di Franca Mancinelli

 

Non ho mai portato una collana. Ogni ornamento mi pesa, forse perché sento quello delle ossa che ci sono affidate. Un intero scheletro da sostenere. I miei anelli sono quelli della colonna vertebrale, i miei bracciali le giunture delle caviglie e dei polsi. Cerco le fondamenta, ciò che abbiamo di saldo, ciò che resta. È così sottile il filo che ci tiene uniti, che dà senso ai nostri gesti.

 

«Tutto questo universo è attraversato da me, come una collana di perle dal loro filo» (Bhagavad Gītā): leggo da una sequenza di frammenti che Sabrina Mezzaqui ha raccolto attorno al titolo Collana. Come nelle sue opere, in questo testo la voce dell’altro è accolta fino a fare emergere quella tessitura di cui è fatto il nostro stesso essere, intreccio di vite che ci precedono e ci attraversano, «inter-essere», come afferma Thich Nhat Hanh in una pagina di cui Mezzaqui ha aperto i confini, mostrando delicatamente l’intelaiatura che la sostiene.

 

Sono stata a trovarla a Marzabotto. Dalla piccola stazione abbiamo raggiunto in pochi passi il suo appartamento, siamo uscite a camminare fino alla necropoli etrusca, poi attraversando il paese siamo entrate nel Sacrario, e infine nel suo laboratorio. Sono venuta contenendo il vuoto di una perdita. Il filo spezzato. Tutte le perline che componevano la mia vita, disperse a terra. In ginocchio sul pavimento cerco di raccoglierle mentre rimbalzano e rotolano ancora più lontano.

 

I versi di Salva con nome di Antonella Anedda mi hanno condotto qui. Le poesie della sezione Cucire sono state infatti riscritte da Sabrina Mezzaqui con la propria grafia e ricamate su un quaderno di stoffa. Scrivere una parola con ago e filo significa farla passare attraverso il proprio corpo e viverla punto per punto. È un’opera di dedizione in cui si riversa tutto l’amore e la costanza che servono per portare alla luce. Contenendo una parola nei propri gesti, facendosene tramite, si apre nel proprio corpo uno spazio a cui non arriva la mente con la sua comprensione. È questo probabilmente il significato di trascrivere, dare le proprie mani alla voce di un altro, come in un atto di affidamento, in una preghiera. Le opere di Sabrina Mezzaqui come i versi di Antonella Anedda, provengono da quella pratica di attenzione che nasce per affrontare la perdita; sono un esercizio di ascolto per accogliere il vuoto e trasformarlo.

©Sabrina Mezzaqui, Quaderno indiano, 2010 – carta intagliata a mano, 22 x 34 cm

Nell’appartamento di Marzabotto, su un piccolo leggio di legno addossato alla parete, sta un dizionario aperto. Poco più in alto, due finestre incorniciano sagome di case e di alberi. Riconosco le immagini di Quando le parole atterrano, dove Mezzaqui legge le tessere della luce che attraversa le persiane, il racconto della pioggia sui vetri. C’è qualcosa di profondamente arcaico in questo sguardo capace di riconoscere nella realtà la traccia di una scrittura, di sentire la materia della parola come quella del reale, plasmate da una stessa energia, da uno stesso senso che chiama. Così in una sua opera del 2006, Segni, dove un libro si apre generando. Dalle sue pagine bianche si innalzano sagome nere di uccelli in volo, liberandosi nello spazio. È lo stesso miracolo a cui assistiamo in una delle sequenze centrali di un film di Tarkovskij, Nostalghia, dove uno stormo di uccelli fuoriesce vociante dal grembo della Vergine. Anche questo libro aperto che ci mostra Mezzaqui è il luogo sacro dell’origine. Dalle sue pagine sorge la vita, il suo significato che si dona, che sta a noi decifrare. Ma quello stesso volo può leggersi anche nel verso opposto: sono gli uccelli a posarsi sulla pagina, depositando la loro verità. È la natura stessa che scrive attraverso le sue forme, moti e ritmi, facendo affiorare “segni” per il nostro cammino.

©Sabrina Mezzaqui, Segni, 2009 – libro in 12 edizioni, copertina ricamata a mano

Qualcosa di simile a un’obbedienza governa l’arte di Sabrina Mezzaqui, un’armonia ancestrale, una giustizia che ogni gesto è chiamato a ristabilire. Siamo ricondotti a quella circolarità che apparteneva alla civiltà contadina: lo sgusciare lento di semi come grani di un rosario, il fare quotidiano e liturgico di una comunità operosa. Molte delle opere di Mezzaqui sono nate così, dentro il cerchio paziente di mani che hanno condiviso il lavoro; minimi gesti ripetuti, in una dedizione che ha reso possibile attraversare il tempo, restituendo qualcosa che è fatto della sua stessa sostanza. Che sia carta o stoffa, parola scritta o immagine video, è infatti sempre il tempo condensato la materia delle sue opere: lentamente rilasciano la propria energia, i gesti e la vita di cui sono composte. Non è possibile rimanere spettatori passivi: come di fronte a una poesia, la carica di significato di cui siamo investiti chiama a metterci a nostra volta all’opera, a dipanare, ad accogliere nelle nostre mani, a custodire. La sua arte è così umile e radicale nel porsi come gesto anonimo, originario, che arriva quasi a confondersi con il lavorio che gli agenti atmosferici attuano sulle cose. La sensazione è spesso quella di trovarsi di fronte all’opera paziente e metodica di un formicaio, di un’arnia, come se Mezzaqui si fosse sintonizzata con il movimento stesso presente nella natura, con i suoi cicli di distruzione e ricomposizione. Penso a opere come Le mille e una notte, L’isola di Arturo, Che tu sia per me il coltello, La ruota del Dharma, Teoria e pratica della non violenza: metamorfosi attraverso cui un libro viene liberato dalla propria forma per essere restituito a un significato che sta oltre le parole, nella materia stessa della lingua, in quel fare (poiein) che è all’origine di ogni creazione di senso.

 

©Sabrina Mezzaqui, Che tu sia per me il coltello, 2014 – libro intagliato, righe di libro arrotolate e infilate, colla, filo

 

Appartiene all’arte di Mezzaqui il tempo dell’incanto, quella dimensione sospesa in cui, come nelle fiabe, avvengono i passaggi di stato, le trasformazioni. Siamo riportati a quella forza primigenia che sorregge e moltiplica il gesto di un singolo in quello della comunità che lo precede, che può essergli accanto. Come rispondendo all’Appello ai meditanti lanciato alla Pilotta di Parma, siamo chiamati a entrare insieme in questo tempo altro, ritrovare il filo, perlina dopo perlina, creare la nostra collana. Seduti a un tavolo, al lavoro, come stando in ginocchio. Tenendo questo istante nelle mani, adesso.

 

 

[Immagine di testata: ©Sabrina Mezzaqui, Digambara / Vestiti di cielo 2008 – ligthbox 50 x 70 cm].

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