di Sergio Benvenuto
[Testo dell’intervento alla Giornata di Studi “100 anni di perturbante”, 6 dicembre 2019, Roma].
L’aver tradotto il termine unheimlich da Freud con “perturbante” – e non con “lo spaesante”, per esempio, come Pietro Chiodi ha tradotto l’unheimlich di Heidegger – è risultato per molti italiani una trappola. Si tende a pensare che “perturbante” sia tutto ciò che turba! Alcuni miei studenti, ad esempio, mi chiedono se l’attacco di panico è qualcosa di perturbante… Anche l’assimilare l’unheimlich a una forma di angoscia, come di solito si fa, è un modo di fare di ogni erba un fascio. Mentre una lettura attenta del saggio di Freud del 1919 dovrebbe insegnarci invece a distinguere accuratamente i vari fenomeni che ci turbano[1]. Unheimlich è un turbamento tutto speciale.
Giustamente Alessandra Campo[2], nel suo intervento alla giornata “100 anni del perturbante” in Roma, lo fa rientrare in quei fenomeni che io stesso ho chiamato psicosi della vita quotidiana[3]. È il nome che ho proposto per una serie di fenomeni che Lacan ha descritto nella “Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla ‘Verneinung’ di Freud”[4], ovvero: allucinazioni erratiche non psicotiche, déjà-vu e déjà-vécu, sentimento di derealizzazione, acting-out. Non vi ho messo anche il perturbante, perché Lacan non ne parla in quel contesto, ma ci sta molto bene. In Psicopatologia della vita quotidiana Freud ci ha parlato di quelle piccole nevrosi quotidiane che chiamiamo lapsus, atti mancati, amnesie… nel senso che tutti ne siamo soggetti, anche senza soffrire di una specifica nevrosi. Ci perturba qualcosa di “pazzesco” che può capitare a chiunque di noi, pur senza essere pazzi, cioè psicotici. Proprio come certe allucinazioni[5], déjà-vu, senso di irrealtà, ecc. Il perturbante è una forma di pazzia transitoria, che l’arte può produrre in noi per divertirci.
Mi permetto di raccontare un evento personalissimo, e per me particolarmente tragico. Nel 1991, lo stesso giorno, a distanza di poche ore, persi contemporaneamente mia madre e la mia compagna. Mia madre morì a Napoli, la mia amata a New York. Pensai subito: “Ho perso lo stesso giorno le due donne che mi hanno amato di più”. Alcuni amici americani mi dissero all’epoca: “It’s uncanny”. Uncanny è l’equivalente inglese di unheimlich. Non riporto questo episodio lugubre della mia vita per fare appello alla vostra compassione, ma come un esempio utile per capire che cosa sia, in fondo, il perturbante.
Molti autori, da Heidegger a Lacan, hanno trattato dell’unheimlich come di un modo specifico dell’angoscia. Ora, nell’esperienza che vi ho riportato, non c’era veramente angoscia – ero troppo preso dal dolore del lutto per provare anche angoscia. Possiamo dire però che il perturbante è una sorta di embrione d’angoscia, l’aurora dell’Angst. Quando l’effetto unheimlich viene sfruttato dalla letteratura e dal cinema, nei generi che chiamano “fantastique” in Francia, “gothic” nei paesi di lingua inglese, esso produce un tipo specifico di piacere, che però è diverso dalla catarsi aristotelica. Aristotele descriveva l’opera tragica come piacevole nella misura in cui catartizzava, purgava lo spettatore dalla pietà e dall’angoscia[6]. Il genere perturbante non fa appello alla pietà, ma ci produce un godimento tinto d’angoscia connesso a una profonda perplessità. Nell’esempio personale da me evocato, la perplessità consisteva nel fatto che una cosa altamente improbabile – la morte quasi simultanea di due persone care – si realizzasse. La coincidenza aveva l’aria di un messaggio, insomma, di qualcosa di significante. “Che cosa può significare – ci diciamo – questa strabiliante coincidenza?” Non importa l’eventuale significato che potremmo trovare a questa coincidenza – magari un messaggio divino, o un atto diabolico, o una sincronicità junghiana, ecc. – l’importante è che l’evento improbabile, proprio perché improbabile, sembri significare. Ciò che ci perturba, in fin dei conti, è l’irrompere del significante là dove non ce l’aspetteremmo, nel reale stesso.
Freud dice nel saggio che l’effetto unheimlich ci rivela un modo di pensare primitivo, magico e sovrannaturale, che pensavamo di aver superato. È un termine che torna spesso in quel saggio, überwunden [surmounted], che il maldestro traduttore italiano traduce con termini diversi, mancando così l’unità del concetto. Überwunden ha il senso di sconfitto, soverchiato, sormontato – e quindi di sorpassato, superato. Le credenze magiche e sovrannaturali sarebbero quelle che intellettualmente abbiamo superato, ma preferirei dire sormontato. In effetti Freud non nota qualcosa che ha notato invece Tvetan Todorov, autore di un libro sulla letteratura fantastica[7]: che il perturbante come genere letterario nasce solo verso la fine del Settecento. Ovvero, il perturbante non è un sentimento sempre esistito, è un prodotto storico, nasce a un certo punto nella cultura europea. Esso è un sotto-prodotto dell’Illuminismo, ovvero di un modo di pensare che rigetta tutte le “superstizioni” – il magico e il religioso sono superstizioni – in un rimosso gnoseologico. Può sentirsi perturbato, può godere di un’arte perturbante, l’uomo e la donna che hanno sormontato il sovrannaturale. E in effetti, Freud già notava finemente che l’apparizione di fantasmi nel teatro e nella letteratura precedenti, ad esempio nell’Amleto, non produce alcun effetto perturbante. Come non sono perturbanti i film horror di oggi, quelli di vampiri o di zombi. Perché? Perché l’horror può produrre raccapriccio ma non quell’incerta perplessità che caratterizza il perturbante, e che si riassume nella domanda “come è possibile che il reale significhi?”
E in effetti, la percezione di un fantasma è perturbante solo se non si crede nei fantasmi. Nella vecchia Napoli, dove ho vissuto da ragazzo, gli anziani credevano tutti nell’esistenza dei fantasmi, nei sogni in cui i morti ci inviano messaggi, per cui i segni di una presenza di uno spettro non erano affatto percepiti come perturbanti. Spesso, stranamente, erano percepiti come qualcosa di comico. O munaciello – termine napoletano comune per spettro – era una sorta di clown giocherellone, talvolta però anche molesto. Tutto dioendeva se prendeva in simpatia o in antipatia i residenti vivi della casa di cui era intrinsecamente parte.
In linea generale, bisogna essere atei, per diventare facile preda del perturbante. Benedetto Croce, che era superstizioso, disse che la superstizione è “Non è vero, ma ci credo”[8]. Il perturbante ci fa dire piuttosto “Non ci credo, ma è vero”.
Se il perturbante è un prodotto di una evoluzione storica della soggettività possiamo dire che esista una storia dell’inconscio? Ma l’inconscio, per definizione, non è ciò che non ha storia? Chi scriverà mai una storia dell’angoscia? Ecco un tema che la psicoanalisi ha affrontato senza mai addivenire a una conclusione. Ovvero, l’inconscio di noi moderni è diverso da quello degli umani di mille anni fa? Il soggetto perturbato è insomma un soggetto miscredente, e proprio per questo l’irruzione del significante nel reale lo perturba. Lo inquieta, lo mette in crisi, non lo angoscia puramente e semplicemente.
La manovra geniale di Freud in questo saggio consiste nel mettere in evidenza la sinonimia, per così dire, dell’unheimlich con il suo supposto contrario, heimisch e heimlich. Unheimlich è il non familiare, l’heimisch è invece il più che mai familiare, il più intimo. In questo Freud sviluppa la tesi di Schelling, per il quale “l’unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, e che è invece affiorato”. Per Freud, quindi, l’unheimlich è qualcosa di profondamente intimo e familiare che, nella misura in cui affiora, assume la forma del massimamente estraneo e della inquietante stranezza (“inquietante stranezza”, inquiétante étrangeté, è il modo in cui in francese si è tradotto Unheimlichkeit).
Ma che cosa è questo fin troppo intimo che emerge nel reale anche se non dovrebbe? La risposta più ovvia, per Freud, è di vederlo come il ritorno del rimosso (Wiederkehr des Verdrängten). Ma Freud capisce ben che il rimosso può tornare in tanti modi diversi; anche i sintomi, i sogni, gli atti mancati, ecc., sono ritorni del rimosso. E in che cosa consiste la specificità del ritorno perturbante? Da qui il ricorso al concetto di überwunden di cui abbiamo parlato, del sormontato. Ovvero, il perturbante porta con sé l’impronta del ritorno di credenze primitive, di fedi tipiche di quella che Freud considera infanzia dell’umanità, le credenze nel sovrannaturale. In realtà, il nostro mondo moderno e turbo-industrializzato è tuttora primitivo, molti nostri concittadini vivono ancora nel Medio Evo. Credo che molti di voi se ne siano accorti. Basti pensare che il 10% degli italiani credono che la terra sia piatta, molti di più credono in tutti i miracoli di padre Pio, e così via. L’illuminismo – quell’illuminismo ateo e disincantato in cui Freud si inscriveva – resta tutt’oggi appannaggio di una minoranza. E questa minoranza disincantata viene scossa da quell’incanto subitaneo, fulmineo, che chiamiamo perturbante.
Nella più profonda intimità di noi, allora, crediamo tutti nel sovrannaturale? Il sovrannaturale nel senso in cui ne ho parlato prima: che il significante opera direttamente nel reale. Tutta la magia consiste nel voler incidere sul reale attraverso procedure puramente significanti. Nella più classica fattura (magia nera), si infila un ago (oggetto reale) nella foto (un significante) della persona che si vuole colpire per produrre un effetto reale: la parte del corpo reale della persona è colpita da qualche dolore o malattia.
Ma Freud non sottolinea abbastanza, a mio avviso, qualcosa che a me appare essenziale: il sovrannaturale che emerge nell’Unheimliche non è mai un sovrannaturale benefico, fausto, divino – è un sovrannaturale diabolico. Il famoso film di Dreyer Ordet (1954) si conclude con un miracolo: un pazzo e una bambina fanno risorgere una donna morta di parto. Questo non ci dà affatto un senso perturbante, anzi, ha qualcosa di gioioso, di sorpresa liberatoria. È quando sentiamo lo zampino del diavolo che ci sentiamo perturbati. L’unheimlich è il nostro vibrare a un demonico che ci appare più intimo, più segreto, più privato del divino.
Ora, come è noto, l’illuminista può anche credere in una divinità – molti illuministi erano teisti, come Voltaire – ma certamente non può credere nel diavolo. (Da qui deduco che non sono illuminista: trovo più verosimile l’esistenza del diavolo che quella di un dio.) Se diamo per scontato, ormai, che preda del perturbante è l’io razionalista e illuminista, l’uomo e la donna che credono nella scienza e nella logica, lo perturba l’emergere di una verosimiglianza diabolica, perché il diavolo, più che il divino, sono il vero rimosso dell’io illuminista.
Comunque, il lettore o lo spettatore deve preferire la chiave demonologica per godere, angosciandosi, del romanzo o del film. Il perturbante gioca sulla nostra disponibilità a ritornare a ciò che abbiamo sormontato.
Heine disse che col cristianesimo gli dei pagani si sono trasformati nei diavoli cristiani[9]. Ma quando l’io illuminista rimuove i demoni cristiani, emerge un diabolico più profondo e capzioso, quello che ci dà l’effetto perturbante: quello che Freud in questo saggio chiama “onnipotenza del pensiero”. Ma io la chiamerei piuttosto onnipotenza del significante: questa forza che ci assedia è ciò che la ragione assolutamente non vuole ammettere.
Si veda il dramma – poi divenuto anche film – Rosencrantz and Guildenstern are dead di Tom Stoppard. In questo dramma quasi burlesco sono evidenti i riferimenti alla filosofia di Wittgenstein. il tutto comincia in un quadro alquanto realista. Poi i due protagonisti, due personaggi minori dell’Amleto, si rendono conto che ogni volta che gettano in aria una monetina per decidere, esce sempre e solo testa. Ciò dà loro, e anche a noi spettatori, un senso perturbante: anche qui, come nella coincidenza della morte delle mie due donne amate, si dà come reale qualcosa di possibile, ma di altamente improbabile. L’improbabilità è l’aura stessa del significante, è la qualifica razionale di quell’irrazionale impossibile che emerge. E in effetti, il fatto che esca sempre testa inaugura l’entrare del dramma nella fiction, nel mondo del teatro e della letteratura dove tutto può accadere. Il perturbante, come aveva visto Todorov, segnala il tempo di un’incertezza, di un’oscillazione: qui tra due generi, tra il dramma realista e quello fantastico. Nelle arti, il perturbante marca lo slittamento dal genere detective story al genere del meraviglioso. Il perturbante è un passaggio che può restare però sospeso per sempre, eternamente irrisolto. Molti romanzi e film perturbanti ci fanno oscillare tra il sospetto che si tratti dello zampino del diavolo, oppure di diabolici piani umani.
Vertigo di Hitchcock è oggi celebrato tra i massimi capolavori della storia del cinema. Ci perturba il fatto che il protagonista incontri una donna che assomiglia come una goccia d’acqua a una donna che aveva amato, ma che lui sa morta. Abbiamo il sospetto, inammissibile, che la morta sia rediviva. Qui il regista opta, alla fine, per una spiegazione di tipo crime story, da “giallo” come diciamo noi: quella donna non era morta, era la stessa, dietro quella finta morte c’era un piano delittuoso veramente diabolico, è il caso di dirlo.
Non importa comunque quale soluzione trovi l’opera d’arte: il perturbante, questa piacevole angoscia, questo godimento non tragico ma ontologico, ci ha già punti, nel tempo della nostra incertezza e della nostra incredula credenza.
Molti sottolineano un punto che già Freud aveva evocato: la confusione tra il vivente e la macchina è perturbante. Nel Sandmann (L’uomo delle sabbie[10]) di Hoffmann, Nathanael si innamora di una ragazza, che poi si rivela essere una bambola. Oggi, film di fantascienza perturbanti ci mostrano esseri umani che si rivelano robot, macchine, replicanti. In effetti, il vivente è reale, nel senso che non è programmato – nemmeno da un artefice detto Dio. La biologia di oggi ci dice che i viventi non sono macchine nel senso che non sono frutto di un progetto. La macchina, dalla bambola al robot antropomorfico, sono invece oggetti fabbricati, insomma, appartengono alla sfera del significante. La tecnologia è potenza sul versante del significante, non della spontaneità della vita. In questo modo l’umano che si rivela macchina esemplifica il nocciolo del perturbante: questo corto circuito tra simbolico e reale.
Si dirà che una macchina scambiata per un essere umano non è un fatto sovrannaturale e nemmeno diabolico, è un prodotto della scienza. Che cosa allora di sormontato rivelerebbe la nostra confusione tra vivente e artificiale? Credo che oggi la tecnoscienza tenda a prendere il posto del diavolo di un tempo, nella misura in cui sia il diavolo che la tecnoscienza approfittano della potenza del significante. Il diabolico è la scienza del passato, la scienza è il diabolico di oggi. Grazie alla fantascienza, abbiamo oggi un perturbante tecnologico, dove è l’essere umano stesso a far straripare il significante nel reale. L’Altro con la grande A che appare dietro ogni evento perturbante prima tendeva a essere identificato al diabolico, oggi allo scienziato.
Lacan diceva che l’angoscia connessa al dubbio rimanda in realtà a una certezza da cui ci si difende[11]. Nel fondo, siamo certi del sovrannaturale, in particolare del diabolico.
Questo apre a una questione immane di cui si discute da millenni: che cosa fa sì che non si conosca società umana, per quanto primitiva, che non abbia credenze mistiche e religiose? Perché la credenza in qualche forma di sovrannaturale sembra universalmente diffusa tra gli umani? Questo è l’assillo del razionalismo: spiegare la quasi-universalità delle credenze irrazionali. È come se il nostro accesso al linguaggio comportasse come corollario inevitabile la credenza nel sovrannaturale, diabolico incluso.
Per giungere alla conclusione. Si è fatto notare che Freud scriveva Das Unheimliche mentre scriveva Al di là del principio di piacere. Anche qui, traduzione monca: Lustprinzip è ambiguo, perché Lust in tedesco significa sia brama che piacere, sia libido che godimento. Quale risonanza c’è tra questi due saggi scritti in parallelo? È il perturbante al di là del principio di desiderio e di godimento? Certo non quando viene provocato ad arte, quando ci istilla il godimento della perplessità ontologica. L’al di là del principio di desiderio e godimento è l’aldilà, scritto come una parola sola? Aldilà come sostantivo, non come avverbio. Insomma, al di là di Lust c’è l’aldilà inteso come altro mondo? Forse nel perturbante non intravediamo solo la persistenza di credenze superstiziose che Freud qualifica di infantili – e che sono piuttosto adulte – intravediamo come un buco di orrore che, lo riconosciamo, è al centro della nostra intimità più casareccia e più rassicurante. L’orrore, forse, di essere diventati umani.
Note
[1] S. Freud, “Il perturbante”, OSF, 9, pp. 81-118.
[2] Nel suo intervento alla Giornata sul perturbante del 6 dicembre 2019.
[3] S. Benvenuto, La psicoanalisi e il reale, Salerno, Orthotes, 2015, cap. Quattro.
[4] J. Lacan, “Réponse au commentaire de Jean Hyppolitew sur la ‘Verneinung’ di Freud’”, Ecrist, 1, Paris, Seuil 1999, pp. 379-397.
[5] Sulle allucinazioni non psicotiche: O. Sachs, Allucinazioni, Milano, Adelphi, 2012.
[6] Aristotele, Poetica, XIV, 2, 10‑14. Si veda: S. Benvenuto, “Il Godimento Tragico. Tra Aristotele e Freud”, Allegoria, anno XVII, 50-51, maggio-dicembre 2005, pp. 95-118. http://www.sergiobenvenuto.it/ilsoggetto/articolo.php?ID=35.
[7] T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 1977.
[8] Cfr. S. Benvenuto, Lo jettatore, Milano, Mimesis 2011.
[9] Heine, Die Götter in Exil (Gli dei in esilio).
[10] La traduzione in italiano del racconto con Il mago sabbiolino crea spesso confusione nei commentatori. Vi vedono una prevalenza del magico che invece in questo raccointo è marginale.
[11] Lacan, Le Séminaire, livre X, cit., p. 92. “Il dubbio, quel che esso dissipa in sforzi, è fatto solo per combattere l’angoscia, e appunto attraverso delle esche [leurres]. È che si tratta di evitare quello che, nell’angoscia, si tiene di spaventosa certezza”.
[Immagine: Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann nell’allestimento teatrale di Robert Wilson e Anna Calvi (mge)].
“ Lunedì 10 marzo 1997 – « Penso che il fascino delle vecchie fotografie, a parte i graffi e le macchie, sia il pensiero: “ Adesso sono tutti morti “. Quelle persone camminavano e non pensavano che la morte li avrebbe raggiunti; lo fanno tutti – pensano di essere eterni e che sono solo gli altri a morire – tutta quella gente color seppia che cammina nella strada del tempo; e tu pensi: “ Adesso tutti sono morti “: è questo che li rende affascinanti. » (Francis Bacon, in Mario De Micheli, Il disagio della civiltà e le immagini, 1981, in Stefano Ferrari, Il perturbante nella fotografia. Qualche indagine sulle implicazioni psicologiche del fotografare, in «Studi di estetica», 14, 1996) “.
@adrianobarra
“L’idea che la fotografia possa essere l’unica forma di sopravvivenza per certe creature, che possa ugualmente continuare ad agire dopo la loro morte, affiora abbastanza presto in Proust, in Jean Santeuil. La monaca di Anversa è suor Lalie. Jean e Henri vorrebbero incontrarla di nuovo, ma quando si presentano al convento, viene loro annunciata che la suora è morta. La madre superiora può solo mostrare una fotografia scattata durante la sua malattia. Esaminano la fotografia – ‘ quel che di lei restava’- e sul volto della morta riconoscono una passione che non aveva niente a che fare con ‘il fuoco della devozione’ decifrato dalla madre superiora. In un altro punto del romanzo veniamo a sapere che suor Lalie, prima di ritirarsi in convento, era l’amante di Henri de Reveillon.”
Brassaï, Marcel Proust sous l’emprise de la photographie, Gallimard, Paris, 1997 p.109
@ Alessandro Taverna
“ 11 maggio 1988 – « Una psicoanalisi delle arti plastiche potrebbe considerare la pratica dell’imbalsamazione come un fatto fondamentale della loro genesi. All’origine della pittura, della scultura, troverebbe il complesso della mummia. La religione egizia, diretta interamente contro la morte, faceva dipendere la sopravvivenza dalla perennità materiale del corpo. » (André Bazin, Che cosa è il cinema, 1958) ”.
@adrianobarra
“Le necropoli di Fayoum hanno restituito un certo numero di questi ritratti, che si collocavano sulla mummia. Le bende erano disposte in modo da lasciare scoperta la parte dipinta e quando Albert Gayet discese nelle tombe, sembrò che i defunti avessero scostato il sudario per salutare l’archeologo”
Émile Guimet, Les portraits d’Antinoé, Hachette, Paris, 1912 p. 27
@ Alessandro Taverna
“ Martedì 13 giugno 1996 – Le donne sono belle. Lo penso sempre e l’ho pensato anche qualche minuto fa quando l’ho quasi abbracciata – involontariamente -, entrando in ascensore (lei usciva). Sono belle e visibili. E io voglio credere a quello che vedo. Io che, inutile fingere, donna non sono. (Quando ero ragazzo andavo spesso ai musei. A quei tempi non c’era nessuno, solo qualche turista silenzioso, per lo più tedesco. Nei musei il silenzio è più forte che altrove. Forse perché dai muri ti guardano tante figure di uomini, di donne, di animali, meravigliosamente vestite, o meravigliosamente nude, colorate, brillanti, ma che non parlano. È strano il modo di non parlare dei quadri. Guardandoli, avvolti nel loro silenzio, implacabilmente zitti, viene voglia di tacere anche noi, come se il tacere fosse un modo di parlare, di dire, più forte, più vero di quello delle parole. Che spesso sono troppe, inutili, rumorose. C’è una verità nei quadri che può fare arrossire. Il quadro inoltre ti manda a dire che, in ogni caso, lui non può parlare, non può e, in ogni caso, non vuole. C’è una modestia insostenibile, nei quadri. Oppure è qualcosa d’altro. Un’obiezione. Capitale. Un partito preso. Un’irriducibilità. Una severità. Imbarazzante. Forse per tutto ciò, io, passando di sala in sala, soffermandomi di fronte alle tele sempre meno di quanto avrei voluto – capivo che a restare ancora avrei visto qualcosa che non avevo ancora notato, sarei « entrato » ancora più a fondo in mezzo a quelle linee, a quei colori così belli, così potenti, ed era per questo che, ogni volta, passavo oltre, perché, dopotutto, io di quelle superfici così profonde, di quel « dentro » così abissale, avevo paura – cercavo di scrivere qualcosa che stava fra l’appunto « al di là » radicale, intraducibile, inattingibile. Perché io, lo sapevo allora e lo penso anche oggi, non sarei mai stato capace di tacere così perfettamente, irresistibilmente, come quelle entità sovrumane, che delle cose avevano l’evidenza assoluta, l’austerità, la sapienza. Parlare, scrivere, da quel punto di vista sembrava sempre qualcosa di troppo, di perfettamente inutile, di buffo, di vile. O di straziante, come il pianto di un bimbo. Se fossi rimasto là dentro avrei finito per tacere anche io, mi sarei fatto di pietra, coinvolto in quel micidiale silenzio. Poi uscivo e mi trovavo in strada. Sentivo i motori, i piccioni, le voci dei passanti. Il suono della vita. Mi vergognavo un po’ di essere uscito, mi sentivo vigliacco, e troppo, troppo umano. La vita mi riprendeva, così superflua, buffa e micidiale com’è) (A che serve scrivere? Se si tratta di emettere dei suoni – spaventati, ridicoli – in vista di qualcosa che non si capisce, qualcosa di tremendamente bello, grande, vistoso, forse feroce, come bestiole impaurite e stupide. Se è soltanto chiamare, nella perfetta solitudine, nel prevalente deserto, qualcuno che non c’è e che non si sa nemmeno chi sia. Se si tratta di essere sempre quello che piange, frigna, mugola, strepita. Se è così allora temo che serva a poco. Per servire bisognerebbe che fosse notte, quando tutti dormono, quando le voci si sentono, quando l’usignolo canta, d’estate, nel morbido buio, nell’aria serena, come in un sogno già sognato) (Vedevo la gente con la faccia verde, come a un concerto punk, vedevo gli omìni piccini piccini, come da un areoplano. E città sconosciute, strane, che tuttavia mi sembrava di riconoscere, che avevano un ché di familiare, come se le avessi già viste, o forse sognate. Vedevo facce, corpi, occhi di tizi che erano tutti morti, da tanto tempo, e che però, pur essendo morti, si vedevano ancora. Forse, pensavo, è questa la ragione del silenzio della pittura, è il silenzio di chi non c’è più, ma vuole esserci ancora, come un’apparizione, come un fantasma, come un ricordo. Allora da quelle guance verdi, da quei corpi fatti minuscoli dalla distanza, mi sembrava che venisse un immenso richiamo, che quelle figure di sconosciuti scomparsi parlassero forte e chiaro, in una lingua teneramente vicina, come amici, come parenti. Che non si deve dimenticare. Che erano stati lì dove ora ero io, sapendo di doversene andare, lasciando una prematura traccia di sé, un segno della loro presenza. Io, che ora c’ero, pensavo che avrei dovuto subire con più pazienza, con più attenzione, quel discorso dell’oltretomba, anche se, dopotutto, mi risultava penoso. Anche se, dopotutto, sapevo benissimo che quelli che le avevano dipinte, quelle figure, quelle immagini, erano, quando le dipingevano, parecchio vivi, forse più vivi di me che ora le guardavo. Capivo già, e poi avrei sempre più capito, che, in un certo senso, era tutto uno scherzo, di Carnevale, di commedia, di gente che si dipinge la faccia, per farsi vedere, per fare ridere. Come gli illusionisti, come gli attori, come i bambini, che pensano sempre di dover piacere a qualcuno. Come le donne, che sono sempre grandi e sono sempre piccole, incerte sul da farsi, almeno quanto noi) (Che vanno, vengono, soprattutto vanno, scappano, tornano, piangono, ridono, si truccano, si vestono, si spogliano, ma soprattutto restano. Come quei quadri, in quei musei, un po’ meno silenziosi di prima, con i turisti, un po’ più giapponesi di prima, allineati, appesi alle pareti, gli uomini immobili in un passo di marcia, il santo inchiodato in volo, le fanciulle paralizzate nella danza, la barca eternamente grigia davanti al castello. Per sempre) (Forever, come direbbe quello dei Simply Red) “.
@adrianobarra
“Se esiste un perfetto museo della botanica, di certo non sarà fatto di fiori recisi, tanto meno essiccati, o di essenze morte e sradicate; dunque purtroppo, conseguentemente, persino i più bei Balenciaga dopo cinquant’anni su di un manichino, non sono ormai quasi più niente. La materia naturale che compone infatti un abito – quindi non solo il suo tessuto, ma ogni cucitura, rifinitura e qualsiasi invenzione strutturale – come e più dei pigmenti pittorici che compongono un quadro o un affresco, ha un tempo di vitalità limitato e quindi è perlomeno appropriata l’osservazione di Cocteau, secondo il quale gli abiti, più che passare di moda, pietosamente, talora persino drammaticamente, muoiono. Allora in effetti, più che di un museo della Moda si tratterebbe di una sala necroscopica, un vero e proprio museo di cadaveri. Più o meno truccati, più o meno conservati e mummificati.
Cosa potrebbe tornare a essere un décolleté su di un manichino imbottito, o addirittura in aria e vuoto? quei décolleté centellinati dalle sapienti intenzioni dei loro autori e che con entusiasmo e partecipazione avevano accolto e abbracciato tutte le varianti di seno che le modernità e gli stili pretendevano e dettavano come assolutamente nuove e inderogabili, come sempre mai viste prima, per un’anatomia ogni volta come appena creata?”
Quirino Conti. Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 275
La Crisi della Presenza
La Fine del Mondo di Ernesto De Martino, un opera magna del pensiero dell’antropologo, risale al 1965, anno in cui l’autore venne a mancare e, pertanto, non vide la sua pubblicazione e ne una sistematica presentazione, come poteva essere nei suoi intenti. Da alcuni mesi è nelle librerie, edizione a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, e presenta con grande anticipo una lettura apocalittica di un sistema doxico-ideologico fondato su una presuntuosa visione etnocentrica, a cui l’antropologo partenopeo cercò a più riprese di porre riparo, attraverso una visione fondata su un etnocentricismo critico, segnalando la necessità di passare da un confronto delle culture a una cultura del confronto, quando cita: “….come tale raggiungimento di un ethos è possibile se alimentato dal confronto della storia culturale dell’occidente con le altre e diversificate e disperse e divergenti sistemi culturali, in vista di un compimento di unificazione molto umilmente umano e molto storicamente determinato.
Confronto che non esclude ne il mondo magico, come tragicità dell’umana presenza di quelle culture storicamente date, e ne l’atteggiamento etnocentrico del nostro sistema doxico-culturale, talchè non si ponga nella condizione di deus ex machine, ma che accetti il confronto passionale con l’altro modo di essere. L’antropologo guarda alla storia del magismo come un modo di esserci in opposizione al fenomeno dell’olonismo, una condizione di alterata coscienza, testimone ora della crisi della presenza, ora di un suo possibile riscatto attraverso l’atai, che fa delle pratiche shamaniche il raggiungimento di una condizione storicamente determinata, di resistenza rispetto alla definitiva disfatta della presenza.
Un punto di contatto tra la condizione di spaesamento e l’olonismo, una congiuntura di fenomeni derealistici e di depersonalizzazione comuni ora al mondo magico ora al nostro mondo “evoluto”, che per entrambi si pone il tema comune dell’essere vacillanti e deietti.
In questo modo potremmo cogliere il prezioso apporto delle antropologie psicoanalitiche, dove la comprensione e l’interpretazione dell’essere vacillante, come “Crisi della Presenza”, si da o come possibile scacco di una condizione e situazione attuale e irrevocabile del nostro essere, tra mondo magico e rappresentazione della realtà, o come cambiamento pre-catastrofico di ricerca di una donazione di senso di una esistenza vacillante.
I fenomeni che vanno dallo spaesamento alla perdita del senso di realtà, e della perdita della sicurezza ontologica (Laing) sono in un continuum, e non dovrebbero essere considerati per forza delle patologie, se non come modi di percepire il proprio se e l’altro.
La polarità estrema è dato dal delirio d’influenzamento, descritto da VicKtor Tausk, allievo di Frued, che assimilava la scissione somatopsichica come espressione di una modalità delirante in senso persecutorio, una corporeità che si disincarna dal sé e diventa oggetto della manipolazione delirante di una macchina influenzatrice, come ebbe a descrivere in un suo articolo Sulla genesi della “macchina influenzante” nella schizofrenia, 1919.
Il nostro mondo intellettuale pone il difficile compito di posizionamento della soggettività, a partire dalla connotazione psicopatologica dello spazio clinico della relazione fondata sulla intersoggettività e sulla Soggettualità, e ancor di più il posizionamento di un’eredità post-manicomiale conforme ai nuovi significati terapeutici e di controllo sociale.
Propongo lo “spazio dell’uno e dell’altro” connotati da nuovi significati clinici e terapeutici, sottesi dalle nuove concezioni di Einstein, Bergson, Heidegger, Freud:
1)Heinstein coniuga lo spazio al tempo: “Il nostro spazio fisico, così come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l’evento è il quarto numero.”
2)Bergson definisce lo spazio come un arresto ripetitivo dello slancio vitale.
3)Heiddeger conferisce allo spazio una condizione originaria dell’esistenza in quanto essere nel mondo, inteso non come luogo posizionale geometrico ma come luogo situazionale.
4) Freud pone il soggetto come soggetto dell’Inconscio.
In tal modo lo spazio si configura attraverso:
– l’azione, nel prendere un orientamento spazio/temporale, nel collocare lo spazio attuale rispetto a quello virtuale, nella spazializzazione di un singolo evento umano. Alla dimensione estensionale dello spazio si aggiunge quella intenzionale.
– Il ritmo dettato dallo slancio vitale
– La condizione situazionale del soggetto in teso come Leib in opposizione a quella di Korper, che pone nel proprio corpo vissuto la frontiera del proprio essere al mondo, animato da pulsioni di vita e di morte.
Azione, ritmo, corpo, forniscono il pentagramma su cui si articolano due modelli teorici antropici del “900”:
-Lo spazio sociale
-Lo spazio intrapsichico
Il primo è la teoria elaborata da K. Lewin che definiva lo spazio vitale come la rappresentazione psicologica dell’ambiente in cui l’individuo opera.
IL secondo modello è quello fornito dalla metapsicologia Freudiana.
Questi modelli antropomorfici segnano il passaggio della concezione dello spazio inteso come estensione geometrica a quello relativo di un campo antropico centrato sull’essere e sull’inconscio.
In tal senso l’osservazione del luogo coglie sincronicamente l’uomo nella sua paticità, come sostiene Callieri, lo spazio è qualcosa che accompagna l’uomo, il suo Affekt sin dai suoi primi mesi inconsci nel grembo materno. Minkowski nel saggio Spazio, Intimità, Habitat, afferma che accanto al tempo vissuto esiste uno spazio vissuto, irriducibile ai rapporti geometrici, irriducibile ad un sapere astratto; esso costituisce il teatro dell’agire e si dispone entro una trama di tensioni, d’intenzioni, di percorsi dotati di senso. La Follia dice Minkowski è l’incrinarsi di questa esperienza di senso: dischiudersi di spazi immensi e infiniti, di spazi mobili o distese desolate, di luoghi cifrati di rimandi e tracce note e di luoghi sconosciuti, inospitali e muti. In altri termini la follia è un ordine spezzato nell’abitare e nel vivere lo spazio, nel misurarne e nell’attraversarne le distanze nell’azione.
Lo spazio vissuto non solo dallo sguardo, ma dalla percezione cenestesica che è la più ancestrale, fondante la dimensione corporea della propria territorialità fino a plasmarsi con l’Affekt dell’attaccamento primario. Qui il codice linguistico è costruito più dall’essere biologico che da quello semantico, ma è qui che spesso s’insinuano le lamentele dei nostri pazienti che denunciano il loro stato di derealizzazione: “il mio corpo non è il mio, e come se non mi appartenesse”, fino allo sviluppo di franche dismorfofobie deliranti.
Comprendiamo allora il sentimento di derealizzazione, un essere non più spazializzato in un dove, ma incrinato in una sorta di estraneità maligna.
E’ ciò di cui Freud(1919) parla nel saggio Das Unheimeliche(il Perturbante), ove la coazione a ripetere ripropone l’angoscioso affetto del non familiare, del celato, del nascosto che riaffiora ripetutamente attraverso una imago fantastica dell’orribilante: è la credenza del bambino di Hoffmann nel romanzo “il mostro sabbiolino”, dove la credenza spaventosa percorre i luoghi dell’infanzia.
Ma sono i luoghi dell’agire umano quelli in cui prende il sopravvento il sentimento perturbante, il nuovo è tale in quanto “vosterlung” di antichi significanti rimossi: il perdersi, il non ritrovarsi, la ripetizione angosciante di cercare la giusta via per uscire dall’incubo dello smarrimento.
E’ la perdita del familiare, del quotidiano, la rottura con il reale attraverso cui il delirio, la follia eccede rispetto alla significazione.
Per non citare il lavoro di Freud del 1936: Un disturbo della memoria sull’Acropoli. Qui non siamo più innanzi ai soli fenomeni del non familiare, dell’incredulità, dello spaesamento, ma siamo in presenza di una paramnesia, di cui Freud fu vittima, esponendo la propria fragilità preedipica, il proprio irrisolto personale come un buco della rete dei significanti inconsci, un rinnegamento del reale.
Risposta all’articolo di Sergio Benvenuto: Autismo. Una battaglia persa della psicoanalisi.
(Agnosia della Soggettività)
Patologia dell’autismo o polimorfismo ontologico dell’homo sapiens?
Benvenuto propone una lettura dell’autismo come una modo ontologicamente differente “dell’esserci al mondo”, rispetto ai soggetti neurotipici, nel senso in cui, gli autistici sono caratterizzati da un’agnosia della propria soggettività. Non si tratterebbe di “non avere, più o meno, la capacità di conoscersi nella propria soggettività”, piuttosto, quanto di una menomazione della funzione eidetica della soggettività. Questa impostazione per certi aspetti, attiene ad una visione Jacksoniana del rapporto tra cervello/psiche, almeno quanto lo sono i sintomi positivi/negativi della schizofrenia.
Negli anni 80’, Henry Ey (1) e Brisset si fecero promotori di una teoria Organodinamica (2), che elicitava il danno cerebrale come espressione di una riduzione del funzionamento focale e globale della soggettività, la cui riorganizzazione, è da intendersi come epifenomeno residuale della stessa Funzione psicorganica, rimaneggiata dalla spinta pulsionale. Questa teoria è da ricondursi ad una visione biologica sostenuta da J. Hughlings Jackson (3), uno dei padri fondatori della Neurologia come scienza, che ha molto influenzato e molto ha contribuito a sviluppare il paradigma Biopsicosociale.
Un discorso questo biopsicosociale, i cui limiti non riguarda solo quello sull’autismo, ma una weltanschauug che prende radici su più livelli, quando individua il giano bifronte dell’essere ontologicamente autistico/essere neurologicamente disabile, un rischio epistemico che fa passare una condizione fondata sull’òntos come modalità primigenia di una vulnerabilità patogenetica.
In questo scorcio d’inizio secolo, le posizioni sull’autismo, rischiano di diventare stigmatizzanti, ideologiche, o addirittura assorbite dal linguaggio burocratico del DSM-V, e pur tuttavia, la ricerca in campo filosofico, psicoanalitico e psichiatrico, non può e non deve essere concepita, come una rete di valori ideali, improntati solo ad una visione solidale e della cura, ma mettere al centro della doxa scientifica, anche posizioni anticonformistiche che non vanno confuse con visioni ciniche dell’uomo.
Guardo alla tesi proposta, come complanare alla modalità di revisione delle teorie sulle schizofrenie, nel senso che anche in questo campo è stato posto il tema ontologico dell’essere schizofrenico. Stanghellini Giovanni,(4) pone a fondamento della vulnerabilità antropologica della schizofrenia, una variazione dei valori che costituiscono il senso dell’appartenenza in questo mondo (un altro eidos). E’ evidente che muoversi sulla radice “del cosa” e non “del come” offre una weltaschauung in opposizione agli odierni sistemi culturali, mettendo”beneficamente” a rischio la costruzione dell’intero edificio nosografico. Rispetto a tali ipotesi, e sottolineo ipotesi, resto cartesianamente perplesso, e vorrei porre con il mio contributo alcune questioni, sia a favore che contro.
1) Alcuni dati: L’autismo secondo i dati, in USA, ha un indice di prevalenza pari 1 su 68 soggetti, con un tasso del 1,68% della popolazione; la schizofrenia ha un indice pari al 1% della popolazione, numeri, che non sono poi, così lontani tra di loro e non coincidono con quelli forniti dagli autori dell’articolo. Sia la schizofrenia e sia l’autismo a tutt’oggi restano ad etiopatogenesi sconosciuta.
2) Nel caso in cui autismo e schizofrenia sono varianti ontologiche dell’homo sapiens sapiens, non avrebbe alcun senso distinguerle in concezioni nosografiche distinte, essendo sostenute da una vulnerabilità la cui radice ontologica potrebbe essere comune, sia in tutte quelle condizioni in cui il Delirio schizofrenico (il mondo autistico) sintomi positivi, sono in parte collegati all’autismo Idiopatico, ricordando che quest’ultimo corrisponde, a quelle forme cliniche di autismo pari al 90% dei quadri sintomatologici, senza che vi sia correlata una condizione geneticamente nota.
3) L’autismo Sindromico corrisponde al 10% dei quadri di autismo, associato almeno ad una condizione geneticamente nota, come il caso delle S. X-Fragile; S.Sclerosi Tuberosa; S. Angelman; S. di Rett, Fenilchetonuria, ect. Queste forme pongono una questione centrale, come nel caso della Sclerosi Tuberosa (SCT) che costituisce un modello di studio: se la SCT è diagnosticata in epoca prenatale, e se oggettivata da terapie mediche che neutralizzano il Complesso mTOR, l’andamento dell’autismo può variare significativamente. La storia naturale della stessa forma sindromica cambia direzione.
Il che manda in crisi una presunta costituzione ontologica tipica dell’autismo.
Formulo alcune ipotesi:
1) autismo idiopatico e mondo autistico, giocherebbe a favore di un continuum dimensionale vs categoriale?
2) l’ipotesi modello SCT, dimostrerebbe che non vi sono alterazioni ontologiche ma solo di tipo Organodinamiche, legate a variazioni multigeniche o monogeniche e dei pathuay molecolari. In questo caso, la suscettibilità soggettuale alla sofferenza autistica e/o schizofrenica pone in risalto una visione in cui l’Organodinamismo è in funzione dei fattori sia biologici e sia degli effetti della terapia-genica, nonché degli interventi riabilitatitivi dal 1 anno di vita. L’ipotesi (1) e (2), sottendono, poi, i fattori ambientali (pulsionali, ecologici, relazionali, età anagrafica dei padri), configurandosi come una condizione clinica multifattoriale, che impone un superamento del paradigma odierno.
3) Superamento di una visione nomotetica.
Propongo l’ipotesi di una relazione tra costituzione e sviluppo della mente, connettendo il modello Idiografico con quello Organodinamico (focale e globale), in opposizioni a visioni nomotetiche e ontiche dell’esserci al mondo, e a favore dell’unicità e della irripetibilità della soggettività umana. Mi pare urgente, vista la crescita delle neuroscienze e delle sperimentazioni delle terapie geniche, evitare la commistione tra ontologia e patologia. Per esempio una terapia genica, come gli inibitori del Complesso mTOR nella SCT , fa rischiare un cambiamento della dimensione ontologica della storia naturale dell’uomo e del soggetto autistico, talché porrebbe come possibilità, con una cura medica precoce e con un intervento riabilitativo precoce, la messa in atto di un’oscillazione dal fenotipo “naturale/patologico” come variabilità di un’oscillazione ontologica altrettanto di tipo naturale/patologico.
Ovviamente quanto detto, va preso come una provocazione, nel senso in cui cerco solo di anteporre alla condizione dell’esser-ci, quella della variabilità biologica, e non quella ontologica, per quel che riguarda la patologia autistica.
Pertanto in tale visione, parlare soltanto dello Spettro dell’autismo (DSA), si rischia di cadere in un riduzionismo culturale di tipo epidemiologico, biologico, concettuale. Tuttavia ravvisare nell’autismo e nelle sue molteplici varianti fenotipiche un tratto strutturale comune, mi pare poco soddisfacente, vista la complessità del fenomeno che non può a mio modo di vedere, essere espressione di un solo vertice osservativo. E poi chiedo, ma perché cercare un tratto strutturale ontologico accumunante? Non vorrei, che lo sfondo doxico-ideologico sia legato al desiderio di una semplificazione della complessità e della diversità, intesa come diverso da me, ma non Altro da me!
Procedo con ordine.
IL mondo dell’autismo.
Strauss, 1974, propose la differenziazione tra due profili sintomatici nella schizofrenia: i sintomi positivi ed i sintomi negativi. Nel 1980 Crow (5) propose una tipologia della schizofrenia basata sulla dicotomia positivo-negativo. Come precedentemente detto prima di Strauss e di Crow, fu Jackson a servirsi dei termini “positivo”, e “negativo”, per delineare i fenomeni neurologici primari e secondari. In tal senso, secondo Jackson, i sintomi negativi derivano direttamente da un danno delle aree del cervello ritenute responsabili della produzione del comportamento dell’individuo, mentre i sintomi positivi riflettono i processi del cervello che vengono disinibiti o rilasciati dal cervello danneggiato.
Henry Ey prende a prestito dalla neurologia il concetto di Sindrome Dissociativa, per elicitare la serie sintomatica negativa della Schizofrenia, intesa come lesione organica, e quella positiva che inerisce al Delirio Schizofrenico, da intendersi come “il Mondo dell’autismo”, di cui parla non solo Henry Ey, ma cito in senso diacronico rovesciato, Minkowski (5), Binswanger, (6) Bleuler (7). Quest’ultimo meriterebbe una citazione a parte, in quanto i suoi criteri (Sintomi fondamentali e accessori), hanno prodotto per circa mezzo secolo una sovrastima del mondo schizofrenico, facendolo coincidere, tout court, con la condizione che tutto è schizofrenico….
In questo ambito complesso, segnalo un’indicazione di Mario Maj(8) 2000, che propone un superamento della denominazione di Sindrome Schizofrenica, a vantaggio di Psicosi Primarie, di cui l’autismo è individuato come segno patognonomico.
Accostare l’autismo e la schizofrenia a due o più sistemi nosografici distinti è tuttora un’operazione epistemologica che richiede ulteriori confutazioni e/o verifiche, nel senso in cui è necessario individuare le differenze tra le forme genetiche dell’autismo che probabilmente tenderanno a superare largamente la stima del 10%, in quanto oggi l’attenzione della neuro-psichiatria, è tesa all’individuazione di quelle forme genetiche a cui è associato il disturbo autistico. A complicare la valutazione dell’autismo è la comorbilità a tutte quelle condizioni neuropsicologiche caratterizzate da deficit della performance cognitive, che spesso accompagnano le forme di autismo, ma non ne rappresentano il core sintomatologico.
Dunque bisognerebbe definire di quali forme di autismo stiamo parlando.
Mi sembra che nell’articolo e anche nelle risposte dei critici, non viene fatta alcuna menzione di ciò, se non con la riduttivistica formula del DSM V (5), che inserisce “i mondi dell’autismo”, le forme di autismo sindromico e idiopatico all’interno dello Spettro (DSA) (9), passando per la S. di Rett come forma simil-autistica e tutte quelle NAS (Non Altrimenti Specificate).
Ciò mi sembra una riduzione, a ipotesi definitoria, che può essere comprensibile per quella parte descrittiva della psichiatria, ma non è convincente per il mondo ermeneutico in quanto tale. Ricordo che nella letteratura Bioniana l’ipotesi definitoria coincide con la “bugia”, come un modello euristico in cui il fatto scelto, attende una sua realizzazione oppure una possibile confutazione.
In tal senso il mio contributo vuole porre in atto un ragionamento clinico se la supposta “agnosia della soggettività” sia compatibile, in quanto visione ontologica di tipo eidetico, con la tesi Jacksoniana, e in tal caso vada ricondotta ad un deficit organo-strutturale, e in alternativa, propongo, sin da ora, una lettura sia dell’autismo idiopatico e sia del mondo autistico come condizioni in cui l’eidos, è sempre cangiante rispetto ad un modello idiosincrasico della mente, in opposizione alle visioni nomotetiche di tipo jacksoniano.
Quale contributo può offrire la psicoananlisi?
Indubbiamente una psicoanalisi fondata su una visione ontologica, è più vicina al contributo Binswangheriano, antropoanalitico, che inferisce la soggettività “stramba”come “inconsistenza”, del modo di essere/esserci dello schizofrenico. Husserl propone una lettura eidetica dell’uomo, dell’essenza, che poi sconfinerà in una visione troppo ideale e spirituale dell’essere come appartenenza al mondo. Piuttosto Minkowski mutua da Bergson, il concetto dell’èlan vital, come precondizione del contatto con la realtà, la cui deficitarietà sarebbe alla base del disturbo schizofrenico. Proprio in quest’ultimo si assiste per compenso, ad un eccesso di significazione, per rimediare alla perdita dell’evidenza naturale del senso comune (Blankenburg). In questo senso se l’autismo è sprofondato nel reale, nel sensoriale, il suo contatto non necessità di alcuna astrazione intuitivamente fondata sull’eidos, ma di modelli matematici. In questo senso concordo pienamente con Benvenuto, che suggerisce, un intervento d’irrigazione di “ buona terra” nel mare dell’ES, impoverito strutturalmente, dalla condizione autistica. Un intervento attivo-creativo del terapeuta che cerca di embricarsi nella modalità autistica, come preconcezione di una donazione di senso. In tal modo l’intervento della relazione psicoanalitica, è un processo per la costruzione della soggettività, collegata più ai processi trasformativi che ai processi correttivi di un modo di essere.
In una visione Bioniana, i processi trasformativi TOTK coinvolgono sia la coppia terapeutica e sia il gruppo, in modo che, le impressioni emotive di O, elementi Beta, possano essere reintrodotti all’interno della stanza di analisi, come oggetti K,L,H, (Knowledge, Love, Hate), Bion, Trasformazioni,1975. Ciò è reso possibile passando da un atto esperienziale fondato sul Pathèma, alla sua possibile decodifica in un Mathèma (Corrao, 1981), secondo come, l’esperienza agganciata alla freccia pancronica, ci permetterà di poter presumere per come si presenta l’invariante dell’esperienza vissuta, O.
Tutta la teoria bioniana è una teoria gnoseologica, che indaga sui processi con cui il soggetto sviluppa comprensione e conoscenza. In questo senso l’autismo, riprendendo il concetto di Benvenuto, in quanto agnosia della soggettività, elicita, secono il mio punto di vista, il fallimento dei processi trasformativi, e come esito di un attacco al legame, e non già quelli di una variazione genetica dell’ontos.
In questo senso l’autismo, in quanto agnosia della soggettività, è mancante di un sapere di sé stesso , αὐτός , in quanto preverbale e antipredicativo. Manca di un sapere incarnato della coscienza di sè. La teoria gnoseologica di Bion, è legata alla costituzione di una soggettività che non può prescindere dai processi ideo-cognitivi-affettivi, che si fondano sul funzionamento alfa. Ricordo che quest’ultima prevede, in condizioni fisiologiche, che “l’attenzione vada incontro al sensoriale”, perché gli elementi Beta, il sensoriale, l’esperienza emotiva di O, possa essere processato, incarnato, in ideogrammi, che vanno a costituire i mattoni, con cui si realizzano le reti dei significanti. Nei soggetti non autistici ciò avviene attraverso il sogno, l’attività onirica della veglia, una discreta Rèverie, con la trasfomazioni dei mitologhemi e delle figure retoriche (metafora e metonimia). Fatta eccezione per quelle forme genetiche di autismo, anche per tutte le altre condizioni si riconoscono comunque condizioni costituzionali ed epigenetiche nel determinismo dell’autismo. In queste ultime ma in generale, gli aspetti legati al fallimento della processualità con cui si sviluppa la soggettività non può essere misconosciuta rispetto al fallimento della Rèverie, come sfasamento del rapporto contenuto/contenitore, determinando l’impossibilità da parte del neonato, di accedere ad una metabolizzazione delle emozioni forti, ostacolando non solo la trasformazione del sensoriale, ma anche la possibilità di invertire la processualità da elementi alfa in elementi beta, Betalomi (Antonino Ferro,1992). Il soggetto autistico è deficitario di un apparato per pensare, in questo caso l’autismo potrebbe essere la rappresentazione della casa senza mura, una persona in cui i processi presemantici, si presentificono con un insieme vuoto: L’allucinosi.
In Trasformazioni, Bion segnala come il “.” (punto), indica il luogo dove soleva esserci l’oggetto, il Das Ding, che innesca nella nevrosi i processi a moto rigido, mentre le trasformazioni iperboliche, sarebbero tipiche degli psicotici, in cui il “.” è sostituito dall’oggetto bizzarro. Nell’autismo, penso, che il “.”, è fuori dal campo dell’Altro, e coincide con il vuoto, il soggetto assume il sensoriale, allucinandolo non necessariamente con le allucinazioni tipiche delle psicosi, non nel senso del delirio.
Sempre in Trasformazioni Bion, chiede quale sia il dato da inferire dalla somma tra 0+1; la risposta ingenua sarebbe +1, che corrisponde al dato concreto, all’allucinosi, così come nell’autismo è l’unico dato possibile, a differenza di una soggettività significante, la cui risposta è ZERO, che si da come concetto della “zerità”, come possibile donazione di senso.
Ipotesi Definitoria, Y, Attenzione, notazione, giudizio, memoria, azione, costituiscono la parte orizzontale, sincronica, della griglia di Bion, fattori presi a prestito dalla metapsicologia freudiana, e rappresentanti i precursori delle trasformazioni che portano i processi primari a quelli secondari, in accordo con le trasformazioni evolutive in senso diacronico della parte verticale della griglia,
elementi , elementi , sogni, miti, preconcezioni, concezione, concetto, sistema deduttivo scientifico, calcolo algebrico.
Tali asserzioni vanno intese solo come esercizio di un pensiero psicoanalitico e non di una verità scientifica, ma come un possibile passaggio dall’apprendimento alla crescita.
Non si tratta quindi di visioni dogmatiche e ne dualistiche tra coppie nomotetiche come tra autismo/simbiosi della M. Mahler e ne di una fase schizoparanoide/fase depressiva ( come indicava la M. Klein), piuttosto di un edificio la cui costruzione della soggettività, necessita di oscillazioni tre Centro/Periferia, Contenuto/contenitore, posizioni PS/PD, per rendere possibile un processo la cui Rèverie, renda attivo il processo che porta elementi presemantici verso un processo ideo-affettivo del pensiero primitivo, come base di una coscienza incarnata, che trova nell’asserzione di Maurice Merlau Ponty in Fenomenologia della Percezione, la sua collocazione:
“io sono come mi vedo, un campo intersoggettivo, non malgrado il mio corpo e la mia storia, ma perché io sono questo corpo e questa situazione storica per mezzo di essi”.
Concludo pensando ad un “mio” paziente autistico, ad un certo punto mi chiedeva: Mi vuoi misurare la pressione?
Mi vuoi contare i battiti?
Poi seguivano sudori, e flatulenze…..
….comunicava, con le sue tasche embrionali remote, del proprio terrore…., non un ascolto attivo ma uno scambio “effettuale”, un reale inteso come atto intuitivo, fatto di gesti, di discorsi, e alla fine parlavo tanto con lui……non perché lo guarisse ma perché potessimo formulare ipotesi condivise, attraverso dei vissuti criptici, con me, sul reale…e su di se stesso (αὐτός)
Armando Ciriello