di Adelelmo Ruggieri

 

[Terza e ultima tappa del viaggio di Adelelmo Ruggieri intorno a Muccia, il «crocevia degli Appennini»: le prime due si possono leggere qui e qui].

 

Alle cinque ero già pronto ma alle sette ero ancora in forse, No, non può essere, vado in un posto soltanto. Ho messo il lucido sulla mappa in verticale sullo schermo, ho disegnato il triangolo, poi le mediane, il baricentro capitava a Terricoli, non distante da Matelica, la città del verdicchio, ottimo, prosit. Mi piaceva assai il toponimo e quanto ne scrive “italia.indettaglio”: Terricoli, 400 metri slm, 5 famiglie residenti, 10 edifici, nessuna banca. Lo spazio tutt’attorno una gran bellezza. Hanno preso una gran giornata per filmare. No, niente stratagemmi, devo andare, e non è stato difficile e le strade erano semplici e nemmeno così tanta la distanza. Bisognava solo arrivare a un qualche bivio che ora tenevo nella mente, poi a un altro che ora sapevo e prendere per Sefro, e da qui tornare a quell’altro bivio e prendere su per Cerreto d’Esi, infine svoltare per Collamato; al ritorno avrei fatto sosta a Castelraimondo. Volevo vedere solo quanto mi ero prefisso: la cascata, la chiesina, la torre. Poi avrei cercato un posto per pranzare. Stava lì, a due passi, si chiama Tre stelle. Meglio di così non poteva chiamarsi: tre posti, tre stelle. Ho preso tagliatelle alla contadina e un po’ di contorni al tavolo. Non rammento chi scrisse che c’è un meno dentro ogni più, ma oggi, forse in ragione dei tentennamenti dell’inizio, non è così, dentro ogni più c’era ancora un altro più. E la cascata a Sefro dieci volte più. Faceva freddo. C’era vento. Per fortuna la cuffia di lana. Mai dimenticarla in viaggio a febbraio. C’era questo piccolo borgo e la cascata dello Scalzito che viene giù dal Monte Pennino di vaste foreste e pascoli montani. Era eguale a quella cartolina antica che avevo visto giorni prima. Teneva colori pastello antico e anche il bianco delle acque era antico. I colori di oggi sono un poco gelidi e metallici nella luce di febbraio. Era la volta di Collamato. Ho camminato un po’, il giro del castello, dalla scritta di benvenuto: Benvenuti al Castello di Collamato, attraente frazione di Fabriano di antica origine, già comune appodiato, metri sul mare 502, poi il giro del borgo fino all’altra faccia del cartellone, con i versi di un anonimo poeta: Né se tutto avesse cercato il mondo / Vedria di questo il più gentil paese. Il più gentil paese, forse esagerò l’amico anonimo poeta, ma l’effetto a vedere la piazza castellare e la chiesetta di San Giustino apologeta è stato non poco. La descrizione nella rete era ben fatta: pianta rettangolare, tetto a due falde, murature a vista, forse in origine per l’intero in pietra, portale d’ingresso con arco a sesto acuto in conci squadrati, preceduto da alcuni gradini [i gradini sono quattro]. E adesso mancava solo Castelraimondo, la sua imponente torre di difesa e avvistamento, rastremata a salire, trentasei metri antichi di altezza. Arrivare è stato semplice. Da Piazza della Repubblica, a venti metri dalla torre, si scorge una prospettiva di città che in fondo tiene inquadrato un monte come lo fanno i bambini quando disegnano i monti. La via si chiama Corso Italia, e la montagna mi hanno detto chiamarsi Monte Primo, difficile non poco la salita.

 

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Ecco, quella veduta era l’ultima riga di questa mia figura a stella, il triangolo allungato a terra del corso con la sua fuga chissà dove nello spazio e l’altro in verticale con il suo apice a un migliaio di metri da terra. Di una stella a dodici vertici solo sei, tre la prima volta, i quarti tre la seconda, una piccolissima frazione di dieci case, un corso dal nome che riassume moltissimo e un monte fatto a piramide che tiene per nome il primo degli ordinali. È passato un anno, il canovaccio della continuità da opporre a quel disegno a stella, del tutto astratto, che confinava quella grande nostalgia che mi venne a Muccia dodici mesi fa si è come dissolto. Almeno quattro volte mi sono messo in cammino per i sei vertici che mancavano, ma alle rotonde di Molini, sia che fosse primavera o estate o autunno, a cinque chilometri da casa, se non era la prima, se non era la seconda, alla terza tornavo indietro, come se dovessi portare a compimento questo viaggio non ora ma tra un anno, oppure per il settantesimo, o ancora dopo ancora dopo, quando sarà, e intanto saranno passati sessanta mesi da quando lo iniziai e undici lustri da quella volta con la nostra classe, nel Settanta o Settantuno, e facemmo sosta a Muccia, il Crocevia degli Appennini, una schiera di ventuno studenti fermi a un grande spiazzo di motel, con l’insegnante di Italiano, innamorata di Bergson, a dirigere l’orchestra degli slanci vitali.

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