Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
di Riccardo Mastini
Nel corso del 2019 negli Stati Uniti una coalizione fra movimenti ecologisti e personalità politiche appartenenti all’organizzazione Democratic Socialists of America ha coniato il termine Green New Deal come contenitore ideologico per un ampio ventaglio di rivendicazioni sociali ed ambientali.
Prendendo a modello il piano di riforme economiche e sociali promosso da Roosevelt per risollevare gli USA dalla grande depressione del 1929, il Green New Deal esprime un netto rifiuto dell’approccio neoliberista nel fronteggiare la crisi ecologica. A tale scopo si postula l’inderogabile necessità di uno ‘Stato imprenditore’ che, in primis, affronti l’incertezza di investimenti costosi e non remunerativi nel breve periodo per trasformare il sistema infrastrutturale nazionale e che, in secondo luogo, allunghi l’orizzonte temporale delle scelte economiche di un settore privato oggi fortemente caratterizzato da un’ottica di breve periodo. Ne consegue che le politiche pubbliche devono andare oltre agli interventi che modificano i prezzi relativi (come la carbon tax e i sussidi per le tecnologie verdi) e imporre limiti stringenti alle emissioni e standard ambientali rigidi (come vietare la vendita di autoveicoli a benzina e diesel, obbligare i produttori a diminuire drasticamente gli imballaggi, vietare l’obsolescenza programmata).
Se il cambiamento climatico è il più colossale fallimento del mercato, i governi devono assumere attivamente un ruolo di guida seguendo la prescrizione formulata da Keynes secondo cui “l’importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente”. Per tale ragione la socializzazione del sistema energetico è uno dei pilastri del Green New Deal. L’elettrificazione del sistema energetico e la sua decarbonizzazione può essere facilitata da una struttura di proprietà pubblica e cooperativa su scala locale. Ciò deriva dal fatto che gli investimenti nelle rinnovabili portano rendimenti in tempi molto più lunghi di quanto si aspettano le aziende private, mentre invece cooperative e municipalizzate operano con requisiti di profitto inferiori.
Lo slogan del Green New Deal è stato ormai appropriato da così tanti gruppi e partiti diversi che lo si trova declinato nelle forme più varie. A livello europeo la campagna internazionale Green New Deal for Europe, condotta da un’ampia coalizione che include DiEM25, rappresenta una valida controproposta allo European Green Deal della Commissione Europea. Tuttavia l’articolazione più compiuta e radicale rimane a mio avviso quella offerta nel libro A Planet To Win scritto da un gruppo di intellettuali statunitensi che hanno anche contribuito alla formulazione del programma elettorale di Bernie Sanders. Cercherò qui di seguito di riassumere le tesi fondamentali proposte nel libro.
Un discorso di ecologia popolare
Nel libro si sostiene che un Green New Deal degno di tale nome deve andare oltre le semplici proposte di impiegare il potere dirigista dello Stato per coordinare e finanziare la trasformazione infrastrutturale e produttiva di un paese. Deve anche ridurre le diseguaglianze, democratizzare l’economia, ampliare la sfera dei diritti, ed emanciparci dall’imperativo di crescita infinita del sistema capitalistico.
Per quanto riguarda la questione lavorativa, che è spesso utilizzata per mettere in scacco le proposte di conversione ecologica, è necessario innanzitutto creare ‘posti di lavori verdi’ fuori da una logica di mercato. A tale fine si può pensare ad un programma di ‘lavoro di cittadinanza’: lo Stato si impegna ad operare come datore di lavoro di ultima istanza e ad offrire un lavoro a chiunque possa e voglia lavorare. Ciò permetterebbe di fornire forza lavoro a quei servizi essenziali per la trasformazione socio-ecologica che il settore privato tende ad ignorare perché non generano alti profitti: attività di cura dell’ambiente e della persona. Per cura dell’ambiente s’intende il processo di adattamento ai cambiamenti climatici che passa per la messa in sicurezza del territorio e l’adozione di pratiche agroecologiche. Ma ciò non è sufficiente, dobbiamo anche espandere le attività di cura alla persona in un contesto di sempre più alta marginalizzazione sociale e vulnerabilità ai disastri ambientali. Come suggerisce Giorgos Kallis, “la cura può diventare la pietra miliare di un’economia basata sulla riproduzione piuttosto che sull’espansione. […] Un’economia della cura è ad alta intensità di lavoro precisamente perché il lavoro umano è ciò che fornisce alla cura il proprio valore. Essa possiede dunque il potenziale, allo stesso tempo, di ridurre la disoccupazione e produrre una società più umana.”
Mentre l’espansione dei ‘posti di lavoro verdi’ può in parte mitigare la contrazione dell’attività economica nei settori inquinanti, dobbiamo comunque pensare ad un piano di contingenza per evitare un incremento della disoccupazione. Una politica complementare è quella della riduzione dell’orario di lavoro. Se vi è meno lavoro in termini aggregati è quindi necessario ridistribuirlo in maniera più equa: lavorare meno, lavorare tutti e vivere meglio. Oltre che ai benefici sociali che ne derivano (come ad esempio riduzione dell’incidenza di malattie cardiache causate dallo stress e maggiore disponibilità di tempo da dedicare ai rapporti famigliari e all’impegno civico), vi è anche una ragione ambientale in supporto di questa proposta: la correlazione fra ore di lavoro complessive in un paese ed emissioni. È stato dimostrato che una riduzione dell’orario di lavoro dell’1% corrisponde ad una diminuzione di emissioni dello 0.8%. Detto in termini più semplici, se l’impronta ecologica nei paesi OCSE è insostenibile perché consumiamo troppo ciò è solo l’altra faccia della medaglia del fatto che produciamo troppo.
Ma le due proposte direttrici contenute nel libro sono la demercificazione dei servizi di base e la democratizzazione della produzione economica. La prima proposta implica il ripensare le condizioni materiali della vita di tutti i giorni: ad esempio come ci muoviamo, cosa mangiamo, come forniamo energia e riscaldamento alle nostre case. La sfida per decarbonizzare questi servizi di base passa per la loro demercificazione, ossia sottrarli alle logiche di mercato per sottoporli invece ad una logica di bene comune. Un discorso di ecologia popolare deve quindi connettere la conversione ecologica con un miglioramento della qualità della vita attraverso il potenziamento del welfare. Esempi di politiche pubbliche che vanno in tale direzione sono la tariffazione altamente progressiva per acqua ed elettricità con la prima quota di consumo gratuita, un sistema potenziato e gratuito di trasporti pubblici, e un grande piano di edilizia pubblica con case passive. È infatti tempo di rivendicare con forza che casa, mobilità, acqua, ed energia sono un diritto e non una merce.
Ma perché demercificare i servizi di base aiuterebbe a decarbonizzare le nostre economie? In primis, una maggior sperequazione di ricchezza in una società è sempre correlata ad emissioni pro capite più alte. Ciò è causato dal fatto che una società diseguale spinge i cittadini a cercare di dimostrare la propria posizione sociale attraverso consumi ostentativi ad alto impatto ambientale. Quindi ridurre la dipendenza da beni di consumo individuali mitiga la competizione per lo status sociale e disincentiva il consumismo sfrenato. In secondo luogo, l’utilizzo di servizi pubblici ha un impatto ambientale più basso dei loro corrispettivi privati. Ad esempio, se tutti potessimo fare più affidamento su mezzi di trasporto pubblici gratuiti, il numero di automobili diminuirebbe con effetti benefici sia sociali che ambientali: meno traffico, meno inquinamento urbano, meno emissioni.
Lenny Benbara scrive che “è necessario porre la questione ecologica come una questione fondamentalmente collettiva radicata in un destino comune. Ciò contrasterebbe la tendenza a ridurre gli sforzi da compiere ai comportamenti dei singoli. È un modo per evitare la costruzione di un ecologismo d’élite che si riduce a uno stile di vita individuale.” Se vogliamo organizzare un movimento di popolo contro la logica del profitto che smonta lo stato sociale e frigge la Terra dobbiamo offrire alle persone il diritto ad una vita degna e con una minore impronta ecologica. Forse non riusciremo mai a far appassionare una maggioranza di cittadini ad astrusi modelli climatici, ma sicuramente possiamo radunare un grande movimento di popolo a favore dell’elettricità pubblica e verde.
Per quanto riguarda invece la democratizzazione della produzione economica, ciò rappresenta un rigetto della cosiddétta teoria della ‘sovranità del consumatore’: secondo tale teoria starebbe ai consumatori cambiare le proprie scelte di spesa al fine di mandare un segnale economico ai produttori che, di conseguenza, modificherebbero la propria offerta. Ma ciò trascura il fatto che, come osserva Francesco Paniè, “non è tanto la domanda che influenza l’offerta, quanto la concentrazione dei mezzi di produzione a determinare la domanda. Bisogna cercare invece le responsabilità lungo la filiera, caricandole in primo luogo sulle spalle di chi detiene il maggior potere (e quindi restringe l’offerta influenzando i consumi).”
Infatti il binomio libero mercato e proprietà privata che connota il sistema capitalistico assicura che le decisioni su cosa e come si produce siano rigorosamente private. Come scrive Mario Pianta in La sinistra che verrà, “la retorica del mercato efficiente le presenta come scelte impersonali, la realtà è che poche grandi imprese multinazionali e gruppi finanziari controllano la direzione dell’economia: scelgono le attività in cui investire e quelle da abbandonare, le aree in cui produrre e quelle da deindustrializzare, le tecnologie da usare, i modelli di organizzazione e di subfornitura, il lavoro da impiegare, i contratti e i salari da offrire, i prezzi per i consumatori, le conseguenze sociali e ambientali che ci saranno.”
Democratizzare la produzione economica significa quindi mettere in discussione il modello azionario della maggior parte delle attività produttive. A tal fine è fondamentale perseguire una strategia di cogestione dei processi decisionali delle aziende da parte dei lavoratori e delle comunità locali (come proposto anche in Italia dal Forum Disuguaglianze e Diversità). Nell’era dell’Antropocene è necessario includere nei processi decisionali tutti coloro che devono vivere con le conseguenze delle scelte produttive. Ma ancora più problematico è il fatto che gli azionisti si preoccupano unicamente della capacità dell’azienda di generare utili a prescindere dagli impatti sociali ed ambientali che ciò comporta. Un modello alternativo è rappresentato dall’altraeconomia del commercio equo, finanza etica, e cooperative sociali. All’origine delle attività economiche non a scopo di lucro vi è infatti la convinzione che l’attività produttiva possa coniugare interesse privato e interesse generale. Per le cooperative sociali la vendita di beni e servizi non è un fine in sè stesso, ma solo un mezzo per adempiere alla missione sociale del proprio statuto societario.
In conclusione del libro gli autori affermano poi che alla luce della crisi ecologica la vera sfida è quella della riduzione dei consumi aggregati accompagnata da una ridistribuzione dei consumi fra classi sociali. La lotta alla povertà deve quindi passare per una riduzione delle diseguaglianze e non per un’ulteriore crescita del PIL. Dobbiamo riorganizzare il modo in cui produciamo e consumiamo così da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti, e garantendo l’inclusione lavorativa.
Infatti le evidenze empiriche contro il mito del ‘disaccoppiamento’ fra attività economica ed impatti ambientali – il postulato centrale della teoria della ‘crescita verde’ – sono ormai inconfutabili ed è quindi tempo di ripensare la plausibilità fisica e desiderabilità sociale di un metabolismo economico in costante crescita in un mondo di risorse finite. Una crescita che promette la sussistenza fino alla fine del mese, ma che ci condanna all’estinzione entro la fine del secolo. Come ci ricorda lo slogan dei gilets jaunes: “fine del mese, fine del mondo, stessa lotta”.
Il ruolo dei movimenti
Urge constatare che come il suo quasi omonimo prima di esso, il Green New Deal è un compromesso di classe fra mobilitazioni dal basso e i gruppi più lungimiranti dell’élite economica e istituzionale. Come nota Giulio Calella, “il New Deal di Franklin Delano Roosevelt nacque dal timore dello scoppio di una vera e propria rivoluzione, vista la conflittualità sociale negli Usa degli anni Trenta seguita agli effetti della crisi del ‘29 e al fascino dell’alternativa socialista in Russia.”
Questo precedente storico palesa il fatto che le élite politiche esercitano la propria relativa autonomia dal capitale – e dalle sue considerazioni di profitto immediato – solo se poste sotto sufficiente pressione dal basso. Lo Stato disciplina il capitale solo se minacciato. Ne consegue che i movimenti per la giustizia climatica non devono né respingere il Green New Deal per non essere sufficientemente ambizioso né accettarlo acriticamente. Ma piuttosto tenere a mente che le forme che assumerà in ogni paese saranno il risultato della forza con cui essi riusciranno ad imporre le proprie rivendicazioni.
Potremmo considerare le istanze più radicali del Green New Deal esposte nel libro A Planet To Win come un ‘programma di transizione’ in senso trozkista: istanze che in teoria potrebbero essere accomodate all’interno del sistema capitalistico, ma che colpirebbero così profondamente le dinamiche di profitto al punto da rendere tali rivendicazioni irricevibili da parte delle élite economiche. Altrimenti detto, tali rivendicazioni sono ciò che André Gorz definisce ‘riforme non-riformiste’: riforme che in superficie appaiono modeste, ma che contengono i semi di un cambiamento sistemico. Tale articolazione radicale del Green New Deal è coerente con il motto dei movimenti per la giustizia climatica in giro per il mondo: “system change, not climate change!”.
Gli anni ’20 di questo secolo rappresentano un momento cruciale: ci rimangono pochi anni per azzerare le emissioni ed evitare l’innescarsi di processi di retroazione climatica che rischiano di compromettere la stabilità della civiltà umana. Mettiamoci quindi al lavoro perché non abbiamo nulla da perdere all’infuori delle nostre catene ed abbiamo invece un pianeta da vincere.
[Immagine: Proteste di YouthStrike4Climate a Londra (mge)].
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi