Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi

 

[Inauguro oggi una nuova rubrica, intitolata Visite allo zoo: si tratta di una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione, spesso screditata persino da chi dovrebbe difenderla. Spero che ne esca un quadro composito delle difficoltà ma anche dell’umanità e dell’intelligenza di chi, anche come scrittore o scrittrice, si siede dall’altra parte della cattedra e imbastisce una pratica e un dialogo quotidiani con gli studenti che ha di fronte. Le domande sono uguali per tutti. Il titolo si capirà leggendo la seconda domanda, ma vale la pena specificare subito che gli animali in gabbia cui esso allude non sono gli studenti ma i poeti.

Il primo a rispondere è Fabio Pusterla  (mg)].

 

1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?

 

Sono professore di italiano presso il Liceo Lugano1 (Svizzera) e professore titolare di letteratura italiana presso l’Università della Svizzera italiana, dove mi occupo principalmente di letteratura moderna e contemporanea. Al liceo insegno da 38 anni, e sto svolgendo il mio ultimo anno di lavoro, con una sola classe e un grado di occupazione del 25%. All’università lavoro da una decina di anni; attualmente sono occupato al 50%.

 

2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?

 

Sono d’accordo, certo. Ma non sono sicuro di due cose: che la situazione riguardi soltanto la poesia (Kafka, Flaubert, Faulkner, Tabucchi, per dire: sono in una situazione molto diversa?), e che sia una situazione particolare dei nostri anni. L’ipotesi di partenza presuppone che in passato la poesia (e la letteratura di ricerca, alta e non principalmente o esclusivamente di consumo) avesse vita autonoma e rigogliosa fuori dalle scuole, e indipendentemente da esse. Non sono sicuro che sia stato così, lungo il XX secolo. E poi l’immagine dello zoo e delle gabbie è suggestiva ma enigmatica; chi è in gabbia? Il poeta o chi non conosce la poesia e la sua capacità di scendere nel profondo di noi stessi? Perché mi sembra che la sfortuna della poesia sia anche il venir meno di una antropologia, di una profondità psichica e culturale negata, rimossa, ignorata. L’eclissi della poesia si accompagna all’affievolirsi di molte altre cose; e ogni tanto, quando riesco a non essere troppo negativo, ho l’impressione che la parola, la pratica della parola poetica, mi renda più libero, più padrone di me e più capace di leggere il mondo. Allora: chi è in gabbia?

 

3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?

 

Certo, mi è capitato spesso. Tra le molte ragioni del fenomeno, che penso sia noto a tutti gli insegnanti, mi sembra interessate sottolinearne una. Questa inefficacia e goffaggine penso di averla avvertita più spesso leggendo e commentando Leopardi o Montale che non Dante o Ariosto. Credo infatti che la difficoltà nasca dalla poesia “moderna”, dal nuovo valore della poesia occidentale dal Romanticismo in poi. Prima, nel complesso, un insegnante mediamente preparato e motivato sa o crede di sapere come si fa a “insegnare” Dante, Petrarca, e così via. Da Leopardi in su, le cose cambiano e si fanno più difficili, meno prevedibili e anche meno definite. Penso che non si possa affrontare la poesia moderna senza tener conto, e anzi stimolare e considerare, la reazione del lettore (dello studente). Di un classico antico posso spiegare ciò che è necessario per leggerlo e capirlo; attorno a un poeta moderno o contemporaneo devo prima di tutto far scattare una scintilla di fascinazione, condivisione, curiosità. E non sempre ci riesco.

 

4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?

 

Io credo di aver imparato molto, come scrittore, dalla mia attività di insegnante; dai ragazzi che ho conosciuto e cercato di comprendere, dalle storie che mi hanno raccontato o lasciato intuire, dal loro essere lì , davanti a me, offerti al mio sguardo. Ho saputo trasmettere, in cambio, qualcosa di diverso “in quanto scrittore”? Non ne sono sicuro, ma naturalmente lo spero. E se questo è avvenuto, penso sia avvenuto nei dintorni di una cosa che si può chiamare con larga approssimazione “passione”.

 

5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.

 

Lo faccio spesso, sì, e mi sembra con risultati soddisfacenti. Una volta, tanti anni fa, volevo iniziare a leggere qualche testo di Montale, e ho chiesto se qualcuno avesse già sentito il suo nome. Dopo un po’ di silenzio imbarazzato, un ragazzo ha alzato la mano: “non è il rivale di Ronald Reagan”, ha detto (intendeva Walter Mondale)? Però ci sarebbero decine di aneddoti più allegri e positivi. Ieri ero invitato come poeta in una scuola media. Dopo un po’, una studentessa di 14 o 15 anni ha alzato la mano, e ha detto una cosa molto bella: “trovo straordinario che dietro ogni poesia, anche breve, si apra un mondo, una storia, che a prima vista non si vede e che sembra nascosta e coagulata in poche o pochissime parole e suoni”. Eliot, parlando di Dante, osservava ammirato l’eccezionale “forza di compressione” che percorre la sua poesia; e questa ragazzina l’ha capito subito (e non aveva di fronte Dante, ma un poeta d’oggi, infinitamente inferiore).

 

 

6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?

 

Il singolo insegnante, nella fattispecie io, può aiutare, stimolare, incentivare e sostenere la passione per la lettura e per la scrittura dei suoi studenti: ne sono fermamente convinto (è capitato a me quando ero studente, e credo capiti con una certa frequenza ai miei studenti di oggi). Ma la scuola nel suo insieme, la “macchina-scuola” con il suo corredo di compiti e verifiche e la sua nevrosi valutatoria, temo finisca per avere l’effetto opposto: spinge gli studenti a leggere meno e meno frequentemente di quanto potrebbero o vorrebbero fare; tende a dare importanza alle forme di scrittura e di verifica più facilmente misurabili, a scapito delle altre. Ho paura che questa sia una tendenza in crescita, contro la quale la resistenza degli insegnanti più illuminati è sempre più in difficoltà e in minoranza; e sempre più necessaria e preziosa.

 

7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innescano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:

 

Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.

 

Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?

 

Sono d’accordissimo con Piras. E mi sa che da anni vado, senza dirlo a nessuno, proprio in questa direzione.

 

7) Ultima curiosità: fai l’insegnante di lettere (o di altro) anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante di lettere (o di altro), da qualche parte nel tuo percorso?

 

Sì. Non credo che avrei studiato letteratura se non avessi avuto, proprio durante il mio ultimo anno di Liceo, Giovanni Orelli, che era un grande insegnante e un importante scrittore. E non credo che insegnerei come insegno (come tento di fare) senza l’esempio suo e di alcuni (pochi) altri insegnanti che mi hanno colpito, influenzato e entusiasmato: una insegnante di francese alle scuole medie; Orelli al Liceo; Maria Corti e Maria Antonietta Grignani all’Università. E dopo, tanti amici e colleghi da cui ho imparato molto; maggiori di me, coetanei o talvolta anche più giovani (come te, che ora mi fai queste domande).

 

[Immagine: Foto di Friedrich Seidenstücker].

 

Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi

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