[Pubblichiamo alcuni testi da Arthur Rimbaud, Opere, a cura di Olivier Bivort, traduzione di Ornella Tajani, Marsilio 2019, seguiti dalla nota della traduttrice].
Il dormiente della Valle
È un verde crepaccio in cui canta un fiume
Che appende folle all’erba dei lembi
D’argento; in cui il sole, sopra il fiero monte,
Splende: è una piccola valle schiumosa di raggi.
Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda,
La nuca immersa nel fresco del crescione blu,
Dorme; è steso nell’erba, sotto la nube,
Pallido nel verde letto su cui piove la luce.
I piedi nei gladioli, dorme. Sorride come
Lo farebbe un bimbo che sta male, si riposa:
Natura, cullalo, tienilo al caldo: ha freddo.
I profumi non gli pizzicano il naso;
Dorme nel sole, la mano sopra il petto
Calmo. Ha due buchi rossi nel costato.
Ottobre 1870
****
Estratto dalla novella satirica e anticlericale Un cuore sotto una tonaca
[…]
15 maggio. – Dalla mia ultima confessione i fatti si sono susseguiti rapidamente, e sono fatti molto solenni, fatti che influiranno sulla mia vita futura e interiore in un modo certamente tremendissimo!
Thimothina Labinette, ti adoro!
Thimothina Labinette, ti adoro! ti adoro!
Lasciami cantare col liuto, come il divino Salmista col Salterio, di come ti ho vista, e di come il mio cuore è balzato sul tuo per un amore eterno!
Giovedì era giorno d’uscita: noi usciamo per due ore; sono uscito: mia madre, nell’ultima lettera, mi aveva detto: «… figlio mio, andrai a passare, senza impegno, un po’ di tempo libero dal sig. Césarin Labinette, che il tuo defunto padre frequentava e al quale bisogna che tu sia presentato un giorno o l’altro, prima dell’ordinazione; …»
… Mi presentai al sig. Labinette, che mi fece cosa molto gradita relegandomi in cucina, senza dire una parola: sua figlia, Thimothina, restò sola con me, afferrò un panno, asciugò una grossa ciotola panciuta premendosela contro il cuore e d’improvviso mi disse, dopo un lungo silenzio: Allora, sig. Léonard?…
Fin lì, confuso dal trovarmi da solo in cucina con quella giovane creatura, avevo abbassato gli occhi e invocato in cuor mio il sacro nome di Maria: sollevai il capo arrossendo e, davanti allo splendore della mia interlocutrice, non riuscii a far altro che balbettare un debole: Signorina?…
Thimothina! Quant’eri bella! Se fossi un pittore, riprodurrei sulla tela i tuoi sacri lineamenti col titolo: La Vergine della ciotola! Ma sono soltanto un poeta, e la mia lingua può celebrarti solo in maniera incompleta…
Il fornello nero, coi buchi in cui le braci ardevano come occhi rossi, emanava, attraverso i sottili fili di fumo delle pentole, un celestiale odore di minestra di cavoli e fagioli; e lì davanti, aspirando col tuo bel nasino l’odore delle verdure, guardando il gattone coi tuoi begli occhi grigi, tu, Vergine della ciotola, asciugavi un recipiente! I ciuffi piatti e chiari dei capelli ti stavano pudicamente appiccicati sulla fronte gialla come il sole; un solco bluastro ti correva dagli occhi fino a metà guancia, come a Santa Teresa! Il naso, pieno dell’odore dei fagioli, sollevava le narici delicate; la peluria leggera che ti serpeggiava sulle labbra contribuiva non poco a conferire una bella energia al tuo volto; e sul mento rifulgeva una bella macchia scura dove ti tremolavano dei bei peletti: i capelli erano sapientemente fermati da forcine sull’occipite; ma una ciocchetta ribelle… Cercai invano i tuoi seni; non li hai: tu disprezzi questi orpelli mondani: il tuo cuore è i tuoi seni!…: quando ti voltasti per scacciare il gatto rossiccio col piedone, vidi risaltare le scapole, e sollevarti il vestito, e fui trafitto d’amore dinanzi al grazioso contorcersi degli archi pronunciati delle tue reni!…
[…]
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[Da Illuminations – Painted plates]
Alba
Ho abbracciato l’alba d’estate.
Non si muoveva ancora nulla sulla fronte dei palazzi. L’acqua era morta. I campi d’ombre non lasciavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e tiepidi, e le pietre preziose guardarono, e le ali si alzarono senza rumore.
La prima impresa fu, sul sentiero già pieno di freschi e pallidi bagliori, un fiore che mi disse il suo nome.
Risi al wasserfall biondo che si arruffò tra gli abeti: dalla cima argentata riconobbi la dea.
Allora alzai i veli uno ad uno. Nel viale, agitando le braccia. Nella pianura, dove l’ho denunciata al gallo. Nella grande città fuggiva tra le cupole e i campanili, e correndo come un mendicante sulle banchine di marmo le davo la caccia.
In cima alla strada, vicino a un bosco di allori, l’ho avvolta nel suo cumulo di veli, e ho sentito un attimo il suo immenso corpo. L’alba e il ragazzo caddero giù nel bosco.
Al risveglio era mezzogiorno.
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Nota di traduzione
di Ornella Tajani
«Le rimbaldisme est universel. Il traverse le mur des langues»[1], scriveva Jean Cocteau nella sua prefazione a Vie d’Arthur Rimbaud di Henri Matarasso e Pierre Petitfils (1962).
Una simile affermazione, trovata durante quella fase di letture preparatorie alla traduzione che per Antoine Berman va sotto il nome di «étayage de l’acte traductif»[2], non poteva che costituire, in questo lavoro, una sorta di fascio luminoso sul percorso da compiere.
Ma che cos’è il rimbaldisme? Cosa c’è al di là della lingua usata dall’autore; cosa, più di tutto, avrei dovuto cercare di tradurre?
Nel corso della sua opera, e in particolare in Poétique du traduire (1999), Henri Meschonnic ha spiegato che in letteratura (e non solo) si traduce il testo, non la lingua; e ciò che fa il testo è il ritmo, ossia «il significante maggiore del testo», «il movimento della parola nel linguaggio». I termini, ovviamente saussuriani, sono impiegati dall’autore per sottolineare l’inscindibilità della forma dal senso, del significante dal significato; per lo studioso tale scissione equivarrebbe a salire «sulla barca di Caronte»[3], traghettando un testo che non è altro che cadavere. Del resto, nell’excursus storico sull’accezione di “ritmo” contenuto in Problèmes de linguistique générale, che costituisce la base della riflessione di Meschonnic, Émile Benveniste riconduce l’etimologia del termine ῥυθμός proprio alla forma, intesa nel senso di «forme distinctive; figure proportionnée; disposition»[4]: potremmo dire dunque forma soggettiva, che un soggetto dà a un tutto.
Per Meschonnic, «c’est le rythme qui est le pourquoi. Le pourquoi et le comment»[5]. Il ritmo, nella sua accezione, non è semplicemente una generica musicalità, ma è appunto il movimento complessivo che l’autore dà al testo, impresso attraverso scelte non solo accentuali e prosodiche, ma anche lessicali e sintattiche.
Per quanto riguarda la globalità di questa operazione traduttiva, dunque, posso dire che la mia dominante, per riprendere la terminologia di Peeter Torop, è stata il ritmo, poiché sono convinta, con Meschonnic, che, se c’è un perno intorno al quale ruota l’intera scrittura (autoriale o derivata, come l’écriture-de-traduction), questo sta nel ritmo.
Riconoscere il ritmo, provare a renderlo in italiano – provare, giacché come sempre, in traduzione, non si può parlare d’altro che di tentativi, di ripetute prove d’avvicinamento e di decentramento: la traduzione è un esercizio di prossemica, una ricerca della distanza, al contempo impossibile e reale, che separa il testo dato da quello in fieri.
In un sonetto così straziantemente rimbaldiano come La mia Bohème, ad esempio – in cui Rimbaud s’ingegna nel disordinare la regolarità dell’alessandrino -, il ritmo della marcia, del camminare, è il primo elemento a trasmettere l’amore per l’erranza, il ricordo del vagare, il desiderio di andare: la forma significa ancor prima del contenuto. Ho dunque provato a conservare al meglio gli accenti ritmici, senza modificare la punteggiatura[6], avendo cura di rispettare gli enjambements che legano un verso all’altro, concatenando le immagini e restituendo una sorta di passo molleggiato, come di qualcuno che affondi con i piedi nell’erba.
In Venere Anadiomene, sonetto parodico dell’apparizione della dea, esempio di una certa “estetica del brutto”, come ricorda Ivos Margoni via Mario Praz, il ritmo è dato anche dall’ordine in cui appaiono le diverse parti del corpo della donna: la visione restituita al lettore segue il movimento della Venere che esce da una vasca da bagno somigliante «a un verde feretro di latta»; l’enumerazione anatomica accompagna la visione e struttura il componimento.
Provare a seguire il ritmo mi ha permesso di liberarmi piuttosto serenamente da quello che, nella traduzione di poesia, sembra essere il peccato originale, ossia il mancato rispetto delle contraintes metriche e rimiche. Come ho mostrato già altrove[7], anche in riferimento al componimento appena citato, l’immane sforzo di restituire impianti metrici impeccabili porta quasi sempre a rinunce eccessive in termini ritmici o di immagine. Ho dunque adottato un verso di misura variabile, curando le sonorità, ricreando o creando dove ho potuto rime, assonanze e consonanze che accompagnassero e sostenessero il ritmo del componimento dell’autore, senza mai trascurare né sacrificare l’elemento visivo della poesia di Rimbaud, così potentemente peculiare della sua poetica.
Insieme al ritmo, ho prestato la massima attenzione alla restituzione di ciò che, seguendo il suggerimento di Olivier Bivort, chiamerò il «tono» rimbaldiano. Tale attenzione si è manifestata a livello sia lessicale, sia sintattico. Diversamente da precedenti traduzioni, infatti, ho cercato di non «poetizzare» la lingua di Rimbaud. Vari studiosi di traduttologia hanno messo in guardia da tale tendenza: Berman la chiama «ennoblissement» e la classifica come tendance déformante, ossia uno di quei procedimenti da scongiurare in traduzione, allorché si vuol proporre una traduction éthique[8]. Facendo un passo indietro nel tempo, Meschonnic, nelle sue Propositions pour une poétique de la traduction, scrive che «le rapport poétique entre texte et traduction implique un travail idéologique concret contre la domination esthétisante […]. La poétisation [est un] choix d’éléments décoratifs selon l’écriture collective d’une société donné à un moment donné»[9]: per lo studioso, questo procedimento impedisce alla traduzione di farsi testo, condannandola a un invecchiamento precoce[10].
Non ho dunque infarcito di preziosismi un lessico in molti casi comune e tuttora corrente, né complicato sintassi usuali. A tal fine in Sensazione, ad esempio, il verso 5, «Je ne parlerai pas, je ne penserai rien», è diventato persino più breve in italiano: «Non parlerò, non penserò nulla». Sebbene io abbia concentrato molti dei miei sforzi nel tentativo di rispettare la medesima proporzione dei versi del testo francese, in questo caso non ho voluto procedere a un allungamento, perché ciò mi avrebbe portata a cancellare la limpidezza della formulazione («Io non dirò parole/a» è invece la scelta, per citare due esempi, di Margoni e di Bona); né ho voluto aggiungere la preposizione «a», dal momento che, in francese come in italiano, si può «penser à rien», ma non è questa la soluzione scelta dall’autore.
Al tempo stesso, ho avuto cura di attingere a linguaggi specialistici e di usare tecnicismi, laddove l’autore ha scelto di giocare sulla variazione diafasica (si pensi al linguaggio della botanica, di cui R. fa largo uso, tanto da sottolinearlo anche in Al poeta, a proposito di fiori: «Bianco Cacciatore, che corri scalzo/Attraverso la Prateria panica,/Non potresti, o forse dovresti/Sapere un pochino di botanica?»). Ho fatto dunque ampio ricorso anche a termini apparentemente “poco poetici” o poco musicali (vilucchi, radicchielle…), poiché, come ricorda Bivort, probabilmente per Rimbaud non c’era nulla che fosse davvero anti-poétique[11]; in questo, del resto, sta una buona parte della sua straordinaria modernità.
Sulla stessa linea va interpretata la tendenza di Rimbaud a trascurare i dettami stilistici del tempo, che portavano ad esempio a evitare una accumulazione di preposizioni: nello studio già citato, Bivort sottolinea che l’abbondante uso di sintagmi preposizionali introdotti dalla preposizione à, via via etichettato dalla critica come «étrange», «inhabituel» o persino «agrammatical», costituisce in Rimbaud un vero «tour linguistique»[12], attraverso il quale l’autore sembra intendere un coinvolgimento netto del soggetto nell’azione.
Ho cercato, ove ho potuto, di conservare questa abitudine (spesso neutralizzata nelle precedenti traduzioni), che può provocare slittamenti di senso: così in Gli sgomenti i bambini stanno fermi «al soffio del rosso spiraglio»; in Commedia della sete si muore «ai barbari fiumi»; nella Stagione (Il lupo gridava nel fogliame…) l’io poetico esclama: «ch’io ribolla/agli altari di Salomone»; nella Infanzia (IV) delle Illuminazioni il molo «va all’alto mare»; in Alba si ride «al wasserfall»; in Barbaro i bracieri «piovono alle raffiche di vento»; ecc.
Una simile operazione si colloca nuovamente su una delle piste individuate da Meschonnic nel corso della sua opera: tradurre, cioè, non il francese prodotto da Rimbaud, ma ciò che Rimbaud ha fatto al francese[13]. Lo stesso vale, ad esempio, per il pastiche che Rimbaud fa di François Villon, che va sotto il titolo Charles d’Orléans a Luigi XI: qui, dal momento che la traduzione si rivela essere un esercizio di «trasformazione imitativa»[14], ho focalizzato la mia attenzione sulla restituzione dell’effetto (come suggerisce anche Ladmiral[15]), operando dunque nel testo italiano delle «iniezioni» di lingua italiana del Quattrocento, senza però stravolgerne la sintassi, non essendo essa stravolta neanche nel testo francese. Ho inoltre ritagliato dalla traduzione italiana di Attilio Carminati e Emma Stojkovic Mazzariol per il «Meridiano» Mondadori di Villon alcuni dei versi ripresi in maniera diretta nel testo francese.
Rimbaud plasma una sua lingua, e attraverso di essa crea un testo fatto di scarti dalla norma, imperfezioni, eccentricità, che ho cercato di conservare: ad esempio, rendendo transitivi verbi usati perlopiù intransitivamente, in francese come in italiano (blêmir, impallidire; clapoter, sciabordare); conservando le «Ô !» enfatiche immediatamente seguite dal punto esclamativo, così bizzarre e al tempo stesso caratteristiche dell’autore, tanto da ricordare il più famoso « Ô l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux !», che chiude il sonetto Voyelles.
Rimbaud ama inoltre pluralizzare i nomi astratti, ad esempio (ma non solo) con i colori: così in L’accovacciato il sole «attacca/gialli di pasta sui vetri di carta»; in Vocali la «I» è associata a «porpore, sputo di sangue, riso di labbra belle»; in Le mani di Jeanne-Marie, compaiono «mani piene di bianchi e di carmini»; etc..
Laddove l’esegesi del testo si faceva più enigmatica, il dialogo con Olivier Bivort ha spesso guidato la mia traduzione: così, nel verso finale di Le battute di Nina, il «bureau» diventa un «impiegato», seguendo un’antica accezione del termine, attraverso la quale la lettura del componimento risulta storicamente più coerente; la «soupe» in Il cuore del pagliaccio è da intendersi come «cicca» o «bolo» (il pezzo di tabacco che si mastica), e non come zuppa, di nuovo secondo un’accezione ottocentesca.
Nessun punto in cui l’ambiguità si rivelava impossibile da sciogliere è però stato esplicitato. In Parata (Illuminazioni), ad esempio, l’espressione «prendre du dos» non è attestata nella lessicografia francese: nonostante l’interpretazione sessuale sia piuttosto plausibile, ho conservato parte della sua incomprensibilità traducendo alla lettera «prendere di schiena», offrendo in ogni caso un appiglio alla lettura sessuale. Nel componimento dal titolo Movimento le «trombes» di cui si parla sono i fenomeni atmosferici, giacché in francese non v’è polisemia come in italiano, dove il termine «tromba» si riferisce anche allo strumento musicale. Per evitare tale ambiguità altri traduttori hanno specificato «d’aria» o «d’acqua»: in francese, però, tale specificazione è assente. Ho scelto così di conservare l’ambiguità, persino rallegrandomi di arricchire la lettura di un potenziale livello “acustico”, in una poesia in cui il movimento, il frastuono, la velocità e la luce sono protagonisti.
Infine, un’attenzione particolare è stata rivolta anche al plurilinguismo (e ricordo come Berman metta in guardia dall’«effacement de la superposition des langues»). A partire dal titolo e dal sottotitolo inglesi, Illuminations (painted plates), ho quindi conservato i prestiti da lingue straniere, molto amati da Rimbaud, e provato a rendere i neologismi modulati sulla morfologia di altre lingue: ancora dall’inglese unquestionable, per esempio, l’autore crea inquestionable, da me reso come inquestionabile. Ci sono state però dovute e ragionate eccezioni: in Notturno volgare R. usa operadiques, modulato sull’inglese operatic[16], perché in francese non esiste l’aggettivo derivato da opéra. Optare per un neologismo concepito ad hoc in traduzione, laddove in italiano esiste «operistico», sarebbe apparso insensato.
Molto altro resterebbe da dire: decine di osservazioni (e pagine e pagine di note) su ogni singolo componimento, come la scelta, in Augurio del mattino, di tradurre «soir fêté» con «serata», un suggerimento lanciato da Franco Fortini nelle sue Lezioni sulla traduzione. Problemi, rinunce e impossibilità di cui non riesco a dar conto in poche pagine (un esempio umoristico: la polisemia del termine «siège» in Versi per i cessi). E infiniti enigmi ancora da risolvere: di che colore sarà la «U» italiana, che corrisponde a un fonema diverso dalla «U» francese, come notava Étiemble? Cosa intendeva precisamente Rimbaud quando parlava di «gravier» in Le rimembranze del vecchio idiota? Di quanti termini avremmo bisogno per restituire in italiano la complessità dell’aggettivo «embaumé»?
Ciò che c’è forse di più affascinante nella traduzione è che essa aiuta a interrogare, ancora e ancora, il testo di partenza: se da questa operazione continuano a sorgere domande, vuol dire che il testo di partenza è vivo e che la traduzione sta svolgendo un processo produttivo.
Come accennato in apertura, il mio tentativo è stato quello di offrire una traduzione che riuscisse a farsi testo: un testo derivato, naturalmente, «not self-originating»[17], per riprendere Lawrence Venuti, ma compiuto; di offrire, a lettori e lettrici italiane, una écriture-de-traduction rimbaldiana. Sperando vivamente che Cocteau avesse ragione.
Note
[1] H. Matarasso, P. Petitfils, Vie d’Arthur Rimbaud, avec préface de Jean Cocteau, Paris, Hachette, 1962, p. 7.
[2] A. Berman, Pour une critique des traductions : John Donne, Paris, Gallimard, 1995, p. 68.
[3] H. Meschonnic, « Le rythme, prophétie du langage », Palimpsestes [En ligne], 15 | 2004, mis en ligne le 30 septembre 2013, consulté le 24 juin 2019. URL : http://journals.openedition.org/palimpsestes/1567 ; DOI : 10.4000/palimpsestes.1567
[4] É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, 1, Paris, Gallimard, 1966, p. 332.
[5] H. Meschonnic, « Le rythme, prophétie du langage », op. cit..
[6] È una regola che ho seguito pressoché in tutta l’opera, fatta eccezione naturalmente per i casi in cui la punteggiatura è determinata da norme interne alla lingua, come ad esempio la virgola francese dopo i complementi circostanziali.
[7] O. Tajani, Rythme et rime dans la poésie en vers d’Arthur Rimbaud : deux cas d’étude, in Traduire en poète (études réunies par G. Henrot Sostero et S. Pollicino), Artois Presses Université, Arras, 2017, pp. 215-228.
[8] Rimando a A. Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Paris, Seuil, 1999.
[9] H. Meschonnic, Pour la poétique II, Paris, Gallimard, 1973, p. 315.
[10] La traduzione che invecchia è per Meschonnic la cattiva traduzione, la traduzione che non si fa «écriture-de-traduction», come ricorda Mattioli in La poetica del tradurre di Henri Meschonnic, «Rivista internazionale di tecnica della traduzione», n.7, Trieste – EUT Edizioni Università di Trieste, 2003, p. 35. Sul pregiudizio ideologico per il quale la sola traduzione invecchierebbe, al contrario del testo originale, consacrando così la superiorità dell’originale, rimando a E. Monti, P. Schnyder (a cura di), Autour de la retraduction : Perspectives littéraires européennes, Paris, Orizons, «Universités», 2011.
[11] O. Bivort, Un point de sémantique fonctionnelle : usage et expressivité des prepositions complexes, in AA.VV., Rimbaud. Strategie verbali e forme della visione, Pisa-Genève, ETS-Slatkine, 1993, p. 31.
[12] Ibid., p. 29.
[13] L’esempio di Meschonnic è riferito alla traduzione della Bibbia. Si veda H. Meschonnic, « Le rythme, prophétie du langage », op. cit..
[14] Sulla traduzione del pastiche, anche rimbaldiano, rimando al mio studio Tradurre il pastiche, Mucchi, 2018.
[15] Si veda la voce «Traduction» in J. Demougin (a cura di), Dictionnaire des Littératures française et étrangères, Larousse, Paris, 1992, p. 1629. La traduzione italiana si trova in J.-R. Ladmiral, Della traduzione: dall’estetica all’epistemologia (a cura di A. Lavieri), Mucchi, Modena, 2009, p. 32.
[16] Già usato, accentato, da Edmond de Goncourt.
[17] L. Venuti, The Scandals of Translation, London and New York, Routledge, 1998, p. 43: «an authorship now redefined as derivative, not self-originating».