[Il 26 Settembre è uscita la prima traduzione italiana (e seconda in lingua moderna) del poema latino Architrenius di Giovanni di Altavilla (Johannes de Hauvilla), per cura di Lorenzo Carlucci e Laura Marino (Biblioteca Medievale, Carocci). In un saggio apparso su «Testo a Fronte» (n. 59, 2019) i due curatori difendono l’ipotesi che nel poema medievale sia da riconoscersi una fonte, finora sfuggita all’attenzione della critica, del Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi.

Il testo che segue è una versione lievemente rimaneggiata di un extended abstract che apparirà negli atti della conferenza The Middle Ages in the Modern World 2018, e una sintesi dell’articolo apparso su «Testo a Fronte» 59, 2019.

Oggi pomeriggio alle 18.30 il volume verrà presentato da Guido Mazzoni presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma].

 

 

L’Architrenius di Giovanni di Altavilla e il Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi

 

Cosa può avere in comune l’Architrenius di Giovanni di Altavilla (Johannes de Hauvilla), un oscuro poema normanno in esametri latini del 1184, classificato dagli editori moderni come una “allegoria satirica”[1], con una delle prose più famose di Giacomo Leopardi, il Dialogo della Natura e di un Islandese? L’operetta in questione è considerata come l’espressione più compiuta della singolare ideologia anti-provvidenzialistica, anti-antropocentrica, anti-cristiana – quando non pienamente materialista e proto-nichilista – del suo autore, ed è generalmente giudicata come il risultato di una originale rilettura di idee illuministiche attraverso la lente del genio leopardiano. Nulla sembra essere più distante da alcunché di “medievale”. Inoltre, secondo la maggior parte dei suoi esegeti, l’interesse di Leopardi per il Medioevo sarebbe stato molto limitato.

 

Per questi motivi è tanto più sorprendente osservare come, a una attenta lettura, le due opere presentino estese corrispondenze strutturali, tematiche e linguistiche le quali, nel loro insieme e per la loro qualità, difficilmente potrebbero credersi frutto di una casuale poligenesi.

 

Per iniziare, le due opere hanno un plot significativamente simile: un uomo, convinto della vanità e della miseria della umana condizione[2], imputandone alla Natura la responsabilità, va pellegrino per il mondo; egli conferma a ogni tappa del suo viaggio la propria impressione iniziale finché, spintosi in terre remote e tropicali, non incontra la Natura, in forma di donna maestosa, dotata di caratteristiche contraddittorie[3], e ingaggia con lei un’aspra diatriba intorno ai temi del male, della provvidenza, dell’antropocentrismo. Architrenio (l’eroe eponimo del poema di Giovanni), poiché ha riconosciuto la miseria e la vanità della condizione umana, decide di mettersi in viaggio per il mondo cercando (quaerendo) la Natura allo scopo di chiederle conto delle ragioni del suo “odio” verso l’uomo[4]. L’Islandese va “fuggendo la Natura per cento parti della terra”, disperato della sua benignità. L’opposizione tra ricerca e fuga – già di per sé significativa e suggestiva di un possibile ribaltamento del motivo medievale nell’opera leopardiana – non è però sufficiente ad adombrare la profonda similarità delle due quêtes, pure manifesta nelle formulazioni linguistiche degli intenti dei due protagonisti: “Profugo Natura per orbem / est querenda michi” dice l’eroe medievale, “Vo’ fuggendo la Natura per cento parti della terra”, gli fa eco, con un calco letterale per quanto non sinonimico, l’Islandese di Leopardi. L’Islandese, anch’egli, ha compiuto una ricerca: “Quasi tutto il mondo ho cercato”, afferma. Dal canto suo il protagonista del poema di Giovanni cerca, anzi dà quasi la caccia, alla Natura con il preciso scopo di lamentarsi e di chiederle conto della miserrima condizione in cui ella ha abbandonato i suoi figli (se non addirittura di processarla per questo – tante le sfumature del termine querenda), naturalmente inclini alla trasgressione e privi di ogni difesa naturale contro il male, sia esso fisico, morale o metafisico. Il “Natura est querenda michi” di Architrenio riecheggia pure nel “querelandomi io seco” dell’Islandese, il quale si lamenta con la Natura e con Dio, dell’argomento telelogico, per cui il mondo sarebbe una “villa” creata per l’uomo – argomento che ritroviamo puntualmente come prima battuta della Natura nel poema medievale[5].

 

Tanto il viaggio dell’Islandese attraverso la società umana e gli aspri paesaggi disabitati quanto il viaggio di Architrenio attraverso i luoghi emblematici dei vizi e della miseria degli uomini, fino all’inesplorata isola di Tylos (confusa da tutti gli esegeti, fino all’edizione critica del 1974[6], con la mitica Thule, ossia l’Islanda) non fanno che convincere i protagonisti della disperata condizione di esistenza cui l’uomo è costretto, schiacciato tra una naturale e insaziabile tensione al vizio e le calamità naturali (intemperie malattia vecchiaia morte).

 

«La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi»; scrive Leopardi nello Zibaldone il 2 Gennaio 1829. Il dettato di Leopardi, si dà il caso, cattura con precisione il carattere più specifico del poema di Giovanni, il cui protagnista, l’archi-threnius, ossia il princeps lamentationum[7], o l’Arci-Piangitore, trascurando le più tradizionali dottrine ortodosse circa il peccato originale e circa l’essenza e la causa del male, accusa la Natura della miseria della condizione umana. Alla Natura egli rivolge non soltanto le sue lamentazioni ma anche violente invettive la cui asprezza non trova eguali in nessuno dei contemporanei di Giovanni: Nella sua invettiva finale alla Natura Architrenio accusa la dèa di essere una matrigna (“noverca) piena di odio per le sue creature, e una “Procne”, ossia, secondo il mito tramandato a Giovanni probabilmente da Ovidio, un’assassina del proprio figlio, prefigurando così l’accusa che l’Islandese rivolgerà alla Natura d’essere “carnefice della tua propria famiglia”[8].

 

Le due opere risultano, inoltre, strutturalmente congruenti nei loro epiloghi: in entrambi i casi il protagonista entra – volente o nolente – nel ciclo di perpetua creazione e distruzione nel quale, come la Natura dichiara sia nel poema medievale che nel dialogo leopardiano, consiste l’esssenza della sua legge (“sanctio”). Architrenio viene esortato dalla Natura a sposarsi al fine di procreare prima di marcire (“marcescere”) e morire, laddove Leopardi conclude il suo Dialogo con la narrazione della morte dell’Islandese. In questo consiste la “religio nativa”: nella legge di perpetuazione della specie, quella stessa legge in cui Leopardi riconosce la “Spaventevole ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica” (Zibaldone [4169]).

 

L’epilogo dell’operetta, inoltre, contiene una allusione criptata alla sua fonte occulta: come Eva Viani ha rilevato[9], la morte dell’Islandese ricalca la narrazione della morte di Eraclito nella raccolta bizantina di vite dei filosofi detta Suda (ca. X secolo). Qual è il significato di questa allusione all’antico filosofo greco in chiusa al Dialogo della Natura e di un Islandese? La risposta potrebbe essere sorprendentemente semplice: Eraclito è infatti noto tradizionalmente come “Il Piangitore”, quell’Heraclitus lugens che piange dei mali del mondo, contrapposto tradizionalmente al Democritus ridens il quale, invece, se ne fa beffe. Identificando implicitamente il suo Islandese con Eraclito “Il Piangitore” Leopardi sta indicando la fonte di ispirazione, peraltro gelosamente nascosta, della propria operetta: Architrenius, l’Arci-Piangitore, il Piangitore per antonomasia. Interessante notare che, proprio nel 1826, Charles Nodier, erudito francese noto a Leopardi, in una voce della sua Bibliothèque Sacrée Grecque-Latine dedicata al poema di Giovanni, ne designi il protagonista proprio come un “Héraclite chrétien.

 

Leopardi non fa mai menzione dell’Architrenius; ciò non ostante egli ha potuto avere notizia del poema di Giovanni da una nutrita serie di fonti, tutte presenti nella biblioteca paterna o facilmente accessibili al poeta, tra le quali menzioniamo la Bibliotheca del Fabricius, gli Epitheta di Ravisius Textor, il commento di Giovan Battista Pio al De Rerum Natura, la Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano di Gibbon, l’Historie Littéraire del la France, e molti altri. Leopardi – un noto bibliofilo[10] – potrebbe dunque aver letto il poema di Giovanni già in anni giovanili (un manoscritto è conservato nella Biblioteca Augusta di Perugia, già dell’umanista Prospero Podiani) o, come ci pare più probabile, durante il suo soggiorno a Roma, proprio durante i mesi della stesura del Dialogo della Natura e di un Islandese. Due manoscritti di Architrenius sono conservati in Vaticana (parte del fondo di Cristina di Svevia), dove Leopardi lavorava, nella speranza di un’assunzione, accanto ad Angelo Mai, il quale proprio in quegli anni vi avrebbe scoperto un altro monumento del XII secolo, i Mitografi Vaticani, pubblicati per la prima volta nel 1831. Inoltre, per chi dubitasse della capacità di Leopardi di decifrare un manoscritto antico, si segnala che una copia (ad oggi perfettamente conservata) dell’edizione cinquecentina dell’Architrenius è conservata presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma[11].

 

Risulta naturale, volendo dar credito alla rilevazione di una presenza così imponente del poema di Giovanni nell’operetta di Leopardi, interrogarsi su una possibile cornice ideologica comune, che possa dar conto dell’operazione leopardiana al di là della dimensione di semplice trouvaille. La risposta più pertinente va riconosciuta, ci sembra, in una categoria dottrinale che fu al centro di importanti dibattiti tanto al tempo di Giovanni di Altavilla quanto al tempo di Leopardi e dei suoi immediati predecessori illuministi, ossia il “Manicheismo”, inteso come dottrina dualista che riconosce nel mondo l’opera di un potere maligno distinto da Dio. Si tratta della stessa dottrina che i teologi contemporanei a Giovanni (e in particolare Alano di Lilla, che fu pure il suo diretto antagonista letterario) non esitarono ad attribuire ai cosidetti “Catari” o Albigesi, della stessa dottrina che conobbe un fortunatissimo revival per opera di Dictionnaire di Bayle e che contò un cospicuo numero di simpatizzanti tra gli Illuministi d’Europa[12], prima di germogliare in varie forme di medievalismo durante il Romanticismo e, in Italia, in epoca post-unitaria[13]. Leopardi, che per il Manicheismo ebbe un documentato interesse – se non religioso o ideologico, perlomeno intellettuale – potrebbe dunque aver letto il poema di Giovanni sullo sfondo delle dispute del XII sulla risorgenza di eresie dualiste in Europa. Nel far ciò il grande Recanatese dà una ulteriore conferma del proprio genio, cogliendo un aspetto così peculiare dell’antico poema che sarebbe sfuggito per diversi secoli a tutti i suoi esegeti[14].

 

Note

 

[1]   Cfr., e.g., Johannes de Hauvilla, Architrenius, edited and translated by Winthrop Wetherbee, Dumbarton Oaks Medieval Library 55, Harvard University Press, 2019; revisione della traduzione apparsa nel 1994 per i tipi della Cambridge University Press.

[2]   L’Islandese dichiara: “io fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini”; alla voce “Hauteville” nel Grand Dictionnaire del Moréri, presente nella Biblioteca di Recanati, leggiamo “Il a écrit un ouvrage divisé en neuf livres, & intitulé Architrenius, où il déplore la misère des hommes, leurs moeurs corrompues, et la vanité de leurs actions”.

[3]   In Architrenius 8, 303 è “vecchia d’anni ma in viso fanciulla” (“anus est etas faciesque puella”); “di volto mezzo tra bello e terribile” in Leopardi.

[4]   Architrenius 1, 320-323: “Ora so cosa fare: fuggitivo attraverso la terra / io devo cercare Natura […] porterò alla luce / le cause latenti dell’odio” (“Quid faciam, novi: profugo Natura per orbem / est querenda michi […] odiique latentes / eliciam causas.”)

[5]   Architrenius 8, 324-333, in particolare 329-333: “Gioisci / (…) che il Signore al ministro / abbia eretto una villa, il cui edificio profuma / del sommo suo autore” (“(…) Gaude / (…) dominumque ministro / erexisse domum, cuius molicio summum / actorem redolet (…)”). Il protagonista del poema medievale si lamenterà dell’inefficacia di questo argomento in Architrenius 9, 1-12 e 9, 156-210.

[6]   L’edizione critica è stata allestita da P. G. Schmidt nel 1974 (Johannes de Hauvilla, Architrenius, hrsg. Paul Gerhard Schmidt, Wilhelm Fink, Munich, 1974).

[7]   Threnoi sono le lamentazioni funebri, nonché il titolo delle Lamentazioni di Geremia nella Bibbia dei Settanta.

[8]   “Forse che compatirai la tua prole, Natura, afflitta / dai flagelli dei crimini? Quale gelo verso la prole / ha turbato la pace materna? L’amore di madre ha imparato / l’odio di una matrigna? O seni che mai offrirete / i dolci favi del miele! La pietà di una madre si veste / di rigore e indurisce una Ino nella pietra di Procne. […] Non controllo – lo ammetto – il torrente dell’ira: di te / con tua pace, io mi lamento, Natura. A te si prosterna / l’apice di ogni maestà, e tu di traverso ci guardi / sempre con occhio avaro, a nessuna dolcezza la chiusa / mano sai aprire. L’uomo, dei dolori la preda, immerge / la vita nelle tristezze, non conosce amichevoli anni, / né prende piacere in letizia, di fresche brezze non gode.” (Architrenius 9, 177-184, 191-197).

[9]   Eva Viani, Ancora su Leopardi e i presocratici, in “Carte Italiane” vol. 1, n. 6, pp. 51-60.

[10] Si veda in proposito il bel volume di Sandra Covino, Giacomo e Monaldo falsari trecenteschi (Olschki 2009).

[11] Il volume è censito nell’indice del 1739 ed era di proprietà dell’umanista Benedetto Egio di Spoleto.

[12] E.g., Voltaire, Hume, Gibbon, si veda il saggio di Richard H. Popkin, Il manicheismo nel pensiero illuminista, in Lo spirito critico, Comunità, 1974, pp. 46-72.

[13] Si veda in proposito il recente saggio di Riccardo Facchini, Liberali, socialisti, martiri: gli eretici medievali tra Ottocento e Novecento, in “Nuova Storia Contemporanea” 15, no. 4, pp. 95-112.

[14] Questa ipotesi di lettura ci ha dato lo spunto per analizzare le eco del dibattito medievale sul “manicheismo” nell’Architrenius, in L. Carlucci e L. Marino, Echoes of Manichaeism in the Architrenius, in “Dianoia” 28, 49-80. White per primo ha riconosciuto nell’Architrenius una tappa fondamentale in una tradizione letteraria, poi sfociata nel Roman de la Rose e in Chaucer, in cui viene messa in discussione la benignità della Natura, cfr. H. White, Nature, sex and goodness in a medieval literary tradition (Oxford University Press 2000).

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