di Giuseppe Andrea Liberti
[Giuseppe Andrea Liberti ha curato per Quodilibet l’edizione critica e commentata di Cumae di Michele Sovente. L’intenzione è provare a rimettere in circolazione un testo (Premio Viareggio-Rèpaci 1998) troppo presto svanito dagli scaffali della poesia, e ormai fuori stampa da anni, corredandolo di un commento integrale a disposizione di quanti vogliano conoscere o approfondire la poesia dell’autore dei Campi Flegrei, attraverso il suo forse libro più esemplare, sia per i temi presenti che per il caratteristico trilinguismo (italiano, latino e dialetto). Ringraziamo il curatore e la casa editrice per gli estratti dall’Introduzione che qui proponiamo (cg)].
Doveva essere l’VIII secolo a.C. quando alcuni coloni Eubei stabilitisi sulla cosiddetta ‘isola delle scimmie’, Pithecussai (oggi la chiamiamo Ischia), decisero di spostarsi sulla terraferma, insediandosi in una zona che appena un secolo prima aveva visto il sorgere e declinare di una cultura indigena della quale rimanevano solo fosse. Kyme nacque su delle tombe; e tombe compariranno ancora e ancora, lungo le coste della storia flegrea. Portarono, quei Greci, un commercio, una cultura del lavoro, addirittura un alfabeto: non ci volle molto perché questa piccola potenza magno-greca attirasse gli appetiti e le mire delle popolazioni limitrofe. Primi furono gli Etruschi, che dopo una serie di sconfitte dovettero rinunciare ai loro intenti nel 474 a.C.; vennero poi gli Osci ad aver ragione sì dei Cumani ma non di Cuma, che rimase un presidio di cultura ellenica, tanto che, quando l’imperialismo romano raggiunse la Campania, non mancò di concederle numerosi privilegi. Eppure fu la fine della grandezza, passata nei decenni a quell’ex-colonia di profughi di Samo chiamata Puteoli, e che fu Dicearchia. Ebbe il tempo, è vero, di un estremo periodo di centralità strategica, dovuto alla sapiente azione di Marco Vipsanio Agrippa che fece dell’area flegrea una roccaforte di Augusto; ma non ci volle molto perché Cuma venisse declassata a rifugium, luogo di svago, poco più che un giardino dell’Impero. Rimase indenne, invece, il mito locale, al quale l’importanza di Cuma fu ed è tutt’ora legata: da un oscuro antro nei dintorni, infatti, e invasata dal dio Apollo, una Sibilla proferiva i suoi vaticinî, consegnandoli alle foglie e a una lingua tutta da decifrare.
A 12 chilometri dalla città, sorge un piccolo borgo a metà tra Monte di Procida e Bacoli. Una realtà solcata da poche vie, ma essenziale sin dal VI secolo a.C., quando la sua arteria principale (l’odierna via Mercato di Sabato) fungeva da collegamento tra Miseno e la potente Cuma. Cappella è il suo nome, legato al monastero di Santa Maria a Cappella che fu beneficiario della donazione di queste terre da parte del barone di Aversa. Qui, in questa zona popolare e nobile, periferica e centralissima, sorgeva un tempo la necropoli della città militare, di cui sono giunte fino a noi epigrafi, colombari e soprattutto ulteriori tombe, scoperte in quella che fu la piazza centrale del paese.
Proprio a ridosso di questi sepolcri si trova casa Sovente, e all’ultimo piano del palazzetto di famiglia Michele componeva le sue poesie, costruiva le sue raccolte, osservava lo spazio flegreo. Uno spazio nel quale si sovrappongono da secoli grida di mercanti e voci sovrannaturali, il mistero del futuro e la memoria del passato, la storia e la magia, il mito e la morte; e tutto questo arriva alla nostra contemporaneità nelle forme irregolari della natura marittima che circonda Miseno, Miliscola e Pozzuoli, così come in quelle concretissime delle rovine, dei resti degli antichi fasti, quando l’influente Cuma consegnava a Roma i libri sibillini che sarebbero stati consultati fino al IV secolo. Occorreva però un poeta che fosse abbastanza sensibile al portato storico e antropologico di queste terre, ma al contempo abbastanza cosciente da non cadere in ridicoli peana campanilistici o, peggio, nelle facili trappole di un ‘ritorno della Sibilla’, perché questi elementi si amalgamassero in un’operazione culturale sensata.
[…]
1.1. Napoli, 1978. Michele Sovente colloca in epigrafe alla sua prima raccolta di poesie una citazione da La società dello spettacolo di Guy Debord:
La vita delle società, in cui regnano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è trasferito in una rappresentazione.
Nell’accezione situazionista del termine, lo ‘spettacolo’ non va confuso col semplice prodotto dei mass media, ma si identifica con la società del capitalismo avanzato, giunto a un grado di sviluppo tale da aver sussunto tutti i gangli della vita umana. Arrivando a mettere a profitto persino il tempo libero, lo spettacolo estende l’alienazione a suo tempo individuata da Marx nel mondo del lavoro all’intera esistenza dell’uomo, spettatore inerme e passivo di quello che gli accade intorno. Questa condizione inedita presuppone, ovviamente, un’idea del tutto nuova del rapporto tra tempo e storia. L’uomo spettacolare è costretto a vivere un eterno presente in uno spazio-tempo di fatto annullato: «al tempo ciclico arcaico e al tempo storico della borghesia, visto essenzialmente come tempo-merce, è subentrato nella contemporaneità il tempo pseudociclico del consumo, un tempo spettacolare, “senza festa”» (Zinato 2009: 164). Ciò nonostante, per il Debord degli anni Cinquanta-Sessanta non tutto è perduto, perché continua a darsi la possibilità e necessità storica della rivoluzione. La critica politica della società dello spettacolo si dà sperimentando forme comunitarie nuove e direttamente antagonistiche. I soviet, i comitati, le assemblee, e poi i détournement, i fatti insurrezionali, gli scioperi selvaggi: tutto concorre alla messa in discussione dell’ordine spettacolare. Nel rilanciare la prima tesi debordiana, Sovente guardava alle esperienze politiche e sociali nelle quali si era impegnato in prima persona e che avevano animato la contestazione nella realtà napoletano-flegrea, tanto nell’ambito del lavoro salariato quanto in quello, allora d’importanza non ancora acclarata, delle lotte ecologiste[1].
Fin qui, la prospettiva che si cela dietro la citazione in apertura dell’Uomo al naturale di Sovente. Ebbene, esattamente dieci anni dopo la comparsa della raccolta, Debord licenzia i Commentari sulla società dello spettacolo, una sorta di verifica delle diagnosi elaborate nel 1967 (tutte puntualmente avveratesi) e un aggiornamento della nozione di spettacolo, che è ora ‘spettacolare integrato’ e si riconosce per alcuni caratteri precipui:
La società modernizzata fino allo stadio dello spettacolare integrato è contraddistinta dall’effetto combinato di cinque caratteristiche principali, che sono: il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente (Debord 2004: 196).
Il lettore dei Situazionisti aveva avvertito da tempo questo passaggio di fase, se annunciando il suo terzo libro, Per specula aenigmatis, può presentarlo con queste parole:
[…] ci tengo a dire che questo mio lungo racconto in latino prima e in italiano poi non è nato da alcun calcolo letterario ma come intuizione poetica, attraverso la quale poter esprimere e riferire soprattutto a me stesso uno stato di assoluta crisi storica, di distanza dalla modernità intesa come supermercato di codici, norme, valori obbligati, tecnicismi che a nulla più servono se non a far circolare un esercito di tanti pseudo-poeti e pseudo-artisti, garanti di ferro, a loro insaputa, dell’oceanico bla-bla dei mass-media (Sovente 1986).
Non è un caso che la riflessione soventiana sulla crisi storica – intesa proprio come ‘crisi della Storia’ –, la cui messa in versi è delegata agli Specula e ai primi testi destinati a Cumae, germini nel decennio dell’edonismo e del disimpegno; e quella di Sovente non è l’unica voce che si leva ‘contro’ lo stato di cose presenti. Gli anni Ottanta ci consegnano una poesia che, da prospettive diverse, fa i conti con la rottura della dialettica storica. C’è chi è entusiasta della liquidazione di questo corpaccione ingestibile e ingombrante e chi, invece, viene colpito da una sorta di ‘nevrosi’, tale per cui alla conclamata fine della storia (e si tenga presente che il libro omonimo di Francis Fukuyama esce nel 1992) non segue affatto l’era della libertà, ma un senso di vuoto che andrà colmato con strategie di volta in volta da testare, senza che possa giungersi a una vera conclusione[2]. Sovente si iscrive in questa tendenza; del resto, la quantità di volumi sul marxismo e su Gramsci in cui s’incappa spigolando nella sua biblioteca manifesta una concezione forte della Storia, che non può accordarsi con il trionfalismo di chi proclama la liberazione dell’uomo a partire dalla sua liberazione dal phylum storico.
Certo, se Sovente non è il solo ad avvertire un «immedicabile senso di spaesamento» (Dove, vv. 2-3), è altrettanto vero che resta un solitario nella sua risposta alla crisi storica. Condizione inevitabile dell’esplosione del ‘campo poetico’ consumatasi negli anni Settanta[3] è la ‘monadizzazione’ dei poeti. Bisogna immaginare un mare magnum di nomi e titoli, qualcuno destinato a durare nel tempo, qualcun altro da affidare alla rodente critica dei topi di marxiana memoria, ma tutti accomunati dall’essere singolarità avulse da legami con la tradizione o da logiche di gruppo o movimento. Non si danno più conflitti tra gruppi autoriali, battaglie combattute a suon di manifesti, confronti anche aspri tra idee di letteratura inconciliabili; si instaura piuttosto il regno del molteplice, in cui la totale orizzontalità degli autori determina l’impossibilità, o peggio l’inutilità, del dibattito e del conflitto. E qui, è davvero interessante osservare con Adorno come, ancora una volta, «le forme dell’arte registrino la storia degli uomini con più esattezza dei documenti». Al crepuscolo del XX secolo, il sociologo Zygmunt Bauman vede sorgere una nuova fase della modernità: non la post-modernità, che sancirebbe sin dal nome un (non del tutto compiuto) superamento, ma una modernità liquida, con al centro individui privi di autentici legami o afferenti a collettività dichiarate, che attraversano come monadi un mondo privato di certezze già esistenti o anche solo da costruire[4]. La poesia degli ultimi anni del Novecento è allora poesia di un momento storico all’insegna della ‘liquefazione’ degli istituti sociali, delle forze collettive e comunitarie tipiche del secolo breve; e non sarà per caso che i poli attorno ai quali ruota l’edificio della poesia degli anni Novanta siano riconoscibili nella coppia ‘individui e fluidità’, dove il secondo termine indica qualcosa d’adattabile a ogni contenitore non avendo forma propria, e le cui particelle risultano disgregate (Borio 2015 e Ead. 2018).
Varie e differenti, allora, le risposte a quanto succede alla fine del Novecento. Mentre la ‘vecchia guardia’ vive con coscienza e sensibilità maggiore il cambiamento epocale che va consumandosi, cogliendo l’occasione per cambiare strada e ampliare i ventagli di proposte avendo alle spalle esperienze letterarie significative – ed è forse per questo che molti dei libri migliori dell’ultimo scorcio del secolo provengono proprio da decani della poesia italiana come Giovanni Raboni, Franco Fortini o, ancora, Elio Pagliarani e Giovanni Giudici –, le nuove generazioni battono altri percorsi. C’è chi partecipa di un atteggiamento ‘esistenziale’ (Testa 2005: XXVI-XXVII) in cui trova inedite formulazioni il conflitto fra trascendente e materialità dell’essere, come Milo De Angelis o Cesare Viviani, e che si trova spesso a fare i conti con la tragedia di una Storia che, nonostante drammatiche battute d’arresto, prosegue; è il caso di Antonella Anedda, che sin da Residenze invernali (1992) e poi, ancor più, con il libro successivo Notti di pace occidentale (1999, ispirato in gran parte alla guerra del Golfo e ai conflitti consumatisi durante gli anni Novanta nel territorio dell’ex-Jugoslavia), opta per una poesia che non salva le vittime delle catastrofi, ma che concentra il suo sguardo su cifre diverse dallo ‘zero’ a cui si è ridotta e riduce la Storia. Ma sono altrettanto possibili ripiegamenti drastici in una dimensione irenica e totalmente epurata dai conflitti, che si riflette in una lingua improntata alla più chiara simplicitas; è questo il caso della ‘Scuola romana’, formata tra gli altri da Gabriella Sica, Claudio Damiani, Beppe Salvia, Silvia Bre e dai poeti gravitanti attorno alle riviste «Braci» e «Prato pagano». O, au contraire, si può pensare di rispolverare l’armamentario delle avanguardie, organizzando incontri, producendo antologie e tentando di rinfocolare la polemica sul rapporto tra potere, letteratura e lingua, come prova a fare il Gruppo 93, che rilancia un’idea di scrittura letteraria come «luogo della compresenza conflittuale del mobile e sempre nuovo e imprevedibile riorganizzarsi delle schegge residuali e ritornanti in circolo, di queste ancora inesplorate relazioni tra linguaggi e parlanti con annesse forme precarie di aggregazione» (Cepollaro 1991: 40).
1.2. Per molti versi, Michele Sovente è un attore tipico della scena liquida della poesia italiana tardo-novecentesca: non ha alleati, né compagni di strada; copre certamente una posizione riconoscibile nella società letteraria – in virtù di editori che lo pubblicano, contatti che stabilisce, riferimenti che esplicita –, ma la sua esperienza rimane una delle tante pronunce individuali che cercano un’integrità linguistica ed espressiva riconoscibile; ancora, pur non afferendo all’area dell’avanguardia – sebbene sia difficile non considerarlo uno sperimentale, pur in una direzione del tutto autonoma – è pienamente convinto della necessità di fare della sua scrittura un antidoto alla crisi della riflessione e della decodificazione del reale[5]. Quando dà alle stampe il suo quarto libro, vanta un curriculum letterario sufficiente perché lo si consideri un autore affermato, o quanto meno non un esordiente assoluto. Lo si potrebbe accostare a quegli autori agés che approdano, o in questo caso raggiungono la maturità poetica, dopo il 1989, data di fine simbolica del Novecento, come Pier Luigi Bacchini, molti neodialettali e i ‘nati dopo’ il 1940 (Bertoni 2012: 141). All’attivo ha già un paio di raccolte in lingua italiana – la già citata L’uomo al naturale, del 1978, e Contropar(ab)ola, del 1981, entrambe licenziate per i tipi di Vallecchi – e un poemetto che segna l’autentico avvio della sua parabola letteraria. Per specula aenigmatis (1990), infatti, non è soltanto il primo lavoro pubblicato per una casa editrice prestigiosa come la Garzanti, ma anche la prima prova in cui all’italiano si affianca il latino. Un latino sanguigno, più barocco che classicheggiante, a impostare una ‘traversata verso l’ignoto’ che succede al collasso delle coordinate storiche e culturali di chi, come lui, aveva vissuto in tutta la sua turbolenza il pieno Novecento.
Cumae prosegue e allo stesso tempo reimposta il discorso avviato con gli Specula. La forma poemetto, sempre ammesso che sia possibile classificare senza dilemmi Per specula aenigmatis in questo modo, cede il passo alle costruzioni brevi dell’(anti-)lirica, dalle quali Sovente si distaccherà nei libri successivi solo per concedere spazio a momenti prosastici o a testi più lunghi, ma non per questo riconducibili alle forme poematiche; rimangono, però, i temi che assillano il poeta, che nel tentativo di unificarli e condurli a una sintesi organica confeziona «un percorso quasi genetliaco, cioè un itinerario che ci conduce a rimeditare la “storia” dalla sua stessa genesi, attraverso il creato, fino a noi» (Italiano 2000: 94). L’intuizione di Italiano è giusta: Cumae va in effetti inteso come un nuovo attraversamento della Storia, stavolta a tappe singole e autonome anziché inserite nel magma verbale della pseudo-narrazione aenigmatica. Il flusso di paronomasie, giochi di suono e bisticci linguistici, inanellati per rendere manifesti i legami tra le componenti del mondo latamente onirico degli Specula, trapassa in una maggiore consapevolezza del maneggiare l’oggetto poetico, che alla consueta raffinatezza intellettuale aggiunge una più accorta selezione di motivi da adoperare. Balza agli occhi, infatti, la ricorsività di poche essenziali figure, familiari a chiunque pur nelle loro diverse declinazioni. L’acqua, il fuoco, lo specchio, la luna, il cerchio… Forme e simboli ancestrali che, provenienti dalla precedente stagione, tornano di continuo nelle stanze di Cumae, imprimendo da un lato una precisa fisionomia al libro e costringendo dall’altro il lettore a fare i conti con un simbolismo selezionato appositamente perché possa suonare quanto più familiare possibile, almeno dal punto di vista antropologico. Qualche anno prima della stesura di Per specula aenigmatis, Sovente si sottopone a delle sedute di analisi junghiana. Non sapremmo dire quanto effetto ebbero sulla sua psiche, ma certamente dovettero solleticarne gli appetiti intellettuali ben al di là della loro efficacia. Carl Gustav Jung fu il grande teorico dell’esistenza dell’inconscio collettivo: l’inconscio personale poggia su uno strato profondo che accoglie contenuti e comportamenti innati, identici per qualunque individuo in qualsiasi luogo o tempo. Tali simboli trascendono le correlazioni razionali e rinviano a qualcosa di incognito; connettono tensioni opposte, ma per essere ‘vivi’ devono rimanere parzialmente oscuri. L’immagine simbolica ha una potenza inesauribile perché ignota, e dunque aperta a plurime interpretazioni a seconda dell’individuo che la adopera; le esperienze umane sono accomunate dalle figure archetipiche che strutturano l’inconscio collettivo, ma le stesse, mediando tra percezione e appercezione, mondo ed ego, istinto e immagine andranno analizzate calandole nella peculiare situazione storica, sociale, individuale e culturale in cui vengono ri-attivate.
L’operazione che Sovente attua facendo un uso sistematico degli archetipi, alcuni dei quali talmente preponderanti da attraversare carsicamente l’intera sua produzione matura, non è quella di un analista, né quella di chi adopera la scrittura come una forma di autoterapia (non del tutto, almeno) o come grimaldello per capire le proprie e le altrui nevrosi. Si tratta invece di un’operazione molto raffinata, e del tutto in linea con la sua ricerca: se ‘fare poesia’ vuol dire compiere una ricerca verso l’ignoto, che provi a ragionare sui sedimenti del passato, tale ricerca non potrà che giovarsi di figure primordiali che giacciono sul fondo dell’inconscio ma che, una volta rivitalizzate, possono essere comprese dalla comunità umana tutta. E qui, subentra l’altro grande riferimento intellettuale del poeta, al quale non a caso sono dedicati tre componimenti dell’ultima sezione del libro. In quell’opera straordinaria e ormai riconosciuta come un momento essenziale della filosofia europea moderna che fu la Scienza nuova, Giambattista Vico è il primo a mostrare forte consapevolezza del valore creativo del non razionale: interpretare il segno linguistico come fatto razionale è fallace, perché trattasi in realtà di un’attività fantastica, alla cui base stanno sensazioni e sentimenti. È ripartendo da questa valorizzazione della fantasia, da cui originano la civiltà e la comunità umana (giacché i primi poeti-teologi ‘chiamavano’ le cose non secondo le corrispondenze di queste con la loro natura ma in virtù di un parlare fantastico), che si può ri-fondare l’autoconoscenza del soggetto, che comprende la realtà umana più e meglio che attraverso la sola razionalità (Parenti 1972: 36-40). Ecco allora che pensare a come compaiano e a come si leghino tra loro, stabilire un parallelo tra questo fondo misterioso abilitato a riemergere e la terra flegrea che conserva fossili ed effigi nelle sue profondità, diventa uno dei punti nevralgici della riflessione che sottende Cumae; anche per questo, pur fungendo da serbatoio di motivi, l’inconscio collettivo con i suoi archetipi si configura a tutti gli effetti come un tema della poesia di Sovente.
Note
[1] Sui conflitti operai nell’area flegrea, e più in generale sulle lotte sindacali a Napoli, cfr. Paura 2007: 378-384. Occorre avere ben chiaro che le esperienze di lotta determinatesi nel territorio campano e, più in generale, meridionale divergevano non poco da quelle del resto del Paese, anche a causa di una struttura economica e sociale che ancora nei primi decenni del secondo Novecento si presentava ricca di differenze (per cui cfr. Ambrosi 2014 e, ancora, Falciola 2015: 134). Per quanto riguarda il movimento ecologista flegreo, nato nella prima metà degli anni Settanta per tutelare un patrimonio ambientale martoriato dagli abusi industriali, si veda Mancusi 1977.
[2] La distinzione è di Simonetti 2016, che individua due reazioni psicologiche alla crisi della poesia italiana, comprensiva della crisi storica cui si accennava: la prima è di tipo ‘euforico’, e consiste «nel ripristino a diverso titolo del mito della poesia come emergenza emotiva, comunicazione spontanea antecedente a qualsiasi stilizzazione»; la seconda, che contrassegna gli anni Novanta, è di tipo ‘disforico’ e «non nega ma al contrario prende atto della frattura intervenuta nella dialettica storica, e induce molti poeti ad assumere un atteggiamento e uno stile ‘postumi’ rispetto alla modernità; a usare la tradizione contro la tradizione, a testimoniare un’angoscia, a elaborare un lutto» (ivi: 51-52).
[3] Si intende, per ‘campo’, un sistema di forze impossibili da pensare separatamente. Mazzoni 2017 ha particolarmente insistito su questa ‘crisi di campo’, notando come, a partire dalla generazione del Sessantotto, il reticolo di relazioni e convenzioni vigente fino agli anni Settanta venga meno: «famiglie poetiche differenti convivono senza contraddirsi; si ha l’impressione che tutto possa andar bene, perché non c’è alcun imperativo etico-politico che trascenda il desiderio individuale di essere come si è e di esprimersi come si è» (16). È decisamente interessante il ragionamento di Mazzoni 2005 per cui la descritta condizione della poesia moderna – ma qui insisteremmo sull’accentuarsi di tali tratti nell’epoca contemporanea e segnatamente tardo-novecentesca – sia un’allegoria della logica culturale e sociale del nostro tempo, basata su «la relatività di ogni scelta, la mancanza di una trascendenza condivisa, l’incomunicabilità fra gruppi, la frantumazione degli interessi, dei linguaggi e delle mentalità, la dialettica tra il raggiungimento dell’autonomia soggettiva e il rischio dell’oggettiva insensatezza» (244).
[4] La più compiuta teorizzazione della modernità liquida è quella di Bauman 2011, che si oppone esplicitamente alla categoria di post-modernità, preferendo parlare di una fase ‘liquida’ del moderno fondata sulla «convinzione sempre più forte che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza» (VII).
[5] Negli anni Novanta, «il ritorno a un’idea di sperimentalismo d’avanguardia si iscrive nella critica contro la riduzione della scrittura a una forma di piacevolezza vuota, che ha perso la riflessione su un senso da comunicare, e contro la crisi dei valori, che vanno di pari passo con il trionfo postmoderno dei sembianti in cui l’arte di massa e l’arte sperimentale sembrano non essere più distinguibili l’una dall’altra» (Borio 2015: 184). Sovente si è sempre scagliato contro l’omologazione e il livellamento culturale caratteristico della società consumista e della post-modernità.
[Immagine: Parco archeologico di Cuma (foto MiBACT, Twitter)].