di Andrea Cortellessa

Era superstizioso, Elio. I suoi amici lo sapevano bene, ed evitavano di sfidare la sua collera leggendaria. C’è anche chi fra loro – come a ironicamente sancire un discepolato “segreto” – ha mutuato una sua superstizione a rovescio: impostando la sua opera proprio su quel numero, otto, che Elio chissà perché evitava come la morte. Stando così le cose, appunto della morte non si poteva parlare in sua presenza. Neppure io mi sono azzardato, in effetti,  scrivendo della sua opera. Omettendo così un tema, e una sostanza psichica, che a rileggerla in questa chiave – come non posso non fare oggi, purtroppo – vi appare centrale.

La poesia straordinaria che in Lezione di fisica (1964) s’indirizza ad Alfredo Giuliani col titolo Oggetti e argomenti per una disperazione attacca così: «Che sappiamo noi oggi della morte / nostra, privata, poeta?». “Morte”, qui come nel resto dell’opera di Pagliarani, è parola dai molti significati. È una parola-connettore, a parlar filosofese bisognerebbe dire un sincategorema, che lega campi semantici (e pulsioni psichiche) assai distanti fra loro. La «morte privata», è specificato, è quella individuale, cui da «adolescenti» si crede (o si «teme») di non essere soggetti: e che all’apparire nella mente segna, in ciascuno di noi, il passaggio della linea d’ombra. Da quel momento in poi si tende al proprio fine, aveva detto Gadda: al termine comprensivo e definitivo (che ci comprende e ci definisce: esistenzialisticamente, certo). Col passare dei versi però, interrotto di continuo da raffiche di discorso altro (che fanno del libro del ’64, specie con la sua extension di quattro anni dopo, Lezione di fisica e Fecaloro, il più audacemente informale e asintattico di Elio nonché – malgrado in precedenza venisse egli considerato in quel novero quasi un “moderato”, un realista attardato – di gran lunga il più scatenatamente sperimentale fra quelli di tutti e cinque i Novissimi del ’61), il monologo passa a considerare “morte” sotto un punto di vista collettivo, più che storico biologico però, cioè filogenetico: «ci avevano detto che gli uomini, non un uomo, sopravvivono / che a noi tocca la stessa immortalità come alle belve / nell’amore che genera».

Ecco, l’amore: che nella poesia di Elio – come da millenaria tradizione – alla morte sempre si associa. Ma in un’accezione decisamente diversa – materialistica, fisica appunto – da quella della tradizione. Si tratta infatti dell’«amore che genera», cioè dell’accoppiamento sessuale: che, nella sua pulsione irresistibile di «belve» (molto più avanti, negli Epigrammi ferraresi dell’87, così verrà trascritto da Savonarola: «la carne è un abisso che tira in mille modi»), alla morte si contrappone e, freudianamente, la sussume. In un’altra poesia del libro, quella che gli dà il titolo, all’evocazione teterrima di scenari da guerra nucleare nelle parole di un dottor Stranamore del tempo («160 milioni di decessi in casa sua / non sarebbero la fine della civiltà […] / […] va da sé che esiste, egli scrive, un ulteriore problema / quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni  / per invidiare i morti») segue subito dopo, col solito montaggio straniante (ma, stavolta, psichicamente chiarissimo), un inciso di pura «gioia» sessuale: «attiva, trionfante […] / […] vino rosso capriole con lancio di cuscini / nella mia stanza».

Amore, in questo senso, è pure quel che ispira poesia: «tra il trentanove e il quaranta», «lo stesso anno / che conobbi gli stimoli del sesso», racconta Elio sempre in Oggetti e argomenti per una disperazione, si trovò a tradurre – «male» – un sonetto di Shakespeare: «il mio verso vivrà finche gli uomini / sapranno respirare e tu con quello». La sopravvivenza al fluire delle generazioni, prima evocata sul piano biologico, passa ora di nuovo a quello storico: nella fattispecie a quello della storia della letteratura cioè dell’eredità «non genetica» della parola poetica destinata a trasmettersi ai posteri. Ma si tratta di un’illusione (non a caso, in precedenza, lo slancio dell’incipit era stato subito stroncato da un inciso metatestuale di brechtiano straniamento: «Faccio una pausa / rileggo questo inizio non è male mi frego le mani»), la più crudele forse. Perché da tempo chi scrive sa di farlo, invece, in una condizione di oggettiva disperazione. «Non si esalta / più delle avventure dello spirito»: «da tempo ciò che brucia / mi devasta soltanto», e non serve certo «a sublimare le mie sconfitte». Devastante chiusura del cerchio: se il tragico moderno (quello all’ombra della minaccia nucleare, per esempio) «trae una morale / di morte universale», non può provvedere – a differenza di quello antico – alcuna catarsi: non serve cioè «a consolarci della nostra», di morte: quella «privata».

Racconta Franco Cordelli che a diciott’anni si trovò alla libreria Einaudi a una presentazione dei Novissimi, forse proprio quella dell’antologia curata nel ’61 da Alfredo Giuliani. C’era maretta. Il pubblico si divideva fra esaltati fautori («In ogni città d’Italia c’è un giovane disposto a morire per Sanguineti»», recitava in quegli anni – lo si creda o meno – uno slogan editoriale di Feltrinelli) e altrettanto esagitati avversatori. Il frastuono crebbe sino a mettere a tacere gli oratori. Allora si alzò in piedi Elio, si mise davanti a un cartello appeso al muro con stampata proprio Oggetti e argomenti per una disperazione, prese a leggerla a voce altissima. E tutti tacquero. Gli ultimi versi suonavano: «Ma se avessi soltanto bestemmiato / allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto / perdonateci a noi per il nostro tempo». Era quello un tempo, davvero, in cui non si poteva non bestemmiare: dicendo a voce alta verità durissime che altri tempi, invece, preferiscono nascondersi.

L’episodio mette in scena tanti caratteri tipici di Elio. Dall’esacerbata moralità che propelleva i suoi slanci, irresistibili quanto le sue collere, allo stoicismo quasi brutale con cui affrontava l’esistenza (la «violenta fiducia» di Narcissus pseudonarcissus); dalla passione pedagogica appunto brechtiana, nella quale – a differenza che nel maestro avverso Pasolini – l’obliquità dell’assunto non si disgiunge dalla veemenza del gesto («Colpisci, vita ferro città pedagogia / I Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s’incontra alle serali», si legge in un inciso della Ragazza Carla), sino all’attitudine teatrale di letture pubbliche – maturata nella compagnia anni Cinquanta della mitobiografica trattoria milanese da Poldo a via Borgospesso: con Amodio, Fachinelli, Bosio e gli altri – con cui Elio tempestava in quei roaring Sixties, incrocio quasi di Majakovskij e Jimi Hendrix (c’è uno scampolo video di quegli anni, con lui in occhiali scuri, che fa quasi spavento), ad anticipare voghe tanto più recenti e meno squassanti. E che tante volte in seguito, dimidiato ma sempre arcipossente, ci ha vulnerato live: ogni volta accompagnandosi con la mano libera, ha scritto il suo lettore più fedele Walter Pedullà, come il «direttore d’orchestra» di se stesso: «i ritmi di Pagliarani drammatizzano ogni modo di pensare e di parlare».

Morte è poi quella del vivere sociale che, aveva scritto Ungaretti, si sconta vivendo. Nei versi limpidissimi che sigillano La ragazza Carla, il poemetto decisivo pubblicato nel ’60 (ma ideato in forma di soggetto per un film neorealista, ha raccontato Elio, già nel ’47-48), è detto citando addirittura Cavalcanti: «Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste». Morte in vita, senz’altro, quella delle tante ragazze Carle asservite dal capitale che, aveva raccontato Fachinelli – riportato in esergo – «il sabato si prendono un sonnifero, opportunamente dosato, che le faccia dormire fino al lunedì». Guardiamo il cielo, Carla Dondi, in storia che resiste – ed ecco risuonare i più stoici, i più umani, i più morali versi di Pagliarani: «È nostro questo cielo d’acciaio / che non finge Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita». Per mutare in vita questa morte, ancora una volta, solo una è la strada (con la più bella delle rime equivoche): «non c’è risoluzione nel conflitto / storia esistenza fuori dell’amare / altri, anche se amore importi amare / lacrime […]».

In Oggetti e argomenti per una disperazione c’è pure questo inciso, sulle «consuetudini della specie»: «anch’io mi sono sentito in gran ritmo naturale / sopra una donna e ci guardava un mare / come avessimo avuto un senso, o guardavamo un mare / come avesse avuto un senso». Ecco l’ultima accezione – archetipica e antropologica – della morte: che così si congiunge alla vita, al suo atto germinale. Nella Ballata di Rudi (l’altro grande poemetto, epico e corale, pubblicato solo nel ’95 ma iniziato proprio in quei primi anni Sessanta: di fronte a un’Italia che si trasformava, e implacabile cresceva e spensierata si perdeva nella «società del benessere») ossessiva presenza è quella del mare, appunto. Quell’Adriatico del quale Elio in molti sensi era originario, quei «braccianti del mare» da lui messi in scena, al lavoro come in una danza ritmata. Ecco, quell’umano lavoro – che è la vita di Carla e la nostra – si basa sulla presunzione, o sulla superstizione se si vuole, che (con eco appunto di quell’inciso da Lezione di fisica) «non ha senso pensare / che s’appassisca il mare». Che si esaurisca cioè la forza vitale – «privata» e collettiva – che ci tiene al mondo. Nelle varie redazioni e frammenti della Ballata, assai significativamente, il mare appassito di volta in volta ha senso e non ha senso (come del resto ha senso e non ha senso la nostra vita – la vita nel suo complesso). Ma nella clausola ultimissima, con un verso gradinato che si spinge sino all’estremo del paginabile, così Elio concludeva: «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare».

È quello che ci sforziamo di fare, Elio, come hai fatto tu sino alla fine. Anche se come te in fondo lo sappiamo bene, che così non è.

[Una versione più breve di questo articolo è uscita oggi su «il manifesto»].

3 thoughts on “Ma dobbiamo continuare

  1. Bel ricordo…ma non è che si parlasse molto in questi anni di Pagliarani, peccato!

  2. grazie andrea per questo ricordo. avresti potuto prenderlo da tutt’altro punto di vista e in tutt’altro modo e mi avresti commosso lo stesso.
    sai com’è… sarà contenutismo?
    l.

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