di Claudio Lagomarsini

 

[E’ uscito da poco per Fazi Editore Ai sopravvissuti spareremo ancora, primo romanzo di Claudio Lagomarsini. Ne pubblichiamo un estratto].

 

Tempo fa ho visto un documentario sull’India antica. A un certo punto si parlava dei Veda. Per molti secoli, diversamente dalla Bibbia e dal Corano, i Veda sono stati tramandati oralmente, in sanscrito, senza che nessuno li mettesse per iscritto. Come per altri testi sacri, si poneva il problema della loro alterazione. I sacerdoti temevano che, nel corso del tempo, si sarebbero introdotti degli errori, si sarebbe persa una parola, un’altra sarebbe stata sostituita. Così hanno messo a punto alcuni sistemi per conservare intatti i testi sacri, anche tramandandoli oralmente. Uno di questi sistemi consisteva in una speciale recitazione incatenata, parola per parola, che seguiva uno schema del tipo 1-2, 2-3, 3-4, eccetera. Per capirci, una cosa come: Padre-Nostro. Nostro-che. Che-sei. Sei-nei. Nei-cieli. Cieli-sia. Sia-santificato. Santificato-il. Il-tuo. Tuo-nome. E così via. I testi venivano memorizzati e ripetuti in questa forma. C’erano altri due sistemi principali di recitazione, che andavano imparati in parallelo al primo. Se per caso (ed era comunque difficile) si produceva un errore in una di queste sequenze memorizzate, il confronto con le altre due permetteva di scovare il guasto e correggerlo.

 

Cinque giorni fa sono entrato in un negozio Interflora, ho fatto preparare un mazzo con diciotto rose rosse, ho allegato una lettera e ho pagato novantacinque euro, centottantaquattromila delle vecchie lire. Poi ho aspettato.

Il giorno del compleanno di Sara è passato, sono passati due giorni. Tre. Intanto ripensavo alla lettera. Mi è venuta troppo lunga, decisamente. Un sacco di cose potevo risparmiarmele. Sono stato troppo logico, argomentativo. Alla fine, più che una lettera d’amore, mi è venuto fuori un saggio breve in cui spiegavo perché la amo e per quali ragioni dovrebbe amarmi anche lei. Ho firmato: «un ammiratore misterioso». Naturalmente sa bene chi è il mittente. Dopo tutte le volte che ha copiato dal mio quaderno, Sara conosce la mia scrittura meglio di me.

 

Sono passati quattro giorni. Ho pensato di fare una pazzia, andarle sotto casa, suonare al citofono, presentarmi su e chiedere: e allora? Non mi dici niente? Lo capisci che cosa significa esporsi in questo modo, affrontare il ridicolo per qualcuno? Tu l’hai mai scritta una lettera d’amore, lo sai che cosa vuol dire mettere nero su bianco cose che sei andato a pescare nei recessi più profondi di te?

È stato solo un attimo, ho subito capito che sarebbe stato uno sbaglio. E poi che cosa doveva dirmi, non basta già il silenzio?

Mi è venuto il dubbio di aver sbagliato indirizzo. Ho chiamato il fioraio, ho chiesto di controllare. Una signora dalla voce piatta mi ha detto di aspettare in linea. Dalla cornetta sentivo che sfogliava un registro. Mi ha chiesto di ripetere la data e il nome.

 

Consegnato, ha detto, non c’era dubbio. Sul registro c’era scritto che la consegna era avvenuta nella data pattuita, e l’indirizzo che mi ha letto era quello giusto.

Stamani, solo stamani, ho ricevuto un messaggio: “I fiori sono bellissimi e tu sei un ragazzo dolcissimo. Ma sento che tra noi non potrà esserci mai niente di più che un’amicizia. Scusa”.

Mi sono sentito addosso un malessere appiccicoso. Mi sembrava di essere avvolto nello zucchero filato, mi mancava l’aria, sentivo i filamenti viscosi che mi invadevano la gola. Ragazzo dolcissimo. Dolcissimo ragazzo. Dolcissimo. Bellissimi fiori. Bellissimi.

Ho riletto il messaggio ad alta voce, valutando se per caso non era possibile un’altra interpretazione: i fiori sono bellissimi e tu sei un ragazzo dolcissimo. Ma sento che tra noi non potrà esserci mai niente di più che un’amicizia. Scusa.

Anche forzando il senso di ognuna delle venticinque parole che Sara si è presa il disturbo di comporre per me, anche volendo travisare i punti, le pause, le maiuscole, lo scusa finale, non riuscivo a procurarmi nessun palliativo.

 

Allora ho imparato il testo a memoria, come una poesia, per vedere se riuscivo a trasformarlo in una cantilena, svuotando le parole di senso e riducendole a rumori.

È stato qui che mi sono ricordato dell’India antica. I-fiori. Fiori-sono. Sono-bellissimi. Bellissimi-E. E-tu. Tu-sei. Sei-un. Un-ragazzo. Ragazzo-dolcissimo. Dolcissimo-ma. Ma-sento. Sento-che. Che-tra. Tra-noi. Noi-non. Non-potrà. Potrà-esserci. Esserci-mai. Mai-niente. Niente-di. Di-più. Più-che. Che-una. Un’amicizia. Amicizia-Scusa.

Ho ripetuto una, due, cinque, dieci, venti volte. Quaranta, sessanta, cento. Ho scarnificato una frase dopo l’altra, ho annullato la sintassi, spezzettato i sintagmi, scomposto le sillabe, disossato i fonemi. Ho ridotto il rifiuto a lallazione, il dolore a esercizio spirituale.

Arrivata la sera, mi sento guarito.

 

***

 

Nonna è stata la prima, nel nostro comune, a ottenere un divorzio con la Legge Fortuna-Baslini. Lo racconta spesso con un certo orgoglio, ed è per questo che ricordo il nome della legge.

Io e il Salice non abbiamo conosciuto suo marito, “nonno” Fabiano, morto un paio d’anni fa. Lo abbiamo incrociato soltanto una volta, al funerale di una prozia. Ci ha stretto la mano con solennità e ha detto, testuale, che prima o poi tocca a tutti, e toccherà anche a noi.

Doveva essere uno strano tipo, anche se so bene che devo fare la tara agli episodi che riferiscono nonna e mamma. Tendono a esagerare la cattiveria di tutti i loro parenti, ingigantiscono la gravità delle offese, sopravvalutano fatti insignificanti, forzano l’interpretazione di parole innocue. Lo fanno anche una con l’altra, continuamente, ed è per questo che non vanno d’accordo.

 

Di nonno Fabiano ricordo un episodio che mi hanno raccontato. È relativo, anche questo, a un funerale: dev’essere una situazione che gli ispirava il genio. Si era messo in coda nel corteo con la sua auto sportiva. Era un tipo insofferente, iperattivo, “triboloso” come si dice nel nostro dialetto. A un certo punto, siccome si annoia di tutta quella lentezza, dà il via a un quarantacinque giri di Rita Pavone, a volume oscenamente alto, e con la sola giustificazione che bisogna far svagare le cuginette di mamma, che lo adoravano e che lui si caricava volentieri in macchina, come del resto faceva con tutte le ninfette. Datemi un martello. Che cosa ne vuoi fare? Lo voglio dare in testa a chi non mi va. Un tipo così, più o meno.

Dopo il divorzio, nonna ha avuto numerosi fidanzati. Ne ho conosciuti alcuni. Per un vezzo d’altri tempi, si facevano tutti chiamare “zio”.

Da’ la manina a zio Enrico. Da’ una carezzina a zio Rino. Da’ un baciotto a zio Ottavio.

 

Ottavio è stato l’ultimo. Quando ci siamo trasferiti nella nuova casa, nonna stava con lui da qualche tempo. Un uomo più vecchio, del tipo vagamente laido che corrisponde ai suoi gusti, capelli tinti, catena d’oro, molta salivazione. Aveva una figlia con cui non andava d’accordo per via di un figlio più piccolo che Ottavio aveva avuto dalla commessa diciassettenne assunta nella tabaccheria di famiglia negli anni Sessanta.

Prima delle cene alcoliche dal Tordo, si facevano cene alcoliche anche da zio Ottavio. Io ero piccolo, non potevo ancora bere. Ricordo chiaramente il disagio di trovarmi tra adulti e anziani un po’ brilli che ridono troppo forte e parlano di sesso in modo esplicito. Era nonna, sempre lei, che incoraggiava Ottavio a raccontare delle sue molestie alla commessa adolescente. Lui si faceva pregare, ma alla fine cedeva sempre. Così raccontava − tra manifestazioni di pudore e di vanto − le pacche sul sedere, e ripeteva i doppi sensi con cui tormentava la poverina (ti piace il sigaro? l’hai mai fumata una bella pipa?), ricordava le strusciate che dava alla ragazzina nel passaggio stretto dietro al bancone della tabaccheria. Di quegli anni Ottavio rievocava soprattutto una sensazione di tensione costante che gli veniva dall’essere perennemente «incordato, là sotto». Usava questa espressione che, lo ricordo bene, faceva ridere nonna come ora ride di altre espressioni equivalenti usate dal Tordo.

Quando Ottavio ha avuto i primi acciacchi senili (menischi da rifare, cataratta da togliere) l’amore è finito. Nonna si è stancata, è diventata sempre più scostante, ha smesso di fare le cene a casa sua. È vecchio, vecchio, ripeteva, anche se avevano solo quattro o cinque anni di differenza. È stata lei a spingerlo tra le braccia di Olga, una badante ucraina che, per mia nonna, era semplicemente una badanterumena, quella genia schifosa che, per statuto di classe, insidia i nostri vecchi.

 

Era sempre nonna ad attaccare bottone, quando Olga si avventurava con la carrozzina fin nel vialetto di casa nostra. Sempre nonna a far cadere il discorso − rapidamente esauriti gli aggiornamenti sul meteo − sulla casa al mare di Ottavio, e sugli acciacchi crescenti di lui, sulle sue mani bucate, sui rapporti complicati con i figli, sui problemi di eredità che si prospettavano, lasciando spazio di manovra ai malintenzionati, che al giorno d’oggi, signora mia…

Quando finalmente ha avuto la certezza assoluta che Ottavio la tradiva – difficile stabilire quale tipo di prestazione le sia servita da prova regina, considerato che lui, come nonna assicurava a Olga, era impotente… − non ci ha pensato due volte. Il giorno stesso ha fatto le valigie di Ottavio, le ha posate di fianco alla sua macchina (l’inseparabile Mercedes Pagoda color verde acqua) e lo ha cacciato di casa senza cerimonie.

I figli non hanno voluto saperne, e anzi hanno solidarizzato con nonna. I pochi risparmi di Ottavio sono serviti a pagare qualche capriccio di Olga, che è sparita presto, appena si è chiarito l’equivoco della casa al mare, un rudere invendibile abitato dalla muffa e dai gabbiani. Quel che è rimasto del gruzzoletto messo da parte in quarant’anni di sali, tabacchi e strusciatine è finito nel giro di qualche mese: Ottavio viveva in albergo e, come molti uomini della sua generazione, non sapeva cucinare, farsi il bucato, stirare. Abituato agli agi di chi si è fatto da sé, di chi ha sperimentato il benessere del Boom e non ha la minima intenzione di tornare indietro, mangiava due volte al giorno al ristorante, portava i panni sporchi in lavanderia, li faceva stirare in albergo.

Fino alla fine ha conservato la Mercedes Pagoda. Ce lo hanno trovato dentro, sporco, barbuto e senza vita, alla fine dello scorso inverno.

 

 

[Immagine: © Guido Guidi, Bertinoro, 1984 (particolare) (mge)].

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