di Francesco Permunian
[Esce oggi in libreria per Theoria la nuova edizione di Nel paese delle ceneri di Francesco Permunian, pubblicato originariamente da Rizzoli nel 2003. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo tre brani dal libro (it)].
Bene, questa era la mia situazione allora, a trent’anni, quando sbagliare strada significa sbagliare vita. Io non mi ero sposato con una Biscossa Aldegheri, non avevo risorse alle spalle; ciò che possedevo era uscito dal sudore versato per l’onorevole Carnazzoni, da anni di tesseramenti e di festival.
Avevo cominciato appunto al festival provinciale del partito, là vidi il Carnazzoni per la prima volta ed ebbi la fortuna di servirlo al tavolo.
Gli portai un brodino, cenava leggero, mi dissero per problemi di digestione. Aveva un’ulcera e una faccia pallidissima, giallastra, pareva uscito da un sanatorio.
“Caspita, guarda come ci si riduce a fare gli onorevoli!” ricordo che pensai. Proprio allora avevo messo su un negozietto di alimentari. Oh, niente di eccezionale intendiamoci, poco più di uno stanzino, ero agli inizi e gli affari stentavano. Quella sera però restai folgorato da un’idea: “Ecco il treno giusto, Amedeo!” mi dissi osservando l’onorevole.
Certo non potevo trattenermi più di tanto, era attorniato da segretari e postulanti di ogni genere; e poi, lo confesso, quella faccia da limone mi incuteva soggezione. Riuscii comunque a entrare in contatto con il suo autista personale, che gli faceva anche da guardia del corpo, al quale regalai cinque forme di pecorino e dieci salami. E così mi presero in forza quelli di “Tempi moderni”, la corrente del Carnazzoni.
Caro avvocato, allora ero giovane e molto ambizioso. Misi un ragazzo in negozio e via, mi buttai a capofitto nella politica. Passavo giorni e notti a cercare nuove tessere, a rubare iscritti alle altre correnti del partito. Portavo i saluti e le promesse dell’onorevole anche nei casolari più sperduti, dove gli avversari manco si sognavano di mettere piede. Battevo la regione palmo a palmo, dalla Bassa alle montagne, paese per paese. In breve imparai a memoria tutte le strade, le stradine, i sentieri di campagna e di montagna, le locande e le osterie. Conoscevo i parroci, le associazioni, i pensionati e i giovani di leva da riformare, i pompieri da trasferire, i contributi da sollecitare, i mutui da concedere. Non indietreggiavo davanti a nulla, le offese non mi toccavano; avevo il sigillo dell’onorevole che mi proteggeva, le sue credenziali.
Dopo qualche anno, nel cervello mi si era stampata la mappa del potere del Carnazzoni, una registrazione scientifica, catastale, precisa fin nei minimi dettagli. Dal posto di bidello a quello di primario, dallo spazzino al direttore di banca, dai giornalisti ai presidenti di assicurazioni, si trattava di una macchina da voti perfetta, pronta a ogni scontro, attrezzata per qualsiasi scatto.
E infatti scattò alle elezioni amministrative, quella volta l’onorevole riportò un trionfo riuscendo a piazzare tutti i suoi uomini di fiducia, mai la corrente aveva incamerato tanto. Fu l’occasione per tagliare le gambe ai concorrenti interni, molte carriere sgradite vennero stroncate. Altre furono lanciate proprio in quella circostanza, e tra queste la mia.
Si festeggiò fino all’alba in un ristorante sul mare, fu un’enorme “sardellata”, il Carnazzoni andava pazzo per le sardine ai ferri. Ricordo che ad un tratto si levò la giacca, si tirò su le maniche e volle cucinare le sardine assieme a me. Finii fianco a fianco con un’eccellenza di Roma; pensi avvocato, le sardelle ai ferri con un ministro del governo!
E come cantava e beveva felice. Aveva fatto arrivare certe segretarie bionde direttamente dalla capitale, roba fina. Io ero così intimorito che le chiamavo signore e a tutte chiedevo se per caso avevano bisogno di pesce fresco, tanto per dire qualcosa. Ma quelle ridevano, ridevano in continuazione, scollatissime e con certe gonnelline che si vedevano le mutande, nere, rosse, bianche, insomma un carnevale! Si mangiò e si festeggiò fino alle prime luci del giorno. Qualcuno si sentì male; quelli troppo sbronzi furono sistemati fuori, nel parco.
Mai ho dimenticato quella cena, l’albergo affollato di gente ubriaca, drogata, con la pancia talmente piena che alcuni urlavano dal dolore. Lo sa avvocato che, al pensiero, mi vengono ancora i sudori freddi?
All’alba il parco assomigliava a un campo di battaglia dove vagavano inebetiti decine di invitati, i quali tentavano disperatamente di ficcarsi in bocca gli avanzi della sera precedente. Ma poiché erano sfiniti, letteralmente senza più forze, quei disgraziati s’ingozzavano a vicenda con certe facce così stravolte da incutere paura. Chi si reggeva ancora in piedi, premeva il cibo in bocca agli altri, i quali ingurgitavano roteando gli occhi. Una scena da brividi, i camerieri non avevano mai visto una cosa simile. Erano i banchetti in stile Roma del nostro onorevole, aveva voluto ringraziarci e stupirci con la sua potenza.
Mi dimenticavo di raccontarle il finale della festa, fu il culmine del divertimento. Le signorine romane infatti saltarono sopra la tavola e presero a imitare il telegiornale. Ad esempio, mentre una fingeva di leggere una notizia sul menu, l’altra ne recitava la parodia con certe mosse dei fianchi e delle gambe da sollevare boati di applausi. Ma lei non può immaginare la mia meraviglia quando venni a sapere, in via del tutto confidenziale, che quelle signorine – che sembravano delle entraineuse d’alto bordo – erano veramente le annunciatrici che ogni sera leggevano il telegiornale della Rai.
Insomma il Carnazzoni non aveva badato a spese, lui d’altronde non sapeva che farsene dei discorsi sottili. Le meditazioni profonde le lasciava volentieri alle cosiddette “teste pensanti” del partito e quando pronunciava l’espressione teste pensanti, avesse visto che gestaccio, come sghignazzava di gusto.
“Non voglio abatini attorno a me” sentenziava, e intanto si toccava i coglioni.
“Non mi fido di quelli che portano gli occhiali, io ho bisogno di gente svelta, con due polmoni così!” e faceva il verso di abbrancare un melone e misurarlo con le mani.
Fu in quella occasione che mi additò a modello. Durante il discorso che precedeva il banchetto, davanti a una folla strabocchevole di invitati, mi definì pubblicamente un magnifico galoppatore. “Uno scudiero instancabile!” aggiunse. Fu la mia incoronazione.
Avvertii un fremito, non so se fosse piacere o paura. Ricordo che fu sconvolgente, l’inizio di una intossicazione che ha segnato la mia vita.
***
È vero, prima o poi dovrò parlare a Zenobia, ormai la faccenda sta diventando sempre più imbarazzante. Prima o poi devo mettere le cose in chiaro con quella sfrontata di suora, così mi ripromettevo ogni volta che Isetta Pincona mi aggiornava sulla situazione di casa.
«Signorina», le dirò, perché nei momenti di rabbia la chiamavo sempre signorina e mai suora, e tantomeno sorella, «signorina Zenobia», le dirò dunque, «non si azzardi a tirare troppo la corda con il sottoscritto. Anche la pazienza ha un limite, lo tenga bene a mente.
Anche se mi è impossibile venire di persona al paese in quanto ho sempre mille cose da fare, le assicuro che al paese non si muove foglia senza che io ne sia informato. Anche se sono anni che non varco più la soglia di casa, si ricordi che io sono sempre perfettamente al corrente di quanto succede a palazzo Biscossa Aldegheri. E che posso comparire al paese in ogni istante del giorno e della notte, tanto per intenderci.»
E dopo un simile proposito – che purtroppo non ho mai mantenuto – mi sentivo sempre un po’ meglio, al punto che pensavo: sì, prima o poi ritorno al paese, magari di sorpresa, e faccio davvero un repulisti generale.
Vado laggiù, mi dicevo, quando nessuno ormai aspetta più la mia visita, quando mi si ritiene addirittura già morto o disperso, e in men che non si dica libero la casa da quel ginepraio di cianfrusaglie che si sono accumulate nel corso degli anni per colpa delle manie religiose di mia sorella.
Torno al paese, mi ripetevo con convinzione assoluta, e finalmente comincio a sgombrare le stanze, la cucina, la cantina, il solaio (e perfino il pollaio!) da tutte quelle carabattole ecclesiastiche – angeli di cartapesta, statue di gesso, grucce e stampelle per storpi e sciancati, corone di spine e trombette di latta, stelle filanti, trespoli di pappagalli, stole, piviali e protesi dentarie, pomate contro i geloni e pomate per le emorroidi, vasi da chiesa e vasi da notte, occhi di vetro e palline di biliardo che ogni tanto le galline tentavano disperatamente di covare e per finire, una collezione intera di prepuzi del Bambino Gesù, neanche avesse posseduto cento piselli, quel santissimo figliolo! – insomma tutto quel puttanaio di reliquie che le suore hanno sempre raccattato qua e là in giro per l’Italia.
Tutto quell’inferno di paccottiglia cattolica, intendo, acquistata a spese del sottoscritto con la scusa che giovava alla salute psicofisica di mia sorella. E alla salvezza eterna di mio nipote. Una paccottiglia che aveva finito invece per soffocare la stanza del povero Michele sotto una marea di rifiuti, seppellendo definitivamente l’onore dei Biscossa Aldegheri sotto una montagna di ridicolo.
Vado laggiù, concludevo con un brivido di piacere, e con l’aiuto di Isetta Pincona ci faremo su di maniche e in quattro e quattr’otto sbaraccheremo tutto quel letamaio di civetteria pretesca buttando dentro lo stagno croci e leggii, altari portatili e cuoricini trafitti da sette spade, bambinelli di terracotta in stile Settecento napoletano, alligatori imbalsamati sul modello del coccodrillo appeso nel santuario delle Grazie di Mantova, candelieri, turiboli, San Gregorio e l’Assunta del Murillo, la Madonna di Kiko e lo Spirito Santo.
Solamente davanti alla barella di Cristo morto avremo un attimo di esitazione, ricordo di aver pensato.
Quella barella munita di rotelline, per intenderci, che il nipote di Isetta d’estate trascinava come un carretto lungo le strade arroventate del paese, a piedi nudi, vestito di una semplice tarcisiana con galloni rossi. Oppure avvolto d’inverno in una dalmatica in misto lana, completa di stola e con in testa una mitra da vescovo, terrorizzando gli altri bambini a furia di bum – bum! Quella lettiga sottratta, come tutto il resto, alla raccolta di reliquie religiose che proprio allora mia sorella iniziava a collezionare. Quella lettiga cigolante che trasportava una Madonna di cartapesta recante in braccio un Gesù Bambino impagliato con occhi di vetro e testa, mani e piedi in terracotta patinata: ebbene così, esattamente così, Rosa e Guglielmo si presentarono un giorno al cospetto di madre Bettina, che aprì per loro le porte di quel Lauretum nel quale sprofondarono come due sepolti vivi.
E infine, asciugandoci la fronte dal sudore, daremo un calcio definitivo anche a tutti quei trabiccoli arrugginiti che ingombrano ancora i saloni di palazzo Biscossa Aldegheri.
Tutte quelle carrozzine per invalidi, voglio dire, munite di aste con tanto di vessilli e stendardi delle confraternite di misericordia («Ah, le belle bandiere della nostra fede!» squittivano le suore), vecchie attrezzature sgangherate per correre alla volta dei vari santuari sparsi per il mondo, a mo’ di cavalleria leggera schierata per l’ultimo assalto ai cieli.
E qualora lo stagno non risultasse in grado di contenere tutto quel ciarpame che ormai aveva preso il posto della fede raggiungendo, di fatto, le vette del kitsch più sublime, allora io e Isetta – pensavo con orgoglio – innalzeremo al centro del cortile una catasta formata da tutti quegli articoli di bigiotteria postridentina. E quindi, dopo aver sparso un’intera damigiana di benzina sopra quel monumento di un cristianesimo alla deriva, costituito da milioni di ninnoli insulsi, milioni di gesti e di preghiere popolari ridotte ormai a polvere e muffa, alla fine – dopo un rapido segno di croce – faremo un falò così alto e spaventoso che illuminerà l’intero Polesine per almeno sette giorni e sette notti.
***
Finimmo a duecento chilometri da dove ci troviamo ora io e lei avvocato, in un paese di cui mi sfugge il nome, nella zona del prosciutto di Langhirano. Avevano fatto le cose in grande, il teatrino era tutto illuminato per l’occasione, laggiù i soldi girano a palate come nelle fonderie e nelle ferriere da noi. Qua il ferro, là il maiale, non cambia niente, mi creda.
Che rimpianti ritrovare tante facce conosciute: allevatori, mediatori di bestiame, fattori, rappresentanti di concimi, direttori di consorzi agrari, amministratori di cantine sociali, di cooperative agricole. Tutti in smoking naturalmente, con le signore in lungo, tirate a lucido per l’occasione.
Ecco, il passato ritorna vestito da festa e ancora una volta mi accoglie tra le sue braccia, pensai. Ed io assomiglio al figliol prodigo che batte alla porta del suo vecchio e lurido mondo di campagna, conclusi con un nodo alla gola.
La serata iniziava con uno spettacolo, una commedia, e poi proseguiva con canti e balli fino all’alba. Il cenone si svolgeva nel ridotto del teatro, una mangiata di tre, quattro ore. E a mezzanotte era prevista la sfilata delle finaliste del concorso “Culetto d’oro”, sa che cos’è, vero? Si tratta di un premio inventato dall’API, Associazione Prosciutti Italiani, e dai parrucchieri della zona. In pratica è una passerella di belle ragazze incappucciate che mettono in mostra il sedere, al culetto più artistico viene assegnato il premio “Culetto d’oro” dell’anno.
Avesse visto che giovenche, avvocato, che manze sfilarono quella notte! La mia Rosina era disgustata, lei quelle cose manco immaginava esistessero.
Ma il pubblico la pensava diversamente, in particolare le signore. Certe signore della Bassa Emiliana sono davvero incredibili, hanno delle voglie spaventose; dopo i trenta non gliene importa più di niente, si mollano via. Si capisce che noi uomini ci siamo divertiti davanti a tutto quel ben di dio, ma pure le signore erano soddisfatte. Ridevano che era un piacere, se la facevano sotto. Anche se avanti negli anni, mica erano gelose delle ragazze in passerella, anzi.
«Mi riscaldano il vecchio, me lo tengono in forma!» sghignazzavano ringalluzzite e si scambiavano certe battute da fare arrossire un caporale.
Come le dicevo, prima della sfilata assistemmo a uno spettacolo teatrale, però fu un fiasco, a nessuno importava un accidente di quella roba. E poi gli attori e le attrici recitavano di mala voglia, si trattava di gente che aveva avuto un certo successo molti anni addietro. Guitti che arrotondavano la pensione calcando a fatica le tavole dei palcoscenici di provincia, ecco cos’erano.
Dopo la pausa del primo tempo della commedia la sala si presentò quasi vuota, più della metà del pubblico si era eclissata per non ritornare ad ascoltare le boiate di quei tizi in costume. Il capocomico c’era rimasto malissimo, insomma un tipo molto permaloso. Si era appellato ai diritti dell’arte, si figuri.
«Lo spettacolo continua, l’arte trionferà!» venne fuori ad annunciare, finché qualcuno, più sfacciato, gli gridò: «Vai a casa, rimbambito!».
Come per un segnale lungamente atteso, a quel punto tutti (ripeto: tutti) si alzarono e si precipitarono al buffet, per unirsi al resto degli invitati che avevano già iniziato a sbafare.
«All’attacco!» mugulava una coppia di anziani contadini vestiti a festa, mentre qualcun altro protestava a voce alta. «Niente antipasti per favore, non li voglio» urlava. «Non sono tanto fesso da riempirmi lo stomaco di sottaceti, no, niente antipasti, cameriere. Io salto gli antipasti, ha capito? Andiamo al sodo, boia vacca!»
In sala eravamo rimasti solamente io e Rosa, tutti gli spettatori ormai si erano accalcati nel ridotto del teatro. E là schiamazzavano e bevevano accalorati, alcuni si erano levati la giacca e fatti su di maniche; molti s’erano slacciati la cintura dei pantaloni per favorire la digestione.
Verso le undici di sera le toilette erano completamente intasate, irrimediabilmente fuori uso. Tutti andavano e venivano come ossessi dalla tavola ai cessi, dai cessi alla tavola. Ci si arrangiava alla meno peggio, c’era chi la faceva sotto i tavoli, altri si ritiravano negli angoli; qualcuno usciva e poi si perdeva tra i campi, nei fossi. Dell’arte teatrale non importava un accidente a nessuno. Che si spicciassero anzi quei guitti della malora, non si aspettava altro che la passerella delle ragazze del “Culetto d’oro”.
Alcuni infatti mettevano ogni tanto la testa in sala, sbuffando rumorosamente.
«Ohé! La finiamo o no con ‘sta commedia del cavolo?» urlavano agli attori. Alla fine si portarono sotto il palcoscenico bestemmiando contro la soubrette, minacciavano di arrampicarsi sopra.
«Vecchia cocorita spennacchiata, vattene a casa a fare la calza!» le gridavano. «Non vedi che hai sul muso una camionata di cerone? Non ti accorgi che fai schifo? Lascia il posto alle ragazze, via!»
Qualcuno cominciò a sputare, qualcun altro addirittura aveva tirato fuori i fiammiferi, altri gli accendini a mo’ di lanciafiamme; in pratica, erano tutti assatanati e ubriachi fradici.
«Nuda! Nuda!» si misero a un certo momento a ritmare battendo le mani e i piedi, un delirio.
Allora sulla scena si presentò l’impresario della compagnia. Entrò a braccia aperte, come un pacioso curato di campagna.
«Signore e signori», disse con voce melliflua, «so bene quello che volete, so chi aspettate. Sono un maschio latino anch’io, però l’arte ha le sue esigenze e qui si fa arte con la a maiuscola. È intollerabile che in un teatro si insulti un grande artista come il nostro Paolino nazionale, lo spettacolo deve proseguire fino all’ultima battuta. Mi appello alle cose più alte che albergano in voi, signori della Bassa, ai sentimenti più delicati e sopraffini delle gentili consorti. Un artista come il nostro Paolino ha il diritto sacrosanto di venire ascoltato in religioso silenzio, un artista è un fenomeno senza limiti, un dono della natura, un messaggio del Creatore.»
«Un deficiente, un coglione!» urlarono dalla sala e a quel punto la frittata era fatta, il tumulto riprese a tutto gas.
L’impresario fu costretto a indietreggiare, ormai gli sputavano addosso senza ritegno. Qualcuno tentava di spiccare il salto per salire sul palcoscenico, altri si facevano scaletta con le mani. Se lo agguantavano, lo strozzavano lì sul posto, all’istante.
«Vogliamo le ballerine, i culetti d’oro» gridavano «fuori i rompiscatole!»
La soubrette e l’impresario si ritirarono allora dietro il tendone, scomparvero. Soltanto il Paolino nazionale non indietreggiò, anzi avanzò ancora di più sulla scena, muso a muso con i fischiatori.
Ebbe del fegato avvocato, glielo garantisco, quella era gente completamente imbestialita, non ne potevano più di starlo a sentire. I più agitati erano gli spettatori della prima fila, i quali avevano piazzato per terra una selva di treppiedi e ci avevano collocato sopra dei cannocchiali enormi. Cannocchiali da marina militare s’intende, per godersi meglio le forme delle ragazze; millimetro per millimetro, niente doveva restare inesplorato. Non è poi che fossero tanto giovani quegli assatanati delle prime poltrone, macché! Saranno stati più o meno della stessa età del Paolino, oltre i sessanta di sicuro. Ma non manifestavano nessunissima intenzione di rispettarlo per via dell’età; anzi, non facevano che stramaledirlo.
Era gente di provincia, avvocato, mica si era alla Scala. Quelli ormai da un pezzo lucidavano le lenti ai cannocchiali, se li tenevano più cari delle loro pupille. Un branco di vecchioni infoiati, ecco cos’erano.
Avevano occupato militarmente i primi posti e non mollavano di una spanna, li avevano prenotati per tempo, di sicuro dall’anno precedente. Nell’attesa, non smettevano un istante di scambiarsi opinioni tecniche sulle prestazioni dei loro cannocchiali, parevano bocche di cannone puntate.
E infine, sotto quel diluvio, anche il Paolino cominciò ad annaspare, le battute non gli venivano più tanto pronte. Insomma, non era più in grado di rispondere a tono a quegli scalmanati che lo stuzzicavano dalla platea, dove stavano letteralmente per sradicare le sedie.
Allora, come estremo tentativo per rimediare la situazione, che cosa non tirò fuori quel disgraziato, che fregnaccia ti andò a pescare?
«Una poesia!» annunciò. «Alle cinque della sera, Garcìa Lorca, non lo meritate, ma farò rivivere davanti a voi quel poeta di morte e di toreri. Sarò io il vostro torero, olé!»
Non lo lasciarono neppure finire. I più indiavolati infatti erano riusciti a scalare il palcoscenico e gli furono addosso come belve, dei cani rabbiosi. Il pubblico fischiava, urlava, applaudiva in una sarabanda infernale, mentre perfino sotto gli sputi e i calci quello scemo del Paolino trovava ancora il fiato per miagolare: A las cinco de la tarde e baggianate simili. Poveretto, lo spavento gli aveva mandato in acqua il cervello, straparlava. Eppure non voleva subire l’umiliazione di ritirarsi, non intendeva fare dietrofront con le sue gambe.
Perciò glielo imposero loro, quegli energumeni. Lo agguantarono bene per le mani e i piedi e gridando in coro «Oh issa!», lo scaraventarono dietro le quinte come un sacco di patate.
Una cosa incredibile, avvocato, uno spettacolo garantito. Rosa era spaventatissima, piangeva per il suo Paolino, smaniava per andare a soccorrerlo.
Fortuna volle che, sulle ali di quel tumulto, finalmente arrivasse dal fondo della scena una musichetta hawaiana, la quale calmò tutti all’istante: era la sigla di apertura della sfilata.
Bastarono le prime note e il teatro parve crollare dagli applausi, si sentivano lontano un miglio. Il pubblico scattò in piedi, più di qualcuno aveva le lacrime, vere lacrime di gioia.
«Adesso basta, fuori le cavalle!» gridavano. «Avanti le puledre!»
Per prima uscì una specie di direttrice di balletto, una mezza racchia sulla sessantina, truccatissima e molto scollata. Faceva senso, in compenso fu breve e chiara. Disse semplicemente: «Gentili signori, se qui non ritorna il silenzio, le signorine non escono. Si rifiutano, le avete spaventate con le vostre urla. Sono ragazze molto sensibili, dall’animo delicato, in un certo senso delle artiste».
«Brava, loro sì sono artiste!» gridò qualcuno, e la sala scoppiò in un grande applauso liberatorio.
«Basta, ora fate silenzio!» intimò al pubblico un signore della prima fila, un tipo molto grasso con la fascia tricolore a giracollo. Assomigliava a un maiale.
«Sono il vostro sindaco», spiegò, «vi chiedo di rispettare il silenzio per un concorso tanto importante. Come sapete, il premio è abbinato al culatello, rovinare la sfilata significherebbe squalificare il nostro amato culatello».
E dopo quella predica, finalmente lo spettacolo ebbe inizio.
Sul palcoscenico sfilarono in tutto una quarantina di ragazze avvolte in camicioni neri, sembravano proprio delle suore incappucciate. Prima esibivano il davanti, dove avevano soltanto due fessure per gli occhi. Quindi si giravano e piegandosi lentamente – con quanta lentezza e maestria, dio mio! – scoprivano ed esponevano dei sederi bianchissimi, i quali fuoriuscivano dai camicioni attraverso un apposito spacco.
La sala era piombata nel silenzio più assoluto. Un silenzio interrotto soltanto da sospiri che parevano rantoli, esclamazioni, grida trattenute a malapena.
[Immagine: Gianni Berengo Gardini, Oriolo Romano, Lazio, 1965 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia (mge)].