello.
Davvero splendido
Grazie della segnalazione. Non conoscevo questo libro, lo cercherò. Questi capitoli sono belli.
Splendido. Mi interessa moltissimo la riflessione sulla letteratura, molto acuta.