di Mauro Piras
Domenica scorsa, 16 febbraio, Walter Veltroni ha pubblicato sul Corriere della sera un articolo che ricorda la vicenda del militante neofascista Sergio Ramelli, aggredito a Milano il 13 marzo 1975 a colpi di chiave inglese, e morto il 29 aprile successivo. L’articolo si inserisce in una serie che ricorda le vittime della violenza politica degli anni settanta. L’intento è quello di mostrare l’assurdità di quelle morti, per qualsiasi ragione venissero provocate e da qualsiasi parte. È un punto di vista “umano” (se volete un po’ mieloso e sentimentale), ed è anche un punto di vista “democratico”: le istituzioni democratiche si sono salvate superando la crisi di quel periodo di violenza politica, è giusto riconoscere il destino di tutte le vittime, chiudere divisioni ideologiche che sembrano catalogarle a seconda del loro credo e sembrano legittimare, da una parte o dall’altra, l’uso della violenza. Il punto di vista morale-umano, un po’ prepolitico, serve a far vedere, che si parli di Valerio Verbano o di Sergio Ramelli, che la democrazia non può tollerare queste morti.
L’articolo di Veltroni è stato subito attaccato duramente da Christian Raimo, prima in alcuni post su Facebook, poi in un articolo pubblicato il 17 febbraio su Jacobin Italia e ancora in altri post. L’attacco di Raimo sembra riportarci, invece, alla logica della contrapposizione secca amico-nemico, rossi-neri, che non chiude mai questa sorta di “guerra civile larvata” e ostacola una piena legittimazione delle istituzioni democratiche. Non a caso un articolo di reazione su Primato Nazionale (organo che non nasconde le sue simpatie neofasciste) riconosce in Raimo un “nemico migliore”, perché “preclude ogni conciliazione” tra “combattenti avversari”. L’illeggibile (politicamente) articolo su Primato Nazionale ci dà però la chiave di volta del problema: “Raimo ci ricorda che Ramelli non è di tutti, non è suo, per esempio. E questo è un bene, per lui e per noi, così come è un bene per entrambi che la memoria di Valerio Verbano sia sua e non nostra”. Invece questa visione è inaccettabile. Io voglio poter dire: Ramelli e Verbano sono morti “miei”, come cittadino di una democrazia ferita. Contestualizzare e comprendere la violenza politica degli anni settanta deve servire per rifiutare la contrapposizione “noi”-“loro” e rendere residuali queste posizioni che si interpretano come sempre in lotta contro le istituzioni democratiche, allargando invece il consenso di chi in quelle istituzioni si riconosce. Per questo è giusto commemorare anche le “vittime di destra” (a partire dall’orrore del rogo di Primavalle).
Quali sono le obiezioni di Raimo contro l’articolo di Veltroni?
Nel primo post c’è un attacco alla persona: è scandaloso che sia un ex dirigente politico a fare questo tipo di analisi, si dice più meno. Ma non viene detto nulla sul contenuto dell’analisi e sul perché sarebbe scandalosa; l’argomento ad personam non ha nessun valore, anzi è del tutto sensato che politici formatisi in quegli anni, coetanei dei giovani che hanno praticato la violenza, riflettano su questa. Poi, in un altro post Raimo ha messo le foto delle commemorazioni della morte di Ramelli fatte ogni anno dai “camerati”, con iconografie e liturgie fasciste. Tutto vero, certo, ma che cosa c’entra? Il fatto che dei gruppetti di neofascisti celebrino ogni anno il “camerata Ramelli” non toglie niente all’obbligo che hanno le istituzioni democratiche di ricordare questa vittima, come le altre, per condannare quella stagione di violenza politica.
Nell’articolo su Jacobin Italia c’è un’analisi più complessa.
Raimo accusa Veltroni di mescolare in un “minestrone indigesto” i recenti ritorni di antisemitismo con le vicende degli anni settanta. È vero che sono fenomeni ben diversi, accomunati solo dall’odio, concetto un po’ generico; ma è un aspetto marginale dell’articolo di Veltroni, e comunque la sfera pubblica democratica si tutela se si cerca di escluderne atteggiamenti violenti di ogni tipo.
Viene poi l’accusa più importante: Veltroni, invece di fare una analisi storica e politica, propone una visione “mielosa, astorica e vischiosamente memorialistica, omologante, in cui esistono solo le vittime, tutte uguali e confuse”; abbiamo già visto perché invece questo non è un problema. Ritorniamoci. Al di là della ricostruzione storica e politica, la democrazia, che esclude la violenza dal confronto politico, deve commemorare le vittime di una violenza politica antidemocratica. Il punto è questo: la violenza politica è antidemocratica per definizione, perché nega il confronto tra parti che si riconoscono legittime, e lo è specificamente quando viene da posizioni che hanno come obbiettivo il rovesciamento violento della democrazia rappresentativa, da qualsiasi parte provengano. Non serve a nulla, come fa Raimo, citare liste di filosofi che hanno denunciato l’abuso della figura della vittima: qui il problema non è ricordare le vittime per trasformarle in santini, ma denunciare, attraverso le loro vicende, la dissociazione autistica tra idea e persona che ha generato quella violenza. Quella dissociazione per cui posso uccidere una persona perché rappresenta una certa ideologia, che io combatto, e non vedo in quella persona la sua esistenza concreta, la sua vita, la sua esperienza: non vedo che quando sto “colpendo il nemico” sto, in realtà, solo uccidendo una persona.
Raimo cerca poi di ricostruire un contesto più ampio. Negli anni settanta, dice, la militanza politica è ovunque, e la violenza politica fa parte della militanza. È “un’età trasfigurata dalla militanza anche violenta, [in cui] c’erano milioni di persone che pensavano di poter trasformare la realtà attraverso una rivoluzione (accadeva in altri paesi) o di difendersi dalla violenza dello Stato (era un’ipotesi che in altri paesi – di fatto tutto il mondo mediterraneo e latino – portava a dittature feroci)”. Questo è il contesto di cui si dovrebbe tenere conto, secondo Raimo, per spiegare il fenomeno della violenza politica e collocare nella giusta prospettiva quella di sinistra e quella di destra. Come dire: l’aspirazione rivoluzionaria delle masse (“milioni di persone”) da una parte e la paura della violenza di Stato (la “strage di Stato”, per intendersi) dall’altra spiegano l’adesione diffusa all’uso della violenza nella militanza di sinistra. Raimo, ovviamente, chiarisce che spiegare non significa giustificare. Certo, va bene. Ma questo tipo di analisi serve a leggere la violenza di sinistra come una sorta di reazione “necessaria”, dovuta alle “circostanze” (la stessa teoria delle “circostanze” che giustifica il terrore giacobino nella interpretazione marxista della Rivoluzione francese), collocando invece la violenza di destra proprio tra quelle circostanze. Insomma, è la divisione tra il bene e il male (anche se il bene, certo, ha esagerato nell’usare la violenza), tra “noi” e “loro”. È quella perfetta dinamica amico-nemico che alimenta all’infinito una specie di guerra civile larvata e la delegittimazione delle istituzioni democratiche, e che piace tanto, non a caso, agli stessi neofascisti. Tutta questa analisi andrebbe rivista, da due punti di vista: storico, per vedere se quella militanza va davvero letta con queste lenti (non mi pronuncio, non ne ho le competenze); filosofico-politico, per mostrare che tanto quel tipo di progetto rivoluzionario quanto la risposta violenta alla presunta “violenza di Stato” non sono lo sviluppo delle “forze veramente democratiche” ma sono la delegittimazione della democrazia rappresentativa e quindi la sua morte. La democrazia sopravvive e si rafforza con il lavoro umile nelle istituzioni e nello stato di diritto, con la sua costruzione lenta e faticosa, riconoscendo tutti gli interessi in gioco. Con la mediazione e soluzione di questi conflitti nelle istituzioni e nel difficile rapporto tra movimenti e istituzioni, non nelle fughe in avanti palingenetiche. La “moneta spicciola” della democrazia, dice Habermas. Per questo la democrazia non si riconosce nella “militanza politica anche violenta”, ma preferisce fare la figura della babbiona, un po’ buonista, rifiutare la violenza, cercare il dialogo, seguire la via delle leggi e del riconoscimento tra eguali; e preferisce quindi piangere le vittime di ogni parte, tutte le vittime, perché in questa violenza politica vede solo un deragliamento della convivenza civile.
Ecco perché non convince, e serve a poco, anche il seguito dell’analisi di Raimo, che cerca di mostrare come le vittime neofasciste siano state un po’, cinicamente, costruite dal movimento neofascista stesso, per darsi una nobiltà “rivoluzionaria” e “di popolo”, dopo che l’MSI si era compromesso troppo come partito dell’ordine, avvicinandosi alla DC e all’atlantismo. Una ricostruzione interessante, che altri potranno verificare o confutare. Però anch’essa va nel senso di dire: le masse rivoluzionarie sono di sinistra, e poiché sono masse e il sistema è oppressivo purtroppo è un po’ inevitabile che ci sia anche la violenza; gli altri sono solo una infima minoranza di fanatici asserviti al sistema, e manipolati da capi politici cinici. Anche questa lettura serve a dividere i caduti di qua e di là, e a non riconoscere come un dovere della democrazia, morale e politico, il ricordo anche dei morti “di destra”.
(Firenze, 19 febbraio 2020)
[Immagine: Scontri politici negli anni Settanta].
Tutto vero, tutto giusto. Domando però a Mauro Piras come debba comportarsi, che so uno come me, che andrebbe volentieri a una conferenza nella propria città sulla foibe, solo che nell’ordine succede che: l’amministrazione della propria città decide di trasformare la Giornata delle memoria in una celebrazione minore scoprendo la lapide di una deportata ma non facendo le consuete celebrazioni, associate arbitrariamente al Giorno del ricordo, sovrapponendo i due eventi sotto l’insegna del “i morti son tutti uguali” e cercando di far passare per ideologizzati di parte quanti ricordano la specificità della Shoah; nel consiglio comunale, tra le fila della maggioranza, siede un personaggio che via tweet inneggia alla X mas, che “combatteva per onore e senso di patria e non per vendetta come i partigiani”, personaggio che resta tuttora al proprio posto; l’amministrazione della propria città patrocina una conferenza nel Giorno del ricordo, per valutare la serietà della quale non ho strumenti ma che non ho motivo però di mettere in dubbio, contestualmente alla marcia “per i martiti” di Fratelli d’Italia e Casa Pound. Di qui la difficoltà di uno come me ad andare a quella conferenza.
Che deve fare un democratico amante delle istituzioni? Fingere di non vedere che ad essere tendenziose e morbidissime con i neofascisti sono le istituzioni stesse? Facciamo finta di non vedere i rapporti di forza politica perché la nostra colazione democratica ci va di traverso?
Quell’omicidio politico è l’esempio di un’aberrante conseguenza del fanatismo ideologico molto presente in quegli anni.
Spero sempre di riuscire a contribuire a cancellare quel modo stupido e disumano di interpretare l’attivismo politico.Ancora oggi ci sono molte difficoltà. E’ come se la Memoria giocasse brutti scherzi. Spero sempre che rimangano impressi momenti diversi e migliori di battaglie civili e progressiste per la libertà e la democrazia.
Parlare con il nemico è sempre complicato; ma è un metodo fondamentale per la costruzione di una nuova umanità del futuro.
«[…] la democrazia, che esclude la violenza dal confronto politico, deve commemorare le vittime di una violenza politica antidemocratica».
@Mauro Piras: credo che, senza l’inciso, forse la frase sarebbe potuta anche passare. In una ipotetica democrazia, cioè, non campita su disgrazie terribili, dove il confronto non-violento non fosse solamente la facciata, e devo dire ormai piuttosto diroccata, di una violenza più grande, efferata, omicida e connaturata nel gesto stesso attraverso cui si istituisce, si afferma e si legittima.
L’enunciato, dunque, non è né vero né falso.
Non intendo, con questo, osannare sparatorie e agguati. Non intendo nemmeno, per forza, condannare senza appello questa democrazia, se non altro perché ci vivo.
Mi chiedo solamente fino a quale soglia etica un gesto, anche tragico, anche nefasto – ma che rende *visibile* l’intensità di un conflitto *reale* (mi riferisco, a scanso di equivoci, allo scontro corpo a corpo tra militanti della sinistra extraparlamentare e militanti fascisti negli anni ’70) – possa venire assunto nel corpo democratico senza secondi fini. Senza cioè lo scopo di invisibilizzarlo, pacificarlo, metterlo per sempre a tacere. Perché, se la violenza non ha fine finché non ha fine la Gewalt (che è poi anche “potere”), mi sembra che qui sia in gioco più una memoria di lunga durata che l’effettivo verificarsi di situazioni siffatte – e per situazioni siffatte intendo proprio gli “omicidi politici”. Potremmo argomentare, ad esempio, che i morti oggi muoiono non più “qui”, ma a qualche lega da noi; che non sono vittime della violenza ideologica, ma della sua paventata fine (anche questa, direi, politica). Assistiamo oggi alla prosecuzione ideale di quella stagione nei CPR e sui barconi.
Dei morti e degli internati che restano, in quel recente passato, “nostri” (e anche su questo termine occorrerebbe riflettere) bisognerebbe allora fare un discorso meno giocato sulla contrapposizione inclusione/esclusione da un canone, bensì più descrittivo e direi storiografico.
Mi sembra, ad ogni modo, che quanto verificatosi nel ‘900 (e i modi in cui è penetrato nell’immaginario) sia troppo da elaborare per la memoria storica di una, due, tre generazioni solamente. Questo caos è del tutto normale.
D’accordissimo, quando @Claudio Foresti propone di “cancellare quel modo stupido e disumano di interpretare l’attivismo politico”. Ma, ecco, è un corpo, quello democratico, che tenta, con quelli degli altri, di coprire soprattutto i propri misfatti (leggi: i “suoi” morti). Questo credo possiamo ammetterlo, con abbondanza di virgole. Come possiamo ammettere che, per altri versi, tutto voglia fuorché l’oblio. Pensiamo all’amnistia, o allo spauracchio degli anni di piombo sbandierato per giustificare qualsiasi ricorso a legislazioni speciali e di emergenza. Dobbiamo allora ammettere che da un lato si tenta di ottundere i sensi, e che dall’altro storia passata e storia presente sono divenuti indiscernibili. Che il problema, insomma, è che ciò che è successo negli anni Settanta – e che dovrebbe essere oggetto di memoria e di indagine storica – viene trattato come un problema politico presente.
Mi sembra piuttosto contraddittorio.
Meglio @Piras invece quando afferma che:
«le istituzioni democratiche si sono salvate superando la crisi di quel periodo di violenza politica, è giusto riconoscere il destino di tutte le vittime».
È vero, alla lettera, fino a prova contraria: Weltgeschichte Ist Weltgericht. Chi vince piglia tutto e piange chi vuole.
Ma solo a patto di ammettere che questa conciliazione e questo «destino» non valgono di per sé, ma sono piuttosto il prezzo imposto dai trattati di pace siglati col nemico. Il nemico di una guerra civile. Un nemico che non ha smesso di vincere.
Ecco, credo, il punto: da queste righe si evince che, nella stagione di violenza che mise in crisi le istituzioni democratiche – che le «ferì», insomma – le vere vittime siano loro, e non i morti. Ma le istituzioni democratiche non si sono salvate, come si salva un fuggiasco o una vittima toccata dalla grazia.
Le istituzioni democratiche hanno vinto come si vince un conflitto.
E Veltroni e Raimo, per quanto agli antipodi di questa tenzone ideologica, tentano sotto ogni altro aspetto un’operazione simile. L’uno “sdolcinando”, l’altro rifiutando una conciliazione, agiscono tuttavia al solo scopo di integrare. L’immagine, insomma, a cui vorrebbero corrispondesse il loro pensiero, è quella della politica istituzionale. Della democrazia italiana. Possiamo capire Veltroni; Raimo, invece, potrebbe indirizzare meglio i suoi anatemi.
Si tratta, ancora una volta, non di una riflessione, ma di un tentativo di sopraffazione ideologica in seno al corpo democratico. Un tempo si sarebbe detto di “linea”, o di “corrente”. Con la differenza che, nonostante tutto (e questo tutto è veramente tanto) Veltroni ha, in una prospettiva di legittimazione istituzionale, più peso di Raimo – che, pur desiderando un altro modo, non riesce a pensare un altro mondo; che, pur tentando di esplicitare, con le sue parole, una situazione concreta, un conflitto tutt’altro che latente (@Daniele Lo Vetere: quello che dici è letteralmente la realtà sotto gli occhi di tutti, sia detto senza patetismi o vittimismi: è l’aria (di cappucci) che tira), non può che renderlo simbolicamente all’altare di una patria, di una legittimità istituzionale.
“Oh voi quasi gli stessi/ voi sempre troppo figli […]” tuonava Franco Fortini sulla occupazioni del ’77…
Nessuna volontà di scontro, come vedete. Vorrei solo assumessimo i termini del dibattito per ciò che *realmente* significano – ovvero: per ciò a cui *adesso*, benché ormai indefinitivamente interpretabili, materialmente rinviano.
Non sono per niente d’accordo con questa posizione demo-irenica che vuole porre, in modo completamente astorico, al di sopra dei fatti, una inesistente democrazia “che preferisce fare la figura della babbiona, un po’ buonista, rifiutare la violenza, cercare il dialogo, seguire la via delle leggi e del riconoscimento tra eguali”. Perché – e questi sono i fatti – una cosa del genere non esisteva allora e non esiste adesso: non ci fu e non c’è nessun riconoscimento tra eguali, prima di tutto – e anzi, il tentativo fu, con la palese e accertata connivenza delle istituzioni che dovevano garantire la convivenza civile, di arretrare quello che si riuscì a conquistare in fatto di libertà civili e diritti sociali; non c’è e non ci fu nessuna ricerca del dialogo, ma anzi il tentativo di riaffermare una visione della società gerarchica e, se ci fossero riusciti, autoritaria; in quanto alle leggi.. erano leggi anche quelle razziali del 1938: non si può non contestualizzare un qualsiasi ragionamento sulle leggi. Al netto dell’affermazione che ogni azione squadristica – e la morte di quel ragazzo fu una cosa del genere – è una cosa infame, vigliacca e criminale, ha ragione Raimo a inscrivere in una dimensione mitopoietica questa santificazione fascista delle “loro” vittime: “i funerali di Ramelli furono la prima occasione per una strategia mitopoietica molto consapevole nel Movimento sociale italiano e nella destra neofascista tutta [..]”. Questa bieca operazione del sangue dei vinti sta andando avanti da troppo tempo, con il risultato (sempre più palpabile nel sentire comune del paese) che, nella nera notte della guerra civile in cui nessuno aveva ragione ma neanche assolutamente torto, si stanno attuando disgustose operazioni di revisione storica sulle responsabilità criminali fasciste qui in Italia, nei Balcani, per non parlare dell’Africa. Si potrebbe dire molto sul perché in questa fase del contrattacco neoliberale ci sia questo rinascere di sentimenti identitari e nazionalisti che in paesi come l’Italia risuonano sinistramente con il rialzare della testa del fascismo. Come si potrebbe dire qualcosa su questa “voglia”, da parte di ex-comunisti (tutti pentiti nel profondo di essere stati comunisti, seppure all’acqua di rose: Veltroni sicuramente, ma Violante non gli è per niente secondo) di sdoganare ciò che, quando ne fu il tempo giusto, avrebbe dovuto essere soggetto a un’approfondita operazione di de-fascistizzazione (senza amnistie, con buona pace del Migliore) e a una vera resa dei conti giudiziaria. E che purtroppo non fu fatto. E ciò che successe dopo (anche in quei “maledetti” anni ’70) ne fu la conseguenza.
“Questa storia non è la stessa della militanza neofascista, non è nemmeno lontanamente assimilabile, come fa Veltroni nel suo articolo”, dice Raimo, e non solo quella di quegli anni, dico io: soprattutto quella che viene rubricata sotto il titolo di Resistenza. Perché è evidente che l’obiettivo è, in definitiva, quello di screditare quella pagina della storia patria, con tutte le sue contraddizioni certo, ma che è forse l’unica che può pretendere a un qualche titolo di nobiltà dall’Unità a questa parte. Piegarsi a operazioni del genere da parte di politici di sinistra (seppure, nel loro caso, abbia ancora senso parlare di sinistra) significa solo recitare la parte dell’utile idiota.
Forse giova ricordare che a quel tempo furono proprio le “istituzioni democratiche”, o comunque parti cospicue di esse, ad alimentare la “strategia della tensione” e la “conventio ad escludendum”. Ministri, magistrati, politici, appartenenti ai servizi segreti, militari di ogni grado, poliziotti, industriali e amministratori furono, insieme, pedine e mandanti di un disegno volto a impedire che la democrazia si dispiegasse in modo a loro sgradito (i comunisti al governo), non esitando a usare i neofascisti come manovalanza. Le stesse “istituzioni democratiche” non esitarono ad avvallare e gestire un’organizzazione paramilitare (Gladio) che aveva scopi tutt’altro che democratici. La divisione tra il “noi” e il “loro” è contestuale a queste dinamiche. C’era chi operava concretamente per impedire un dispiegamento in senso egualitario della democrazia e c’era chi, anche confusamente, anche estremisticamente, voleva evitare la deriva “greca” della società italiana. Paradossalmente, in quegli anni difendere la democrazia voleva dire essere contro una parte delle istituzioni democratiche. E quindi: no, non tutte le morti sono uguali; e si può benissimo scegliere di non «piangere tutte le vittime» e lo si può fare proprio in nome della democrazia.
Nel frattempo Christian Raimo ha pubblicato una risposta, la segnalo e lo ringrazio:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/sulluso-pubblico-della-storia-proposito-un-articolo-walter-veltroni-sergio-ramelli-un-altro-mauro-piras/
“Tutta questa analisi andrebbe rivista, da due punti di vista: storico, per vedere se quella militanza va davvero letta con queste lenti (non mi pronuncio, non ne ho le competenze); filosofico-politico, per mostrare che tanto quel tipo di progetto rivoluzionario quanto la risposta violenta alla presunta “violenza di Stato” non sono lo sviluppo delle “forze veramente democratiche” ma sono la delegittimazione della democrazia rappresentativa e quindi la sua morte.”
No, quell’analisi è sbagliata. Il terrorismo politico di sinistra ha creduto di essere la prosecuzione del Risorgimento e della Resistenza, ma era invece terrorismo e basta, accomunabile al terrorismo odierno islamico. Tanto è vero che gli stessi analisti come Raimo tendono a inquadra-re entrambi sotto il cappello della lotta di classe anti-imperialista. Ma si scordano o non vedono o non capiscono che i brigatisti di allora non si sono limitati ad ammazzare i fascisti, ma hanno anche ammazzato gente qualunque e rappresentanti dello Stato. Hanno cioè fatto in piccolo ciò che i regimi comunisti hanno fatto in grande, trasformando i dissidenti in nemici da eliminare. E i fanatici islamici di oggi fanno lo stesso, non si limitano ad ammazzare i nemici occidentali, ammazzano pure altri islamici.
Commemorare un morto è legittimo sul piano umano. Commemorare pubblicamente chi è caduto in un conflitto politico significa dare implicitamente un giudizio politico su quel conflitto – non con la distanza remota dello storico che valuta la Guerra delle Due Rose, cioè, ma con la distanza ravvicinata di chi è ancora coinvolto negli esiti di quella lotta. Commemorare indistintamente i caduti della parte vincente e di quella perdente significa affermare la propria neutralità rispetto al conflitto stesso.
Un dato di fatto è che la democrazia italiana – comunque intesa, quella dell’Italia liberale e monarchica così come quella repubblicana – è estranea e avversa al fascismo. Si deve riconoscere legittimità democratica alla parte politica che si ispira al fascismo solo perché la democrazia, che il fascismo ha prima rovesciato e poi continuato a combattere, è uscita infine vincente dal conflitto? In “Lamento sterile su Piazza Fontana” (“Le parole e le cose”, 16 dicembre 2019) Piras afferma: “tutte le parti dovrebbero riconoscersi legittimità democratica, e da lì ragionare sulla storia della Repubblica (…) La lunga guerra civile iniziata nel primo dopoguerra (1919-22), proseguita nel conflitto fascismo-antifascismo, esplosa nella guerra partigiana contro il nazifascismo, e proseguita larvatamente fino agli inizi degli anni ottanta, è finita.” A quanto pare è finita con la democrazia italiana che si proclama neutrale rispetto alla propria genesi e alla propria stessa natura democratica e dunque necessariamente anti-fascista: né fascista né anti-fascista, senza un’origine e una storia, ovvero una democrazia senza identità politica, una istituzione puramente amministrativa, come del resto vuole lo spirito dei tempi. Oppure una democrazia che riconosce, ipocritamente, “legittimità democratica” a chi ha cercato di rovesciarla e però ora ne è attore riconosciuto e parte in gioco.
A me pare che ricordare oggi la morte di una fascista – ricordarla in quanto fascista – sia semplicemente specchio dei rapporti di forza attuali. Non rappresenti affatto una olimpica superiorità né una distanza, la fine di un conflitto lontano – fine che si potrebbe certificare se nessuno venisse più ricordato, perché a nessuno importa di quel che è stato – ma l’opportunità di omaggiare una parte politica che non si può ignorare né escludere, con cui occorre patteggiare. Quello di Veltroni e del “Corriere” è un atto politico. Necessario forse, cinico sicuramente, in nessun modo lodevole.
“ Mercoledì 19 febbraio 2020 – Una volta, tanti anni fa, quando credevo ancora di poter essere « spiritoso », scrissi nel mio diario: « Martedì 18 maggio 1999 – “ Perché non hai fatto il terrorista? “ “ Perché non sparavano a quelli giusti “. ». Il fatto è che, ormai l’ho capito, chi spara sa sempre a chi sparare, anche se, qualche volta, la mira gli fa difetto. E chi non lo sa, tanto peggio per lui. Finirà sparato. Come me. “.
A proposito di ” sparare “: “ 6 marzo 1995 – Stamani sentendo l’altoparlante della caserma di fronte gracchiare l’inno di Mameli ho ripensato agli anni Cinquanta. C’erano molti militari negli anni Cinquanta. Militari erano molti dei padri dei miei amici. Anche il babbo lavorava come impiegato civile alla caserma Lamarmora. Quando lo accompagnavo mi faceva vedere come salutare la sentinella, con un piccolo cenno della testa, dato che noi eravamo civili. Il rituale mi piaceva, mi sembrava un bel gioco. Mi piaceva anche il « percorso di guerra », quella serie di salti strisciamenti rotolamenti che i soldati dovevano fare per addestramento. Mi piacevano anche le sigle. C.A.R.: Centro Addestramento Reclute. Dei militari ricordo solo che alcuni erano simpatici. Dato che avevo sparato benissimo al Luna Park, mi fecero avere un diploma di « tiratore scelto » di cui andai orgogliosissimo e che devo avere ancora da qualche parte. Allora pensavo che quando avrei fatto il militare mi sarei divertito. Poi non l’ho fatto, ma per altre ragioni. “.
A proposito di ” sparare ” 2: “ Lunedì 22 settembre 1997 – Oggi ho indossato quella cosa che indossano tutti, quella specie di gilet, con moltissime tasche, senza ombra di maniche, senza traccia di colletto, di stoffa grezza, un po’ sportivo, un po’ militare, non so come si chiami, lo chiamerò: il giubbetto. È quello che un tempo portavano i cacciatori o i pescatori – con le taschette per le cartucce, per gli ami, le sigarette, i vermi – e certamente lo portano ancora, perché cacciatori e pescatori – della domenica – ci sono ancora. Per sport. Ma chi in realtà lo indossa, anche dove non ci sono né boschi né fiumi ma solo la città perennemente ingorgata rumorosa sporca, è quella nuova specie di uomini che, da qualche tempo, è sempre più numerosa, misteriosamente moltiplicata dalla moda cioè dallo spirito di imitazione: i fotografi. Che, come è noto, è una specie di caccia, anche grossa – si dice anche: « safari fotografico » -, e il fotografo è una specie di cacciatore, che spara – to shoot – a tutto ciò che si muove, e torna a casa con il carniere pieno – o vuoto -, e si serve di un cane, per far muovere ciò a cui vuole sparare. Per sport. E su questo tipo di caccia non c’è nessuna polemica, non c’è nessun ddibbattito. E non ci vuole nemmeno la licenza. E si può sparare dovunque, tutto l’anno. Anche le donne. Anche i bambini. Soprattutto i bambini. “.
A proposito di ” sparare ” 3: “ Giovedì 13 aprile 2006 – Poi, quando accendo la tv, ci sono Paul Newman e Robert Redford che, lo so benissimo, stanno per uscire fuori. « Dobbiamo procurarci altri due cavalli, i nostri sono morti », dice Redford. Poi escono e, ovviamente, gli sparano. Però, a guardare meglio, si vede solo che li fotografano – to shoot etc. Ne deduco che questo è il vizio – oppure la gloria – del cinema: di fare tutto solo per modo di dire: uscire, morire etc. Tanto peggio per chi non lo sa. Per chi esce, per chi muore davvero. (Butch Cassidy, George Roy Hill, 1969) “.
Veltroni e Raimo = zero a zero.
Ci salva, per così dire, dallo sterile dibattito ciò che scrisse nel Cinquecento il teologo protestante Sebastiano Castellione: “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina: è solo uccidere un uomo”.
Caro Pier,
grazie per avere riportato questa citazione di Castellion, che avevo ripreso a mio modo nel mio articolo.
Il fondamento della mia analisi – forse da vecchio liberale – è proprio quel principio; purtroppo, a quanto pare, dal 1554 a oggi è ancora difficile farlo comprendere.
Ma non è zero a zero non è così
Forse lei M. Piras dovrebbe rispondere a D. Lo Vetere
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 1
*
Forse il tempo del sangue…
(1958)
*
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 2
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Lo so bene. Anche chi (o forse: soprattutto chi) sfruttamento, sopruso, violenza, oppressione di classe subisce da sempre, replicherebbe che, meno storie, è orribile e mostruoso (e quasi sempre inutile) ammazzare il prossimo, foss’anche un nemico. Ma tale sacrosanta affermazione procede, non è inutile ricordarlo, da un insegnamento religioso prima che da uno «umanistico». Un insegnamento che ebbe ed ha una sua precisa e complessa sistemazione (sottratta o laterale al potere e al sapere «civile») dei rapporti fra colpa originaria, natura vulnerata, confessione, pentimento, assoluzione, redenzione, divina promessa. Nel cristiano, il raccapriccio per l’assassinio, ha o dovrebbe avere, un fondamento che la tradizione umanistica e illuministica (kantiana, per intenderci) ha ereditato, mal celandone tuttavia l’origine, che è nella trascendenza; onde ha subito un secolo di critiche, da Marx a Nietzsche e a Freud e oltre e fino a noi, che non possiamo fingere inesistite. Ebbene, chiedere ai dissociati di riconoscere che la democrazia è un valore assoluto non è molto diverso dal chiedere loro il «giuramento» proposto dal ministro della Giustizia o certe dichiarazioni o firme antiterroristiche che furono domandate o proposte qualche anno fa nell’ambito sindacale e di fabbrica. Con una differenza grandissima: che il cattolico collega coerentemente morale, religione e diritto e rimanda al Vangelo e alla dottrina della chiesa; mentre il comunista italiano di oggi si è preclusa la possibilità di rinviare non solo ai testi e ai metodi marxisti ma persino a tutta una arte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia. Su questi argomenti Hegel, Marx e Lenin avevano opinioni assai diverse da quelle di Locke, Stuart Mill o Bobbio o, diciamo, dai teorici del costituzionalismo liberale. Onde la posizione che si può inferire dall’atteggiamento politico dei comunisti in materia di legislazione speciale e di «dissociati» oscilla fra l’idea di «stato etico» o di «legalità socialista» (varianti dello stato confessionale) e quella di stato «di diritto», fondato su di un patto sociale, sul diritto scritto, le «carte», la forma giuridica. Oggi questa seconda tendenza può sembrare a molti indispensabile per uscire da posizioni che altrimenti – ci insegnano anche i peggiori nouveaux philosophes – ci dovrebbero portare difilato ai gulag. Ma credo di aver passato lo scorso trentennio, lo confesso senza pentimento, a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno. Da costoro ho appreso che non si oltrepassano i criteri giuridici della società illuministico-borghese – con le sue guerre, ben peggiori dei gulag – senza una modificazione radicale dei rapporti di produzione e di proprietà. Tale modificazione induceva quelle introdotte nel processo penale, della Russia anni Venti, poi degenerate nella inquisizione ideologica stalinista: vi assumevano ruolo primario l’indagine sociale sull’imputato, la «legalità socialista», la confessione, l’autocritica. Non credo certo che per uscire dalla legalità borghese si debba ripercorrere necessariamente quel cammino. Ma quella direzione, sì. E se tali prospettive marxiste le consideriamo solo invecchiate, assurde, sporche di sangue e generatrici di intolleranza, di corruzione burocratica e di ospedali psichiatrici per dissidenti, benissimo, si torni allora allo stato di stretto «diritto»; ma vi si torni davvero, se mai è esistito, e ci si risparmino allora le leggi eccezionali, le «perdonanze» e i sermoni sul «bene comune»
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(F. Fortini, Insistenze pp.223-224, Garzanti, Milano 1985)
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 3
“Una memoria storica “condivisa” sarà possibile solo quando avremo riconosciuto queste colpe, smettendo di considerarci solo “brava gente” o, peggio ancora, vittime di presunte pulizie etniche. ” (XY in un post su Face book)
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Samizdat:
E’, con tutto il rispetto, una pia illusione che si possa arrivare ad una “memoria condivisa” con un po’ di autocritica (anche sincera) o con un “lavaggio” della propria coscienza. Prima di tutto l’autocritica la fanno (quando la fanno!) al massimo i discendenti dei fascisti o dei nazisti o dei comunisti (staliniani) o degli sterminatori (cattolicissimi) degli indios o dei pellirosse o dei bombardatori con l’atomica di Hiroshima e Nagasaki. Mai (o quasi mai) gli autori diretti dei genocidi, delle stragi, degli stermini. E poi come si fa ad ottenere da queste “operazioni di coscienza” una vera “memoria condivisa”, se le cause che hanno prodotto (e producono!) stragi non sono rimosse? Non si scappa dall’aut aut che la storia impone agli uomini (anche di buon a volontà): “far torto o patirlo” diceva Manzoni, che se ne intendeva.
A sinistra siamo cresciuti inneggiando Mao che diceva “non tagliate le teste che non ricrescono come i cavoli”, Quindi culturalmente le morti per violenza “politica “ sono sbagliate di qualsiasi colore esse siano. Condannare è un obbligo, commemorare dipende. Dipende perché se sono sbagliate non vuol dire che sono uguali. Vanno contestualizzate e analizzate, Di certo gli anni di piombo hanno fatto più danni alla sinistra che tutti gli scempi che si sono susseguiti sulla sua gestione da dopo Berlinguer ad oggi nessuno escluso. Non si discute sull’ovvietà delle cose dette nell’articolo di Veltroni ma sugli eventuali effetti che potrebbe produrre.
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 4
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VIOLENZA E NON VIOLENZA
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Negli anni scorsi siamo stati non molti a chiederei e a chiedere di non accettare il rifiuto della memoria, che ci veniva rivolto e proposto dalla cultura dell’ultimo decennio. Ma la memoria non è ricordo di fatti, di episodi e neanche documentazione di clima, di temperie, di contesti come ho sentito ancora oggi da molti ripetere; memoria è soprattutto giudizio storico ed è giudizio storico quello che fa capire ciò che abbiamo davanti e non soltanto quello che abbiamo alle spalle. Quando sento i discorsi di molti che vorrebbero che si tornasse soprattutto a rammentare che cosa accadeva, e come le cose erano accadute dieci o quindici anni fa e quando ci si chiede di farlo perché possa illuminare meglio i giudizi dei giudici e perché aiuti a giudicare noi stessi, io, perché non dirlo, mi sento avvilito e spaventato e misuro la rovina che la cultura reazionaria ha provocato in questi anni intorno e dentro di noi.
Accettare di ricostruire i contesti psicologici e politici, certo si può e si deve, ma è un tipo di ricostruzione che oggi si desttaina alle aule dei tribunali per quelle che si chiamano, ad esempio, le circostanze aggravanti o attenuanti. Mi guardo bene dal negarne l’utilità o persino la necessità; ma questo vuol dire, in definitiva, accettare oggi il terreno scelto da chi detiene il potere cioè, nel nostro caso, il terreno giudiziario. Noi non possiamo, non dobbiamo, negarlo o respingerlo, ma dobbiamo conoscerne i limiti perché altro, ben altro, è il giudizio storico e politico che dobbiamo dare.
Analogamente, ascolto un po’ avvilito e un po’ spaventato molti giovani che accettano di porre le questioni e i giudizi in termini di moralità, o parlano di gradi dell’autodifesa, o di aggressione, o di risposta alla violenza, o di violenze di grado A, di grado B o di grado C, quasi che le differenze consistessero nella intensità con la quale viene vibrato un colpo sulla testa dell’avversario. È come se da dieci anni nessuno avesse più riflettuto seriamente sul luogo che la violenza occupa nella storia e nella vita umana. Quale è stato studiato e teorizzato dai maestri stessi della nostra cultura moderna, conservatori o rivoluzionari che fossero, da Machiavelli a Freud: è come se ormai fosse stata accettata l’idiota e inaccettabile equiparazione, di democrazia e di non violenza.
Ridotti a questo livello puerile di riflessione, incapaci di capire quali processi contraddittori, e perché non dirlo (usiamo una parola demonizzata) dialettici, passino fra comportamento etico, comportamento giuridico e comportamento politico; desiderosi solo di sottrarci alla tragicità dell’azione che sempre, anche quando non è violenta, comporta un rapporto di potere, di subordinazione, di manipolazione, in definitiva un rapporto di forza, noi ci consegniamo altrimenti prigionieri ai sofismi infami di chi il potere lo esercita davvero, di chi non fa violenza perché *è* violenza.
Torno a dire che non saremo capaci di giudizio storico fino a quando non avremo compiute alcune scelte fondamentali che non sono solo di programmi, ma di strumenti per realizzarli.
Nel periodo che va dal’ 63 al ’73 si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel ventennio successivo alla fine della guerra. La classe politica dominante, quindi anche buona parte della classe politica della sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali e illegali: dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai normali metodi polizieschi italiani e imperiali e ai normali metodi politici. Ciò nonostante la spinta fu così forte da determinare alcune fondamentali vittorie civili e da accettare di confluire nel ’76 in un voto di fiducia delle giovani generazioni al maggiore partito della sinistra storica.
La risposta è stata per un verso il terrorismo senza disegno politico, la degenerazione intellettuale e morale, la diffusione del cinismo e della droga, la politica di unità nazionale, la legislazione speciale, le stragi, i poteri occulti. A questo punto, chi condivida anche solo per sommi capi questo schema non può accettare di limitare il discorso a questa o quella puntualizzazione storica. Capire indietro vuol dire capire avanti, avere dei reali progetti politici, avere la pazienza di spiegarli; mi rifiuto di rispondere a chi mi chieda di dare una valutazione morale di questo o di quel comportamento, perché l’esecrazione non è un giudizio né politico, né morale, è un atto di propaganda.
A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin «che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi».
Questa è la situazione tragica dell’ esistenza umana: essere uomini significa *questo*. Chi *non* vuoI vedere, chi vuole consolarsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana. Il patto sociale che ci sottopone alla legge non fa che trasferire altrove, che scaricare altrove i conflitti che noi regoliamo secondo i fatti costituzionali e i codici. Li trasferisce altrove là dove la legge non è uguale per tutti perché è legge o di salario o di privilegio.
Se dunque cosi è, i nostri discorsi varranno solo se, oltre ad ,avere ragione, avremo la forza per farla valere; questa forza non sta nei muscoli né nelle armi, è la forza del progetto, dell’impegno e della milizia politica. Ora, un’altra generazione è venuta in questi anni, un’altra Europa prende sempre maggiore coscienza della distruzione delle ragioni elementari di vita che è stata e che viene compiuta dalla cultura della massificazione e insieme del privilegio, dalla disoccupazione, dalla insensatezza, dal permissivismo e dalla mercificazione. Un’altra generazione ancora giovane sta diventando adulta e presto vecchia e presto finita.
Si può supporre che in forme contraddittorie e cifrate questa nuova Europa ancora poco visibile stia prendendo volto. I nostri cani da guardia sanno bene quello che fanno, sanno che debbono prevenire, prevenire provocando, vogliono, – guardate la Germania e forse la Gran Bretagna – vogliono che il dissenso e la contestazione che si va generando oggi, si scopra e si consegni alle schedature, alle bastonature e ai ghetti. Noi non dobbiamo qui ed ora deplorare la violenza a parole e neanche accettare di farne qui e ora dibattito teorico o filosofico.
Oggi dobbiamo con durezza rifiutarci a qualsiasi comportamento violento perché la squadra dei provocatori vuole soltanto che il nostro linguaggio ripeta in modo monotono, «fascismo, antifascismo», quello dei padri, dei nonni e dei bisnonni. In Germania, cosi mi è occorso di leggere nei giorni scorsi, le perpetue e vistosamente adolescenziali dissidenze estremizzanti sono accuratamente schedate dalla polizia e qualcosa di simile mi risulta succede anche qui, fra noi. Però credo all’intelligenza e alla preveggenza dei nostri agenti di polizia, credo alle capacità tecniche degli strumenti di repressione nazionali, europei o sovranazionali; credo comunque che sia meglio per tutti sopravvalutarle.
Quando un paese ha tre milioni di disoccupati e una cosi manifesta volontà politica di farla finita con lo stato sociale, se pur è mai esistito, è lecito supporre che si possano determinare delle tensioni e delle frizioni. Ebbene, sino a quando non siamo in condizioni di avere organizzazione e progetto con senso tendenziale e disegno dell’avvenire, non ci si illuda che questo possa nascere da sé da qualche ginnastica che ripeta quello che è già fallito venti, quindici e dieci anni fa. Il mio consiglio quindi, valga quello che valga, è di una massima intransigenza con se stessi per quanto è della lettura del passato e della conoscenza del presente, come anche per quanto è della distruzione dell’illusione che le Costituzioni e i Parlamenti fondino convivenze armoniose e giuste che non sono mai esistite.
Ma nel medesimo tempo e proprio per le stesse ragioni, il mio intervento si conclude col rifiuto di abbandonare
ora e nell’immediato futuro il terreno della legalità repubblicana, di cedere alla provocazione da qualunque parte venga.
La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, è quella di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti, deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e a praticare non perché si sia, o almeno non perché io sia un non-violento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.
1985
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(Da F. Fortini, in “Democrazia Proletaria”, ottopre 1985; poi in “Non solo oggi. Cinquantanove voci”, pagg. 301- 305, Editori Riuniti, Roma 1991)
Ringrazio per la risposta di Adriano Barra, felice di essere stato utile.
Riporto da Facebook un commento di Matteo Bortolini:
Il punto che dimentichi è che interventi come quelli di Veltroni servono in realtà a creare una equivoco gigantesco, e cioè che le “persone” che sono morte siano morte indipendentemente dal fatto che appartenessero a una parte politica che, potendo farlo (e quando ha potuto farlo lo ha fatto) ha esattamente distrutto quella democrazia volutamente babbiona che tu difendi. Sembra che queste operazioni di melassa, insieme alle menzogne sulle foibe etc etc. siano davvero solo operazioni in cui si memorializzano “povere vittime”. Sono in realtà operazioni in cui si decontestualizza il singolo dal fascismo, e così facendo si garantisce verginità politica a chi ancora il fascismo lo pratica nel quotidiano e vorrebbe praticarlo istituzionalmente. il che, mi pare di ricordare, sta fuori da quel consesso democratico che tu difendi. Il vero problema—scusa se lo dico così brutalmente—è che negli anni 60 e 70 chi avrebbe dovuto difendere la democrazia stava in gran parte con i fascisti e i golpisti. E ancora oggi chi dovrebbe difendere la democrazia agisce in maniera contraria allo spirito e alla lettera dello Stato di diritto. Mi riferisco, se non si fosse capito, alle forze “dell’ordine”. Se avessimo avuto una polizia e dei carabinieri autenticamente democratici le cose sarebbero andate molto diversamente. E invece dall’amnistia al piano Solo, da Gladio al T4 il filo è molto chiaro—e lega anche il caro La Russa sgomento di fronte agli attacchi ai poliziotti. Parlare in astratto è bello in un seminario, ma diventa inutile, e forse dannoso, quando ci si confronta con la storia.
Riporto da Facebook un commento di Marco Marzano:
Quello che scrivi è ragionevole e condivisibile… io ho trovato, come te credo, l’articolo di Veltroni piuttosto sentimentale e vagamente moralistico, poco utile alla comprensione delle ragioni e delle conseguenze dell’omicidio di Sergio Ramelli.. il che è grave perché, a distanza di quasi cinquant’anni da quei fatti, la condanna per la violenza come metodo di lotta politica è di fatto unanime nel nostro Paese.. quello di cui avremmo bisogno oggi è di capire quello che successe allora, di comprendere il contesto, i motivi, le forme del dispiegarsi di quella violenza.. appunto perché la condanna è generalizzata e unanime (o quasi).. l’errore implicito di alcuni commentatori che attaccano politicamente Veltroni è identico a quello che facevano allora buona parte delle frange più estreme della galassia extraparlamentare: cioè quello di accostare la violenza politica del loro tempo (gli anni Settanta) a quella della lotta partigiana contro il nazifascismo.. un errore tragico.. perché i partigiani combattevano, certo con le armi e certo talvolta mietendo vittime tra le fila nemiche, contro un potere aggressivo e soverchiante, contro un invasore liberticida e sterminatore.. ammazzare per strada a sprangate un ragazzino disarmato di 18 anni senza alcuna colpa se non quella di essere un militante neofascista è un atto vile, insensato e mostruoso.. al quale io non riconosco nessuna valenza “di sinistra”, che mi fa ribrezzo oggi come mi fece ribrezzo allora, alla vigilia dell’inizio della mia militanza figiciotta.. gli assassini di Ramelli nel mio albun di famiglia non li volevo allora e non li voglio oggi
Cerco di rispondere alle critiche.
Direi che girano intorno a queste due idee fondamentali:
1) una Repubblica fondata sull’antifascismo non può commemorare dei fascisti, cioè chi, con i suoi ideali, vuole proprio distruggere quella Repubblica; commemorare dei fascisti significa legittimarli nella politica attuale, dargliela vinta, e così distruggere l’antifascismo e la democrazia (Lo Vetere, Ferrero, Savelli, Davani, Bortolini);
2) le istituzioni democratiche erano, in realtà, antidemocratiche, permeate di forze reazionarie, che non esitavano a mettere in atto strategie golpistiche, conniventi con la violenza fascista, di cui si sono anche servite nelle stragi (Lo Vetere, Vultlarp, Ferrero, Nega, Bortolini).
Ho semplificato un po’ nel sintetizzare, ma credo che ci sia bisogno di chiarirsi le idee per non perdersi. La prima critica porta anche all’osservazione che in realtà la commemorazione dei fascisti, delle foibe ecc. non è frutto di una sincera ricerca della memoria condivisa, ma di “rapporti di forza” in cui i fascisti stanno di nuovo prendendo il sopravvento e occupando le istituzioni (Lo Vetere, e altri).
Parto da quest’ultima idea per dire che denunciare in ogni momento il ritorno del fascismo perché, ovviamente, ci sono dei nostalgici e questi compiono alcuni atti più o meno vistosi, è una semplificazione. L’elettorato che fa vincere le destre in Italia e in Europa non è fascista, se non in piccole frange; la lettura del misto di bisogno di protezione, chiusura identitaria, sovranismo ecc. va fatta, io non ne ho i mezzi, ma mi sembra che vedere ovunque il pericolo fascista ci porti fuori strada.
Vengo alle due critiche fondamentali (presenti anche in filigrana nelle lunghe citazioni di Fortini proposte da Ennio Abate, che però rimandano a una teoria rivoluzionaria molto più ambiziosa e richiederebbero una analisi a parte; noto solo che “l’idiota e inaccettabile equiparazione di democrazia e di non violenza” è una frase veramente irritante, mi schiero felicemente tra gli idioti – Hannah Arendt, Paul Ricoeur, Juergen Habermas ecc. – e mi riservo un’altra volta, con molto più tempo, di confutarla).
1) Una Repubblica democratica e antifascista non può commemorare dei fascisti, certo, quando questi fascisti hanno agito concretamente per distruggerla; ecco perché non può commemorare, io penso, i repubblichini, né certo tutti quelli che, dopo il 1945, hanno compiuto azioni violente contro la democrazia; né chi ha avuto funzioni politiche di rilievo nei movimenti neofascisti. Ma un militante che non ha fatto nulla di violento, che ha solo “seguito l’onda” di una certa cultura politica del suo ambiente, di quel contesto di contrapposizioni politiche, che subisce una brutale aggressione e viene ucciso: quello sì, deve essere ricordato e anche commemorato. Perché? Non è un discorso di memoria condivisa, non ho parlato di questo, porta fuori strada. La memoria condivisa riguarda parti che si sono contrapposte e che si sono fatte del male. Ma quando si parla solo di persone che, senza avere fatto del male, hanno subito del male, si tratta di ricordarle perché vittime di una violenza politica che la democrazia, per definizione (lo ripeto, e pace per Fortini), rifiuta: perché la democrazia liberale (ci metto l’aggettivo, perché sia chiaro) accetta il pluralismo e la possibilità di confrontarsi con avversari politici anche molto diversi senza annientarli, dal momento che si fonda sul rispetto di un principio di eguaglianza morale delle persone; e quello che si vuole celebrare, in questa commemorazione, è questo principio.
Questo ci porta a un punto più generale: una democrazia stabile, che ha superato le scosse che hanno minacciato di distruggerla, non reprime le opinioni antidemocratiche: per ragioni di principio, perché quando si iniziano a definire i contenuti di pensiero illeciti la libertà di opinione e il pluralismo sono a rischio; per ragioni pragmatiche, perché anche le più radicali opinioni antidemocratiche, finché restano opinioni, sono di poco danno, mentre è ben più dannoso dare troppo potere allo Stato per reprimerle. Resta sempre il problema di capire quando c’è il rischio del passaggio all’azione violenta, ma queste sono cose che si definiscono nei dettagli della legislazione e nel giudizio pratico, nelle situazioni.
2) La seconda critica è più forte, perché rimanda a una situazione di fatto che ha limitato pesantemente la nostra democrazia. Molti l’hanno detto qui: una parte dell’apparato dello Stato, una parte delle “forze dell’ordine” e della “giustizia” ha lottato contro la democrazia, ha messo in atto una strategia per cercare di opporsi alle grandi spinte di democratizzazione della società italiana; e il fascismo è da questa parte qui. Tutto questo è vero, ma non è tutta la storia, altrimenti noi oggi non vivremmo in una (per quanto imperfetta) democrazia ma in qualcos’altro (e lo stesso si potrebbe dire di Spagna, Portogallo e Grecia). L’altra parte della storia sono tutte le forze lente, sotterranee, silenziose, della democrazia (la militanza politica nei partiti, l’associazionismo, i sindacati, i movimenti, le manifestazioni ecc., e anche l’attività politica parlamentare, le riforme fatte nei periodi più duri ecc.) che hanno continuato a lavorare e che hanno garantito la tenuta della democrazia; lo Stato è fatto anche di quelle forze dell’ordine e di quei magistrati che hanno invece lavorato per salvare la democrazia; la democrazia vive anche di quelle famiglie delle vittime delle stragi che hanno sempre cercato giustizia senza arrendersi. Ecc. Se molti italiani non avessero sentito che la loro democrazia non era solo la parte corrotta ma anche queste potenzialità la prima parte avrebbe prevalso. La parte che ha vinto, invece, è anche quella “pacifica” che espelle da sé la violenza politica come un tumore che rischia di uccidere tutto. Ecco perché, sì, ogni forma di violenza politica viene rifiutata: il suo colore non conta niente, che sia dei “rossi” o dei “neri” è sempre semplicemente una forma di prevaricazione del forte sul debole. Tra l’altro, qui il discorso non è sul terrorismo o sullo stragismo, ma sulla violenza politica giovanile, un fenomeno che all’epoca era diffuso e capillare e non si identificava con le scelte terroristiche più “organizzate”. Su questo terreno è fondamentale mostrare la devastazione del tessuto sociale e politico provocata da questa violenza, a prescindere dal “colore”; certo, come dice Marco Marzano, bisognerebbe cercare di capirne le radici e di spiegarla, ma la condanna di questo tipo di violenza non può non far parte del patrimonio di valori della democrazia. E questa condanna implica la pietà per le sue vittime innocenti.
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 5
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Violenza e violenza
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È successa una cosa brutta, anzi bruttissima, roba da diecimila potenziali dannati in un giudizio universale.
Già lo sapevo, del fattaccio. Non sapevo però che ci riguardasse direttamente. E non so ancora che saremo citati, da una memoria selettiva e digitale, quasi esclusivamente per questo.
Un po’ come per le Brigate Rosse, delle quali sostenevamo all’inizio nelle piazze che avessero sede in questura e fossero figlie di Freda e Ventura. Salvo poi riconoscere che con le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo. Prestando inoltre il fianco a chi vorrà storicamente confondere un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole, con l’incattivimento successivo, col piombo.
Ciò non toglie che Sergio Ramelli nel 1975 in Via Paladini lo abbiamo ucciso per davvero noi. L’ho scoperto soltanto un mese fa, quando hanno arrestato a sorpresa e con clamore alcuni compagni della nostra organizzazione di allora. E adesso, sabato 12 ottobre 1985, vado nuovamente a un convegno per capire.
Che c’è da capire? L’indagine è chiarissima: un magistrato in carriera, con un passato da contestatore nelle file dei socialisti libertari, ritrova fra i pentiti di Prima Linea una sua vecchia conoscenza; hanno parecchio da raccontarsi e il pentito, che dopo averci gridato contro nel ’77 in Piazza del Duomo “Via, via, la nuova polizia!” ha proseguito con un’arma da fuoco sino in Via De Amicis ammazzando propriamente l’agente Antonio Custra, a proposito del delitto Ramelli, rimasto insoluto, indirizza l’ex compagno di attivismo giovanile, diventato giudice istruttore, verso noialtri; tre pentiti ulteriori, bergamaschi, confermano, e uno di loro restringe il campo alla sezione milanese di Città Studi (glielo aveva confidato una morosa); un medico, anch’egli in carriera, precisa che i colpevoli vanno cercati nella cellula degli studenti, per l’appunto, di Medicina; almeno la metà degli arrestati, ormai professionisti, mariti, padri, presunti uomini fatti, è rea confessa. Dunque non c’entra la Banda Bellini, che certe voci e leggende metropolitane sembravano coinvolgere. C’entrano dieci militanti nostri, sì, appena l’uno per mille. Ma il resto, cioè il grosso degli iscritti, non è forse corresponsabile? Ma io?
Mi viene il dubbio: hanno esagerato nella circostanza a colpire, o tutte le altre volte è andata miracolosamente bene (“bene” perché non c’è scappato il morto, “miracolosamente” perché i neofascisti a Milano li abbiamo combattuti alquanto)? Un dubbio atroce e comunque sia quello di Ramelli è un omicidio concreto e non posso umanamente non dispiacermi, comunque sia lui è morto dalla parte sbagliata. Oh, non ho mica scordato le bombe, le stragi, le impunità, i tentati golpe, il calcio dei fucili nei fianchi e gli spari addosso, le coltellate, i tanti di sinistra soppressi e fra questi gli intimi amici perduti, il cuore in gola ogni qualvolta passavo per Corso Monforte diretto al centro con la E (la futura linea 54) e avvistavo i camerati sanbabilini della Giovane Italia che avrebbero potuto individuare sull’autobus il mio eskimo e la mia sciarpa rossa! In divisa o meno non l’ho dimenticato, il fascismo, e so chi l’ha iniziata, la violenza.
Sono al convegno. La familiare Sala della Provincia in Via Corridoni è piena zeppa. Non lasceremo che processino una generazione.
Introduce un eccellente Mario Capanna, da mo’ affrancatosi dal Movimento Studentesco. E sul palco dove si alternano gli oratori compare la grande scritta “1968-1976 le vere ragioni” e più in piccolo “La politica, le speranze, la ricerca del nuovo, le trasformazioni, la reazione del potere, gli errori, le lezioni per il futuro”. Per la giornalista dell’Unità e di Repubblica Miriam Mafai non avremmo alcuna attenuante e dovremmo recitare in massa l’Atto di dolore. Il poeta e marxista Franco Fortini invece ci assolve, sorridendo di chi sulla violenza fa della generica morale come se il quotidiano piatto di pastasciutta sopra le nostre tavole non fosse stato sottratto alle popolazioni che muoiono di fame altrove nel pianeta. Ad Adriano Sofri, leader in quegli anni di Lotta Continua, presto un’attenzione particolare. Lo seguo fin da un lontano pomeriggio estivo a Parma, dove per solidarietà ero andato ad ascoltare un suo appassionante comizio in ricordo del ventenne di LC Mario Lupo, assassinato dagli squadristi locali. Dice oggi Sofri: – Abbiamo fatto cose giuste, ma ci siamo macchiati di misfatti –. Invertendo l’ordine della frase, condivido: – Ci siamo macchiati di misfatti, ma abbiamo fatto cose giuste –. Potrei d’altronde averne mille, di dubbi, non certo sull’esito involontario dell’azione contro Sergio Ramelli. E c’è violenza e violenza…
Intanto può bastarmi. Quanto a impegno e partecipazione, sono scoppiato da un pezzo. Rincontro nella sala Piede, concordiamo di non attendere la conclusione degli interventi, andiamo a prendere la 54 in Largo Augusto.
La fermata è di fronte ai portici dell’Hotel President. In duecento, tra poliziotti e carabinieri, vigilano d’intorno sul nostro raduno. Sarebbero stati un tempo un po’ pochini, riempiono in ogni caso al momento l’area pressoché intera. Sono le otto di sera e c’è fiacca. Nemmeno io e Piede ci turbiamo o li scomponiamo. Nessun altro è in giro. Notiamo, tra loro, un’improvvisa concitazione. Sentiamo la chiamata di un’autoradio. Sentiamo dalla non distante Via Larga sopraggiungere un veicolo a gran velocità. Vediamo il responsabile del presidio, in borghese, disporre le forze dell’ordine a ventaglio. Chiudono lo stretto sbocco di Via Durini e lasciano aperta l’invitante entrata di Via Verziere. Vi puntano le armi. Sembra una scena da Blues Brothers. E per evitare eventuali pallottole vaganti noi due ci ripariamo dietro le colonne squadrate dalla parte del President. Il presunto delinquente in fuga e intercettato abbocca, svolta per sua sfortuna dal Verziere verso Largo Augusto, va incontro all’imprevedibile sbarramento. Dev’essere un pilota esperto e guida una macchina bianca, sportiva, assai potente. Riesce a decelerare senza sbandare e a bloccarsi a un secondo e a un metro dal disastro. Rimane immobile nell’abitacolo, ostenta le braccia e le mani sollevate. Gli si accosta, pistola in pugno, il responsabile di piazza in borghese. Quest’ultimo è di età media, non alto, ha una faccia normale. Saprei tuttavia riconoscerlo e circolarlo con un pennarello se me lo mostrassero in una fotografia, un domani, in mezzo a tanta gente. L’omino, probabilmente un commissario, avvia una breve trattativa. Dice al tipo al volante che se non opporrà resistenza non gli verrà procurato alcun male. Il tipo annuisce, libera la chiusura della portiera, rialza braccia e mani lentamente. L’omino lo strappa fuori dalla macchina, con il calcio della rivoltella gli spacca i denti che ha davanti, lo cede ai sottoposti. Non ci stupiamo e neanche commentiamo. Ci spostiamo in Corso di Porta Vittoria per rientrare con la 60, io a casa, Piede al bar.
*
(Stralcio da Luca Visentini, “Sognavamo cavalli selvaggi”, http://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/ )
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 6
*
Ma voi senza parlare
Mi rispondete: «Non ricordi
quel ragazzo sfregiato
la sera dell’undici marzo 1971
che correva gridando
“Cercate di capire
questa sera ci ammazzano
cercate di
capire!”
La gente alle finestre
applaudiva la polizia
e urlava: “Ammazzateli tutti!”
Non ti ricordi?»
Si, mi ricordo.
*
(da Franco Fortini, Italia 1977-1993, in “Composita solvantur”, Einaudi, Torino 1994)
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 7
*
Avanguardia Operaia e anni ‘70
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Il romanzo di Visentini, per quel che ne so, è una delle pochissime testimonianze di carattere letterario venute finora da ex militanti di Avanguardia Operaia. Un’altra, di cui sono venuto a conoscenza di recente, è quella di Claudio Cereda. Perché così poche? Mi ha sempre colpito la scarsa o mancata rielaborazione pubblica dell’esperienza di Avanguardia Operaia, specie se si fa il confronto con le memorie, i romanzi, le storie (Ricordo la «Storia di Lotta Continua» di Luigi Bobbio) di militanti di altre organizzazioni politiche. So che sono state avviate anche raccolte di storie di vita.[7] La ricerca storiografica è pur andata avanti (coi lavori di Giovanni De Luna, Paul Ginsborg, Guido Crainz), magari in modi che a me paiono sfasati rispetto alle raccolte di storie di vita e alle testimonianze individuali, anche letterarie (o cinematografiche: Bellocchio, Giordana, ecc.), per cui i risultati poco s’incrociano o s’integrano. E ho l’impressione che tuttora manchi una cornice storica abbastanza chiara entro la quale una singola vicenda autobiografica o un bilancio soggettivo possa collocarsi, riducendo i punti oscuri o incerti. (E non parlo – sia chiaro – di memoria condivisa, che non c’è e non so quanto mai ci potrà essere, come dimostrano, per la Resistenza le ricorrenti polemiche ad ogni 25 aprile e per gli anni ’70 quelle sulle apparizioni televisive di ex lottarmatisti.[8] Ma resta per me la domanda: perché quelli di Avanguardia Operaia hanno, finora almeno, taciuto o scritto così poco? Non conosco le ragioni di una tale autocensura e evito in questa occasione ogni illazione. Posso soltanto pensare al fatto che nella discussione pubblica gli eventi accaduti negli anni ‘70 restano tuttora un terreno minato e rischioso.
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[7] Mi è capitato di leggere in questi giorni un documento di Stefania Voli per una ricerca storica sui militanti extraparlamentari nell’Italia degli anni Settanta e in particolare quelli di Lotta Continua: http://www.sissco.it/download/attivita/Voli.pdf
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[8] Penso a quella recente che ha coinvolto Barbara Balzerani, di cui si è occupato un saggio di una giovane storica, Ilenia Rossini: http://storieinmovimento.org/2018/03/24/paragidma-vittimario-balzerani-2018/
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(Da E. A. Appunti su “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini, http://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/ )
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 8
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Nodi irrisolti
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Ed, infatti, tanto per far capire ai più giovani quanti nodi irrisolti ci sono in quegli anni Settanta, basta ricordare che sono gli anni della «strategia della tensione» e poi del «compromesso storico» e, nel 1978, dell «affaire Moro», che vide DC e PCI rifiutare le trattative per la liberazione dello statista democristiano, mentre il PSI, che dal ’76 era guidato da Bettino Craxi, si mostrò più “flessibile”. E poi nel 1980 ci fu la sconfitta della CGIL alla Fiat sancita dalla “marcia dei 40.000 quadri”, dopo un inefficace sciopero di 35 giorni. La lotta politica, che allora si svolse, fu più complessa di quanto appaia o si sappia, proprio perché su quegli anni è prevalso «complessivamente un atteggiamento di nascondimento della realtà», come in un suo saggio scrisse Gianfranco La Grassa.[9] E nel frattempo si ebbe nel 1989 il crollo dell’Urss e «la sconfitta del “socialismo”. Le nostre revisioni personali o storiche degli anni Settanta (e più in generale della storia novecentesca dell’Italia del dopoguerra), dunque, sono particolarmente difficili. Senza dimenticare che parliamo – e la cosa non è secondaria – da sconfitti. Se la Resistenza ebbe almeno i suoi Istituti storici[10] e, pur con ambiguità, un suo riconoscimento, questo non è stato possibile per i movimenti degli anni Settanta. Ecco perché, a mio parere, Visentini di quegli anni è costretto a salvare soprattutto il sogno comunitario e rivoluzionario giovanile; e a fermarsi – non credo solo perché lì si chiude la sua militanza – al 1977 , scrivendo pagine secondo me abbastanza dilaniate su alcuni scontri tra Avanguardia Operaia e l’Autonomia; e senza affrontare il resto, e cioè il nodo del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.
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[9] Cfr. Una mia recensione di un saggio di questo autore qui: http://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13
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[10] Ad es.l’ Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.
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(Da E. A. Appunti su “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini, http://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/ )
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 9
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Il guerrigliero urbano
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Torniamo al punto di vista del narratore. Che è, come Visentini stesso dichiara, quello del «guerrigliero».[11] Parla qui il compagno che ha avuto pratica nel servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e che ha vissuto direttamente e più da vicino di me episodi anche tragici.[12] In questi passaggi del romanzo la distanza dell’io biografico dalla voce narrante diventa minima. Non so se, nello scrivere il suo romanzo, Visentini abbia usato consapevolmente dei filtri letterari o abbia guardato ai western o alla narrativa di Fenoglio. Forte mi pare soprattutto la traccia lasciata in lui dalle esperienze pratiche, fatte di incontri e di idee assorbite soprattutto in quegli incontri, più che dai libri. E si capisce che conosce le regole che guidano chi nei momenti dell’azione può trovarsi in pericolo.[13] Si tratta di una consapevolezza che non era così ben presente a molti di noi, militanti impegnati soprattutto nelle discussioni o nella propaganda; e che spesso degli assalti della polizia o delle aggressioni fasciste avevamo solo un’eco indiretta. Visentini affronta con sincerità e senza compiacimenti questa zona più opaca ma necessaria della militanza di quegli anni. Si tratta di un’attività ingrata, che ho sempre difeso contro chi, dopo la sconfitta politica, l’ha demonizzata o esorcizzata, indicandola addirittura come una delle cause di essa. Parlando con amici e amiche di quei tempi, molti dicevano che il tema della violenza l’avevano sempre “saltato”. Eppure si militava in Avanguardia Operaia, un gruppo politico allora «extraparlamentare» e che dichiarava di voler costruire un’organizzazione comunista (e mi pare di ricordare che in qualche documento apparve anche l’aggettivo «combattente»). Com’era possibile rimuovere questo aspetto della militanza E con tutto quello che succedeva allora nelle strade e in piazza durante le manifestazioni a Milano e in Italia? Meravigliarsi della presenza nelle manifestazioni dei servizi d’ordine, per me, ancora oggi, è come chiedersi perché si apre l’ombrello, quando piove. Pioveva o non pioveva in quegli anni?
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[11] Scrive a pag. 156: « Tuo malgrado, sei diventato un guerrigliero urbano.»).
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[12] A proposito della “caccia ai comunisti” da parte dei neofascisti ricorda a pag. 133: « Giravano sulle automobili. S’imbatterono presto nel gruppetto di compagni che stava rientrando da una riunione del comitato. Un ragazzo e una ragazza si accorsero in tempo del pericolo e riuscirono a scappare. In tre vennero intrappolati. I nove non conoscevano i tre, bastò la sciarpa rossa di Gaetano. Scesi dalle macchine, lo picchiarono. E una volta che fu a terra, all’angolo di Via Goldoni con Via Uberti, infierirono. Cominciò Gilberto Cavallini a piantargli il coltello nel corpo già privo di sensi, gridando: – Sporco comunista! –. Poi l’arma passò di mano in mano, così che ogni squadrista potesse conficcarla.»
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[13] Cfr. pag. 64:« I nostri responsabili avanzano per trattare con i dirigenti delle forze dell’ordine. Ritornano prestissimo. Non hanno potuto accettare che consegnassimo gli striscioni e le bandiere, che ci facessimo perquisire. Ci dicono: – Su i caschi! In pochi secondi, in più di mille copriamo anche naso e bocca con i fazzoletti.».
Oppure pag. 101: «Di notte, quando sul tardi mi recavo da solo a piedi nello Scannatoio per andare a dormire, portavo con me Rolf. Non si sapeva mai, dati i tempi. E Rolf era un formidabile dissuasore nei confronti della malavita e degli eventuali agguati fascisti».
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(Da E. A. Appunti su “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini, http://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/ )
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 10
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Gruppi dirigenti e servizi d’ordine
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Altra questione è stabilire il grado di controllo politico da parte dei dirigenti sui servizi d’ordine. E anche all’obiezione che mi è stata fatta: «Sapevano i nostri dirigenti che ci stavano usando?», mi è sempre parsa convincente rispondere che l’uso finalizzato di uomini (e donne) da parte di altri/e (i dirigenti, appunto) è previsto in una concezione comunista ed è un dato ineliminabile (o forse eliminabile, in teoria, solo alla fine di un lungo e faticoso processo). Come sapeva bene Franco Fortini, che senza addolcimenti lo ribadì ancora nel 1989 nella voce «Comunismo»: « Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita».[14] Quindi, soltanto due domande complementari erano da porsi allora (e oggi) nel ripensare questo aspetto della militanza: i dirigenti ci usarono bene? e noi, i diretti, li usammo bene?
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Non credo che questi problemi possano oggi essere considerati risolti per qualsiasi movimento di protesta o di rivendicazione. Non lo erano sicuramente in quegli anni, quando l’attività politica, specie delle organizzazioni sorte alla sinistra del PCI, aveva raggiunto un radicamento sociale e una potenza politica e culturale notevole. E quelle nostre esperienze erano continuamente oggetto di minacce ed agguati fascisti o di provocazioni poliziesche. E potevano sopravvivere solo imparando a contenere l’ansia e le tensioni continue anche nella normale vita quotidiana.[15] E perciò il giudizio che Visentini trae dalla sua esperienza mi pare ancora oggi del tutto condivisibile: « Alla violenza ti costringono. La violenza, la impari. Difendersi è difficile, mentre le stai prendendo hai già perso e cerchi solamente di limitare i danni. Passi alla prevenzione, al contrattacco, con l’esperienza. E qui rischi di nuovo, se non sai quando fermarti. Potresti entrare nell’abominevole spirale. La prima volta che colpisci qualcuno o qualcosa scuoti te stesso » (pag. 156). E il suo discorso è privo di qualsiasi astratta o estetizzante elogio della violenza: « Senza lo scontro di classe in atto saresti pacifista, oltre che tendenzialmente pacifico.» (pag. 157).
E dunque ritorno al discorso della cappa, del *couvert* baudelairiano. Non Visentini, ma altri e persino alcuni (pochissimi) di Avanguardia Operaia «nell’abominevole spirale» ci finirono. E anche su questo egli non tace: «Ciò non toglie che Sergio Ramelli nel 1975 in Via Paladini lo abbiamo ucciso per davvero noi» (pag. 216). A questo punto del romanzo, secondo me, Visentini tocca una questione tuttora difficile da esaminare fino in fondo. E, pur rispettando il suo punto di vista, io vorrei affrontarla con una domanda apparentemente scandalosa : cosa avevamo in comune noi di Avanguardia Operaia e delle altre formazioni extraparlamentari (ma la domanda varrebbe anche per una parte del PCI d’allora) che ci avvicinava e allo steso tempo ci distanziava e contrapponeva duramente all’Autonomia, ai lottarmatisti e ai brigatisti rossi?
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Visentini insiste legittimamente sul carattere esclusivamente difensivo che avevano i servizi d’ordine e quello di Avanguardia Operaia in particolare. E va ricordato che tale carattere difensivo era coerente con l’analisi politica della nostra organizzazione, che rifiutava come deliranti le ipotesi di quanti parlavano di una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Ma se poi tutti hanno dovuto riconoscere, come scrive Visentini, che «le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo» (pag. 216), proprio perché il peggio è accaduto e non si è stati in grado di evitarlo, la rimozione e la sottovalutazione da parte di Avanguardia Operaia e di tutta la “nuova sinistra” di quel che si preparava da parte dei lottarmatisti a me appaiono ancora oggi limiti gravissimi. Contribuirono, come minimo, anch’esse allo stritolamento delle nostre militanze nello scontro tra lottarmatismo e Stato. Proprio perché leninisti e convinti che nei conflitti sociali la violenza sia inevitabile, il fatto di non essere riusciti a impedirla nelle forme “pazze” che assunse, fu una tragedia. Per dirla con una metafora semplice, è come se noi fossimo saliti su un treno, sapendo che ad un certo punto del suo percorso dovesse entrare in una galleria buia e piena di rischi; e, proprio allora, ci fossimo addormentati e fatti sottrarre la guida di quel treno, dai “pazzi” appunto. Almeno per noi che vivemmo quella tragedia interrogarla non è neppure oggi un esercizio accademico. Luca Visentini conclude il suo romanzo rivendicando una sorta di realistica e disperata impotenza: «Con obiettività, avremmo perso ugualmente, con le nostre analisi ancora parziali e sopravvalutate avremmo procurato chissà quali disastri se fossimo andati al potere, con tanti errori e diverse responsabilità stavamo nondimeno dalla parte giusta». Io – è qui forse l’unico punto di dissenso – ricordo quel che scrisse Fortini nel 1985: «Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto».[16] Quest’affermazione riguardava anche noi di Avanguardia Operaia. E scuoto perciò la testa, limitandomi a dire che no, non fummo «dalla parte giusta», anche se non so dire quale lo fosse allora. O come si poteva fare a difendere «un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole» dall’«incattivimento successivo». (pag. 216).
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[14] Cfr. F. Fortini, Comunismo, in «Extrema ratio» pag 99 – 101, Garzanti, Milano 1990.
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[15] Cfr. pag. 217: « Oh, non ho mica scordato le bombe, le stragi, le impunità, i tentati golpe, il calcio dei fucili nei fianchi e gli spari addosso, le coltellate, i tanti di sinistra soppressi e fra questi gli intimi amici perduti, il cuore in gola ogni qualvolta passavo per Corso Monforte diretto al centro con la E (la futura linea 54) e avvistavo i camerati sanbabilini della Giovane Italia che avrebbero potuto individuare sull’autobus il mio eskimo e la mia sciarpa rossa!»
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[16] F. Fortini, Quindici anni da ripensare, in «Insistenze», pag. 219, Garzanti, Milano 1985.
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(Da E. A. Appunti su “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini, http://www.poliscritture.it/2018/04/05/da-sognavamo-cavalli-selvaggi/ )
“ 22 febbraio 1986 – « Torna il terrorismo », scrivono i giornali tutti contenti. “.
@Mauro Piras
Intanto, grazie della risposta.
Mi prese rilevare una contraddizione, che è anche un’evidente forzatura del suo ragionamento in senso “non violento”. La parte positiva della della società italiana del tempo, quella che ha permesso di arginare le tentazioni golpiste, è stata quella rappresentata dai “movimenti”, senza i quali nessuno avrebbe parlato di “strage di stato” ecc. (ricordo che la “magistratura democratica” riteneva che i colpevoli fossero gli anarchici e che Pinelli …). E sono quegli stessi movimenti che hanno permesso la nascita dei “consigli di fabbrica”, ad esempio, e di giungere, dopo processi conflittuali molto acuti (anche violenti, sì), allo Statuto dei Lavoratori, all’Aborto, ecc.. La “violenza politica” era contestuale a queste dinamiche e, davvero, nessuna delle più importanti conquiste sarebbe stata possibile senza la radicalità messa in gioco da quei “movimenti”.
Mi resta poi una curiosità: in questi anni in diverse parti del mondo sono scese in piazza milioni di persone rivendicando diritti sociali e un’organizzazione della società più equa … Una rabbia, per così dire, senza riserve, che non ha esitato a ricorrere anche a forme di violenza … Se applicassi il suo schema logico, dovrei condannare questi movimenti … Mi sembra un modo di vedere la storia un po’ bloccato. I cambiamenti della storia, anche della storia della democrazia, non accadono dandosi forme di lotta predeterminate, bensì agiscono come Cristo: una volta porgono l’altra guancia e un’altra impugnano la verga …
@ Mauro Piras
Mi permetto un’aggiunta “biografica”.
Mio padre era un operaio Fiat. Partecipò alla rivolta di Corso Traiano, il 3 luglio del 1969. Tornò a casa pieno di sangue (ricordo ancora molto bene le lacrime di mia madre). Fu una rivolta violenta, con scontri che durarono tutta la giornata (sei ore di scontri violentissimi). La rivolta si estese a diverse zone periferiche di Torino, con diversi atti di solidarietà degli abitanti (tipo nascondere nelle loro case gli operai in fuga dalla polizia). Quella rivolta fu una tappa fondamentale del processi di cambiamento che si innestarono successivamente, spingendo su posizioni più radicali anche il sindacato e il PCI che sfociarono poi in diverse “conquiste” … Che senso ha condannare – oggi come allora – la violenza di quei giovani operai? La domanda che bisognerebbe porsi è: era possibile fare diversamente? No, non era possibile. E dubito che lei riesca a dimostrare il contrario.
Caro Mauro,
due precisazioni e una domanda.
1) Equiparazione tra sovranismo e fascismo, tra destre populiste di oggi e fascismo: non lo penso affatto. Non penso affatto che si debba gridare al fascismo ogni tre per due. Quindi non è questo il punto. Io non sono Raimo.
2) Proprio il Fortini qui ricordato, nel libro recentemente pubblicato, “Dieci inverni”, negli anni Cinquanta, dopo aver raccolto di persona testimonianze di giovani che fugg ivano dalla DDR, dove erano stati imprigionati e privati della libertà, si pone il problema se pubblicare o no quelle testimonianze: sa benissimo che verranno sfruttate dagli anticomunisti . Alla fine le pubblica, perché è socialista e non comunista, quindi da questo punto di vista più libero, ma soprattutto perché il dovere della verità e della pietà per le vittime non è per lui superiore a quello della strategia politica. Lo pubblica ovviamente per un giornale liberale, perché nessun giornale socialista o comunista lo farebbe (forse era Il mondo, ma ora non ricordo, posso verificare a casa sulla mia copia).
Ovviamente quello che temeva accade puntualmente, la sua testimonianza viene usata per il gioco politico anticomunista, che significa anche per delegittimare un partito costituente come il PCI, mica i bolscevichi.
Fortini, credo, non ha mai risolto la contraddizione.
Per cui ti domando: tu l’hai già risolta? Tu andresti a un convegno storico in cui il pubblico è composto da fascisti di Casa Pound che hanno appena sfilato per ricordare i propri martiti? Io no, perché faccio valere un’etica della responsabilità e non un’etica dell’intenzione: se la commemorazione dei morti nelle foibe produce tout court lo sdoganamento di Casa Pound, non nel mio nome.
E questo non significa affatto dire “i morti nelle foibe (o Ramelli) non potranno mai essere ricordati perché sono morti fascisti”. Sono morti, sono vittime, come dici tu. Ma tu pretendi di scorporarli dal contesto politico. Al di fuori di quel convegno e di quel Giorno del ricordo strumentalizzato io ne parlerò, studierò, ecc… Ma non in quell’occasione, non in quel modo. Il commento di Bortolini è puntuale su questo: e non mi pare che tu sia riuscito a confutarlo.
«Un militante che non ha fatto nulla di violento, che ha solo “seguito l’onda” di una certa cultura politica del suo ambiente, di quel contesto di contrapposizioni politiche, che subisce una brutale aggressione e viene ucciso (…) deve essere ricordato e anche commemorato. Perché? (…) Quando si parla solo di persone che, senza avere fatto del male, hanno subito del male, si tratta di ricordarle perché vittime di una violenza politica che la democrazia, per definizione (…), rifiuta: perché la democrazia liberale (ci metto l’aggettivo, perché sia chiaro) accetta il pluralismo e la possibilità di confrontarsi con avversari politici anche molto diversi senza annientarli, dal momento che si fonda sul rispetto di un principio di eguaglianza morale delle persone; e quello che si vuole celebrare, in questa commemorazione, è questo principio» (Piras).
Celebrare il principio di eguaglianza morale delle persone garantito dalla democrazia è giusto. La violenza politica è in sé anti-democratica. Vanno perciò ricordate, in nome della democrazia, le vittime inermi di questa violenza. E non sono certo mancate: dai tanti comuni cittadini uccisi con le bombe, da quella di Piazza Fontana in poi, a personalità politiche come Bachelet e Moro. Non mancano vittime illustri e oscure della violenza politica di quegli anni che possano essere commemorate per celebrare il principio di eguaglianza morale delle persone su cui si basa la democrazia. Vogliamo invece celebrare questo principio ricordando Pinelli, anarchico, che in questa nostra democrazia non credeva affatto? Valerio Verbano, comunista? Sergio Ramelli, fascista? Scegliere chi, senza aver fatto nulla di violento, era però estraneo – e addirittura avversario, per convinzione maturata o per caso e gioventù – alla democrazia liberale? Perché?
Il sottinteso della scelta ad hoc, mi pare, è che le opinioni politiche siano tutte legittime, fino a che non ricorrono alla violenza come strumento per affermarsi. Si può essere anarchici, comunisti o fascisti: la democrazia liberale è neutrale di fronte a tutte le idee. Ciò che si vuole celebrare, mi pare, è in realtà questo principio di neutralità. Che trova maggior forza proprio di fronte al fascismo, che della democrazia è l’antitesi più radicale e programmatica.
Chi invece di fronte al fascismo – non necessariamente quello che fa uso della violenza: anche il fascismo innocuo, quello cialtrone predicato, gridato, pensato, ricordato con ammirazione, nostalgia, saluti romani – non si sente affatto neutrale, trova che la democrazia liberale avrebbe il diritto di tenersi alla larga. C’è chi sente ancora, anacronisticamente, con Gobetti, una repulsione istintiva verso il fascismo.
Per quanto mi riguarda, trovo il principio di neutralità di fronte alle idee un’ottima cosa, una pratica necessaria, doverosa anzi. Ma è una necessità. Perché di fatto le idee non sono tutte eguali. Della celebrazione della pari legittimità di fascismo e anti-fascismo si può fare a meno, credo, e rimanere democratici lo stesso.
“ 13 settembre 1985 – Il giornalismo è la continuazione del terrorismo con altri mezzi. “.
ANTIVELTRONIANA/APPUNTO 11
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Violenza/ non violenza. Botta e risposta su Facebook tra due ex militanti di Avanguardia Operaia (30 aprile 2019)
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XY
Spero di non suscitare irritati commenti. Il 29 aprile è, da sempre, una brutta giornata. Venne ucciso Sergio Ramelli, non fu un errore, fu un orrore, anche se involontario. La vita di un giovane è stata cancellata, per sempre. Dobbiamo, innanzitutto noi del 68 ,quelli delle lotte per i diritti e la libertà, prenderne atto. Questa tragedia non può essere rimossa. Non per guardare indietro, ma avanti. Per non rubare il futuro alle nuove generazioni. Ancora ieri è stato gridato lo slogan: ” Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero”. Non mi piaceva allora, ancor meno oggi. Voglio dirlo chiaro e netto: dobbiamo fare i conti con la violenza, che ci fu in quegli anni. Di una minoranza certo, non dei lavoratori e dei più, ma ci fu. Va condannata. Semplice: va condannata. Anche alcuni slogan erano violenti, non vanno ripetuti. Sono altro da noi. La cultura della violenza e le parole generano gli atti violenti. L’ avversario politico non va “mandato al cimitero”. C’è la morte in questo slogan, niente di eroico. Noi non siamo per “viva la morte”, ma per “viva la vita”. Siamo gli allievi e gli eredi dei giovani e delle giovani che scrissero “Le lettere dei condannati a morte della resistenza” Scrivevano di amore, di affetto strugente per i genitori, la madre, il padre, di amicizie profonde e di società giusta. Scrivevano di libertà, che allora significò abbattere il muro del fascismo.
Ma anche per una seconda ragione, più attuale, il 29 aprile è una tetra giornata. I fascisti non commemorano la memoria di un giovane, ma rilanciano i cupi miti del nazifascismo, che furono la prigione o l’ assassinio degli avversari politici, la torture, la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio, i soprusi e le vilenza quotidiane. Per la Milano antifascista, per il rispetto di chi sacrificò la vita per la nostra libertà non è accettabile. Indigna le nostre coscienze. Le Istituzioni il 29 dovrebbero promuovere “la giornata contro la violenza, in memoria di tutte le vittime, perché non accada mai più” e null’altro che quella dovrebbe vedere la nostra città. Mai più manifestazioni fasciste. Non propongo la “conciliazione”, per nulla. L’amnistia ci fu allora. Non c’è una via di mezzo, ove ciascuno ha un poco di ragione. C’è chi ha combattuto per la libertà e la Costituzione, dalla parte giusta e quelli che sono stati la vergogna (feroce e volgare) d’ Italia e ancora lo sono. I morti non sono tutti eguali, non lo furono in vita, non lo sono nella memoria. Ciascuno ricordi i suoi, nessuna riconciliazione. Noi ricordiamo i nostri: i partigiani e quanti si opposero al fascismo. Ci hanno lasciato in eredità un Italia libera, spetta a noi trasmetterla libera e gentile alle nuove generazioni.
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Ennio Abate
Spero che il mio commento non sia quello di un “irritato”. Ma devo ripetere che una cosa è condannare ( e anche censurare) uno slogan truculento (” Camerata basco nero il tuo posto è al cimitero”) che – d’accordo – si avvicina troppo pericolosamente alla cultura fascista del “viva la morte”. Altra cosa, però, esorcizzare o condannare la violenza in sé.
La violenza negli anni ‘70 fu «di una minoranza certo, non dei lavoratori e dei più». E non fu di una minoranza anche quella esercitata durante la Resistenza, di cui vogliamo essere « gli allievi e gli eredi»? Mica quei giovani scrissero soltanto lettere struggenti. Presero o no le armi?
Quindi, il problema – insisto – non è la condanna della violenza in sé, alla quale in certe circostanze storiche furono costretti i nostri padri e. in misura incomparabilmente minore, noi e i nostri compagni negli anni ’70, ma quello della violenza non necessaria, evitabile, sbagliata, come quella che esercitarono quei nostri compagni di AO quando – orrore sì – eliminarono da accecati il giovanissimo Ramelli. (In tempi in cui io ed altri, insegnanti di AO negli Itis di periferia come me, coi giovani fascistelli che avevamo in classe discutevamo).
Prima di liquidare la questione della violenza, rileggetevi per favore il capitolo 7, La violenza, pagg. 413 – 514, di «Una guerra civile» di Claudio Pavone.
P.s. 1
E poi, caro XY, trovo la proposta («Le Istituzioni il 29 dovrebbero promuovere “la giornata contro la violenza, in memoria di tutte le vittime, perché non accada mai più») inconciliabile con l’altra che affacci subito dopo (« Ciascuno ricordi i suoi, nessuna riconciliazione»). O l’una o l’altra. Si è *costretti* alla seconda perché la prima non è praticabile e resta purtroppo solo un auspicio. Il problema della *memoria divisa * non si è ancora risolto.
P.s. 2
Ho citato il libro di Pavone per indicare un testo modello, che ben approfondisce la questione della violenza *nella Resistenza* e potrebbe aiutarci a riflettere su quella *oggi* esistente o che *potrebbe scatenarsi”, se si creassero certe situazioni. Ho anzi precisato che quella che fummo costretti ad esercitare noi (Avanguardia Operaia ed altri gruppi) negli anni ’70 fu « in misura incomparabilmente minore». Quindi nessuna assimilazione o comparazione del ’68-’69 alla Resistenza.
Rispetto la attuale scelta non violenta di XY, ma non mi va la sua sottovalutazione e deformazione della cosiddetta (da lui) “cultura della violenza”. Perciò, alla sua domanda: «La cultura della violenza, gli slogan truculenti non hanno forse contribuito alla loro [dei compagni uccisori di Ramelli] terribile decisione?» risponderei: sì e no.
Non è, infatti, automatico che chi è sottoposto o assorba discorsi o immagini di violenza ( e oggi l’immaginario collettivo ne è saturo) automaticamente passi ad atti violenti o sia nelle condizioni per esercitarla.
Non mi pare poi corretto presentare una “cultura della violenza” compatta e omogenea. Come non vale parlare di una “cultura della non violenza”, altrettanto compatta e omogenea. Entrambi gli orientamenti culturali sono pieni di sfumature e di delimitazioni non trascurabili, che cercano di dar conto della complessità e degli intrecci dei conflitti reali. E, in tal senso, ancora il capitolo 7° del libro di Pavone offre una ricca e documentata casistica storica, soffermandosi su violenza resistenziale e violenza fascista (pag. 415), autodisciplina e organizzazione della violenza (pag. 449), rappresaglie e contro rappresaglie (pag. 475) ecc.
Da questa proposta di analisi storica della questione non discende nessun sciocco invito a «indossare un maglione in piena estate visto che l’aveva già fatto il papà lo scorso inverno». Non si deve però dimenticare con troppa disinvoltura che le forme giuste di lotta possono essere, a seconda delle circostanze, violente o non violente; e devono essere politicamente ragionate.
Il problema è aperto e pone al singolo e alla collettività grandi questioni morali. Non a caso il sottotitolo del libro di Pavone è «saggio storico sulla moralità della Resistenza». Perché chiuderlo in modi astratti e unilaterali?
E, dunque, è bene tener presente che, se «la guerra contro Hitler, il nazismo e il fascismo fu necessaria e giusta», anche certe azioni contro le aggressioni fasciste e poliziesche negli anni ’70 furono altrettanto necessarie e giuste. E potrebbero tornare ad essere necessarie e giuste. È anche bene che le istituzioni nate per difendere i «valori democratici» lo facciano. Ma se non li difendessero o non fossero più in grado di difenderli?
Grazie Mauro, condivido quello che scrivi in pieno. Volevo farti tre domande, se posso. Scusami per la lunghezza del commento.
(1) La prima è forse un po’ cavillosa, ma ci provo; volevo chiederti cosa intendi quando scrivi che la visione di Raimo e dell’autore dell’articolo su Primato Nazionale siano ‘inaccettabili’. Poco sotto rivendichi il diritto di avere un’altra visione e di argomentarla (‘Io voglio poter dire: Ramelli e Verbano sono morti “miei”, come cittadino di una democrazia ferita’). Sono d’accordo con te e l’argomentazione con cui difendi la tua visione mi convince in pieno. Ma mi chiedo se ‘inaccettabile’ per qualificare le altre visioni non sia troppo forte e se non ti basti (e per certi aspetti non sia meglio) dire che le altre visioni vanno contestate e non sono difendibili con successo, ma che non siano inaccettabili – ma forse esagero nell’attenzione alla parola che hai scelto.
(2) La seconda domanda riguarda una frase di Veltroni che mi lascia perplesso: ‘Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva.’ – quello che per me è convincente nell’argomentazione di Veltroni è l’attenzione al dettaglio — alle circostanze concrete che hanno portato alla morte di Sergio Ramelli, che è simile a quella che avrebbero uno storico o un giudice. Quegli ‘altri’ non impegna certo Veltroni, ma non rischia forse di essere un’affermazione non necessaria alla sua argomentazione e ambigua – quali ‘altri’? Sono tutti gli ‘altri’ o solo alcuni? E se sono alcuni, chi sono? —, il che non rischia di indebolire l’impianto della sua argomentazione (il mio motto sarebbe che si giudica caso per caso in morale come in politica)?
(3) Infine (ma queste sono due domande, mi rendo conto!), volevo chiederti se pensi che (3.a) l’essere una democrazia ferita sia un tratto distintivo della Repubblica italiana e (3.b) se speri e auspichi che questo stato di cose venga superato — se pensi che la democrazia italiana vada normalizzata da questo punto di vista e se fino a quel momento non si possa dire che sia una democrazia compiuta e funzionante. Te lo chiedo perché la mia intuizione (per quello che vale) mi orienta in un’altra direzione, sia per (3.a) — penso ad altre guerre civili o origini traumatiche di altre democrazie (US con la schiavitù, la Germania col nazismo, la Francia con la sua successione di guerre civili, ecc. ) —, sia per (3.b) perché credo che le istituzioni democratiche siano anche (ance se non solo!) istituzioni riparative e di contenimento del fallimento morale e che prive di funzione le democrazie liberali siano meno giustificabili (la democrazia liberale ci priva di molte cose dandone altre; ad esempio, rende difficile praticare una politica utopica rivoluzionaria) e perdano presa sulle persone (che diventano meno motivate a difenderle). Se vuoi, è un argomento che richiama il ‘liberalismo della paura’; e mi sembra che si possa leggere anche così (forse anacronisticamente) il divieto della ricostituzione del partito fascista nella Costituzione italiana . E dietro questa mia intuizione c’è l’idea che il male storico commesso — nel caso della storia italiana il fascismo storico da cui sorge la Repubblica— non sia mai cancellabile del tutto e per certi aspetti sia definitorio delle democrazie così come sono nate o si sono evolute storicamente (e penso ancora alla schiavitù, al colonialismo, a varie dittature, alle guerre civili, ecc.) . Grazie Mauro!
EC: (riga 9 dal basso): ‘funzione’ leggi ‘questa funzione’
“ 18 febbraio 1986 – I « comunisti romani ». Senti come suona strano. E a vederli, poi. “.