di Guido Mattia Gallerani
Dopo una settimana di sospensione di ogni attività didattica, decisa a seguito del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 23 febbraio scorso, lunedì 2 marzo l’Università di Bologna ha ripreso le lezioni in modalità telematica. La risposta dell’Ateneo all’emergenza sanitaria scatenata dal Coronavirus è stata tempestiva e, per molti aspetti, straordinaria. Lunedì scorso, infatti, gli insegnamenti disponibili in streaming sulla piattaforma Teams erano già il 30% dell’intera offerta formativa, per passare in pochi giorni al 70% e arrivare, nella prossima settimana del 9 marzo, alla copertura pressoché totale, sempre in conformità alle linee guida stabilite, a livello nazionale, dagli organi competenti. Mi sembra di poter dire che si tratta di una “prova di sforzo” superata pienamente dalle strutture bolognesi, o almeno dal Dipartimento in cui lavoro, dove i tecnici sono riusciti nel difficile compito di allestire le attrezzature necessarie nelle aule – da cui vengono erogate le lezioni a distanza –, di formare velocemente i docenti stessi all’uso del software Teams e di sorvegliare l’andamento delle lezioni, intervenendo spesso di persona per risolvere piccoli problemi informatici.
Ma come in ogni momento di “crisi”, i nodi vengono al pettine, in senso sia positivo che negativo. Da un lato, il sistema pubblico d’istruzione ha dimostrato di poter adattarsi a una modalità di “somministrazione” didattica totalmente nuova, al netto di sperimentazioni già avviate e di università private che già usano i sistemi di didattica a distanza. Il pregiudizio che vuole il mondo accademico immobile nel tempo, e scollato dall’evoluzione sociale, viene dunque contraddetto dai fatti. Dall’altro, questo stress test fa emergere un problema al contempo politico e didattico, su cui è opportuno attuare una forma di sorveglianza, se non di preventiva resistenza, affinché la didattica a distanza non si trasformi da risposta efficace contro un’emergenza nazionale a norma per il futuro, che potrebbe addirittura prevedere l’affiancamento permanente delle lezioni in streaming o registrate all’insegnamento de visu. Fra i vari dubbi che stanno emergendo a seguito delle prime sperimentazioni nelle università pubbliche e che potranno essere approfonditi pienamente soltanto nelle prossime settimane, mi pare utile insistere da subito su due aspetti, legati a questioni politico-democratiche, che interessano l’autonomia del sistema pubblico d’istruzione rispetto al continuo avanzare della privatizzazione, e a problemi “sindacali”, cioè inerenti al lavoro universitario.
Il problema è innanzitutto politico e si approfondirà qualora la modalità a distanza dovesse affiancarsi alla modalità in presenza. L’art. 150 del Regio Decreto 1592/1933 (Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore) è ancora in vigore e stabilisce che “i corsi sono pubblici”, salvo le “esercitazioni e dimostrazioni pratiche o sperimentali” dove vengono ammessi soltanto gli studenti regolarmente iscritti. Con l’utilizzo delle attuali piattaforme di insegnamento a distanza, l’accesso democratico alla conoscenza non verrebbe più garantito e mediato dagli organi istituzionali, ma vedrebbe l’inserimento di un’ulteriore mediazione da parte del privato, quella del programma informatico utilizzato per l’e-learning, fornito su abbonamento da un’industria privata (nel nostro caso, Teams fa parte del pacchetto Office 365 accessibile agli studenti iscritti e fornito da Microsoft). L’accesso alla lezione è garantito solo dal possesso delle credenziali istituzionali (l’account universitario), che devono essere ancora valide al momento della nostra lezione in streaming. Dal punto di vista amministrativo, uno studente che sia in ritardo con il pagamento delle tasse universitarie o chiunque volesse seguire una lezione anche solo per capire se iscriversi o meno a un corso di studi si vedrebbe negato l’accesso all’insegnamento on-line. Dal punto di vista sociale, studenti che non sono in grado, non possiedono o non hanno la possibilità di servirsi di un computer o un tablet, assieme a coloro che non dispongono di una connessione Internet adeguata, sarebbero impossibilitati a seguire i corsi. L’università fornirà a costoro le attrezzature e l’aiuto necessario per seguire le lezioni? Non sfugge, poi, che l’inserimento di un programma informatico privato nell’università pubblica permette alcune strategie di marketing non certo trasparenti. Quella, ad esempio, di fidelizzare all’uso del software futuri potenziali clienti: se tutti gli studenti devono utilizzare un programma come Teams, è probabile che molti di essi continueranno ad usarlo anche dopo e decideranno di acquistarlo, una volta che, scadute le loro credenziali istituzionali, non gli sia più possibile fruirne attraverso l’abbonamento universitario. Infine, la dipendenza del sistema di insegnamento dalle macchine informatiche comporta la necessità di adeguare tutta l’infrastruttura informatica dell’Ateneo alle innovazioni del programma: aggiornamenti successivi che dovranno essere pagati dalle università pubbliche e che, verosimilmente, da questo momento in poi verranno prodotti e venduti (fino a un momento in cui diverranno obbligatori) con sempre maggiore frequenza.
La questione del lavoro didattico non è di meno centrale. Se Marx scrive nel Capitale che l’innovazione tecnologica “è mezzo sicuro per prolungare la giornata lavorativa”, gli strumenti del capitalismo informatico non si distanziano molto dai principi che promossero l’introduzione dei primi macchinari industriali. Per quanto riguarda l’insegnamento in modalità digitale, si può aggiungere questo: per riprendere ancora Marx, se anche la giornata lavorativa non aumenta perché gli orari di insegnamento restano prefissati per legge (di didattica frontale, senza tenere conto, per lo meno, di non tutto ciò che è difficilmente computabile in termini d’ore di preparazione delle lezioni, ecc.), può aumentare l’intensità del lavoro: non cresce in questo caso la velocità della macchina, ma essa realizza – ed è ciò che avviene in e-learning tanto per il docente che per il “pubblico” – un ampliamento del campo di lavoro. Non credo che, come si sostiene ormai per l’utilizzo del Power-Point a lezione, l’inserimento in classe di ausili tecnologici sia un incentivo alla distrazione degli studenti. Penso che avvenga proprio il contrario. La moltiplicazione degli strumenti impiegati in classe richiede sia un ampliamento della concentrazione degli utenti, tanto visiva quanto intellettuale, sia un incremento delle capacità gestionali (e quindi pratiche, spesso anche manuali) richieste al docente. Invece che semplificare il lavoro, l’intensità della lezione a distanza comporta un dispendio di energie da parte di tutti, con l’ovvio risultato di allontanare e alienare ulteriormente il docente e gli studenti dal senso del loro apprendimento intellettuale: quella dialettica di scambio reciproco, quel movimento del sapere colto nel suo momento di formazione, che dal docente va agli studenti e viceversa; il solo confronto in cui possono sorgere domande impreviste che portano a interrogarsi in maniera estesa sugli argomenti trattati e quindi costituire un apprendimento non nozionistico, ma di metodo.
Prendiamo ad esempio quanto sperimentiamo con un programma come Teams. Tanto i docenti quanto gli studenti si trovano a dover maneggiare e gestire le loro comunicazioni via un linguaggio verbale (il microfono) e un linguaggio non verbale: quest’ultimo si concretizza nello strumento certo utile della chat, con cui gli studenti possono intervenire per iscritto e spesso (forse anche superando qualche timidezza che si può riscontrare dal vivo) porre questioni puntuali e ben argomentate sui contenuti della lezione. L’amplificazione cognitiva interessa quindi l’attenzione, che deve aumentare a livello visivo e uditivo durante la lezione per legare assieme due sistemi diversi: il discorso orale del docente e le domande scritte degli studenti. In maniera analoga, l’intensità riguarda il numero di informazioni inserite nei Power-Point o nelle presentazioni, che non saranno più il compendio dei contenuti essenziali della lezione o l’utile traccia che, proiettata sopra la testa del docente, ne guida l’evolversi. Tendenza nemmeno tanto implicita del sistema è quella di consentire la transizione da lezione on-line a lezione registrata, riproducibile ovunque e, semmai, rivendibile ad altre piattaforme. Alcune università si stanno attrezzando per la registrazione delle lezioni, piuttosto che propendere per la loro trasmissione in diretta. In un tale contesto, il docente tenderà a preparare il materiale aggiungendo tutte quelle informazioni che non raccoglierebbe sulle slide durante una lezione orale, quando egli può intervenire puntualizzando e approfondendo gli argomenti esposti visivamente senza dover saturare completamente la sua presentazione con tutte le informazioni poi divulgate. Infine, la gestione tecnologica richiede abilità trasversali che si aggiungono simultaneamente a quelle necessarie alla didattica frontale: ad esempio, la gestione dell’interfaccia del programma, come nel controllo degli accessi degli studenti e, nel caso, inibizione delle loro telecamere e microfoni per non intasare la connessione Internet e limitare il rumore di fondo; il controllo della condivisione dei contenuti (PDF, Power-Point, l’intero desktop…) su tutti i computer; la modulazione della propria voce nel dettato più comprensibile possibile, riducendo intercalari e forme discorsive del discorso spontaneo quando parla al microfono, ecc.
Forse più importante ancora è la questione del carattere emergenziale di questa forma didattica. Essa si va a inserire in un contesto lavorativo che ha fatto dell’emergenza la sua forma permanente di vita. In un quadro della didattica in cui il contributo dei docenti precari e de-contrattualizzati è fondamentale per il sostentamento dell’intero sistema pubblico di istruzione, il pericolo è che l’utilizzo di questi strumenti informatici nella didattica diventi l’occasione per ridurre ulteriormente i costi del personale. Riprodurre le lezioni a distanza nei corsi di studio degli anni successivi rappresenterebbe l’opportunità di tagliare i lavoratori non strutturati, perché l’aumento dell’intensità lavorativa per i docenti strutturati e il riutilizzo delle loro lezioni al di fuori delle ore in itinere libererebbe le istituzioni dalla necessità di assumere docenti a contratto. I costi di organico verrebbero ridotti, ma apparentemente. L’intermediazione del privato nel pubblico può solo significare che i guadagni dell’intera operazione finirebbero nelle mani delle compagnie informatiche, proprio perché, a quel punto, l’intermediazione del programma di e-learning diverrebbe essenziale e necessaria e quella istituzionale ancillare ed etero-determinata dal funzionamento e dal mantenimento delle macchine. In seguito, potrebbero limitarsi anche i costi di struttura: sarebbe necessaria un’aula per fare lezione? I docenti non potrebbero trasmettere da casa? Lo spazio di lavoro sarebbe ancora indispensabile? Non si potrebbe fare anche il ricevimento agli studenti comodamente da remoto? Non si potrebbe scaricare sui lavoratori il pagamento delle spese di connessione? Inoltre, sul fronte delle cosiddette “risorse amministrative”, i tecnici verrebbero ad assumere quella funzione di sorvegliante che, oltre a moltiplicare il loro lavoro, porterebbe a un’ulteriore dipendenza dei docenti dagli sviluppi informatici futuri.
Soprattutto i risultati didattici sarebbero (come tutti comprendono) disastrosi. Ma quelli sociali drammatici: assieme all’impoverimento dei docenti e delle funzioni intellettuali del loro scambio con gli studenti, si assisterebbe a un uguale impoverimento dell’accesso all’insegnamento, scaraventando sugli studenti l’obbligo di dotarsi di attrezzature informatiche e dell’accesso alla rete. Si giungerebbe anche a giustificare la modalità a distanza come un’utile occasione per l’insegnamento agli studenti di quelle competenze trasversali che – come ci ripetono ormai da tempo – sono necessarie al “mondo del lavoro”. Benché in questo momento penso che i docenti debbano prestarsi a tali pratiche didattiche per far fronte alla necessità di salvaguardare l’anno accademico e consentire agli studenti lo svolgimento e il compimento dei loro studi, ritengo nondimeno che si debba sorvegliare l’evolversi di questa trasformazione delle lezioni universitarie in incontri a distanza, perché non si cada nell’errore di considerare l’emergenza come un’opportunità di sperimentazione, senza mettere in conto i rischi di privatizzazione tentati via l’emergenza sanitaria.
Grazie, un contributo pacato e molto istruttivo.
Faccio solo una chiosa sulla situazione delle scuole secondarie e primarie. La didattica a distanza nelle università è possibile perché le università hanno personale e infrastrutture per farla. Negli ordini inferiori di scuola questi spessissimo mancano. Abbiamo tecnici informatici che tali non sono perché sono assunti come “tecnici” generici, quindi magari hai un perito chimico assunto come se fosse un esperto hacker. Nelle scuole secondarie di primo grado spesso o forse sempre, non so, il tecnico nemmeno c’è.
Quindi al di sotto dell’università la “didattica a distanza” si risolve soltanto in una delega in bianco ai singoli perché si organizzino con mezzi propri da casa, docenti e famiglie e studenti.
Ovviamente, siamo in emergenza, si fa quel che si può, nessuno fa il processo alle intenzioni. Però è un altro fattore su cui riflettere, anche per il futuro, al netto delle dichiarazioni della Azzolina sul Miur che “organizza didattica a distanza”.
Questo articolo ha un piglio esemplificativo chiaro, ma anche, mi si permetta di dirlo, moralista. Dietro la pacatezza e il buon costume, difende in realtà lo status quo, senza impegnarsi davvero criticamente e umanamente di fronte a un momento storico in cui i sistemi stanno cambiando. In più non tiene affatto conto di ciò che è ben più stringente e delicato della didattica universitaria, ossia l’istruzione fino alla maturità per la quale un e-learning è sostanzialmente inapplicabile se non per periodi molto brevi. Mi pare di capire che chi scrive non ha esperienza di didattica nella scuola…
E poi vorrei rassicurare chi scrive: così come i libri non sono stati sostituiti dall’ebook, il docente e la sua lezione frontale non verranno sostituiti dall’e’learning… ciò che conta è che ci siano buoni LIBRI e buoni DOCENTI… (cosa di cui dubito di fronte a qualcuno che viene a fare la morale sul neoliberismo e sul socialismo in questo modo, di cui percepisco l’ipocrisia o la poca lungimiranza).
Quindi, care università, fornitevi di bravi docenti che siano disposti e generosi, così come care case editrici fornitevi di autori che siano autentici. In questo momento storico noi italiani ne abbiamo bisogno.
Buona serata, Simone (un insegnante)
Il contributo è interessante e solleva diverse questioni degne di interesse, buona parte delle quali ampiamente condivisibili, in particolare riguardo le pressioni dei principali venditori di soluzioni per la didattica a distanza. Tutti sperano nella pigrizia dei docenti: una volta imparato uno strumento, nessuno ha voglia di cambiare. Dovremmo esserci abituati: tutti usiamo strumenti che ci vengono forniti apparentemente gratis, anche se poi in qualche modo si paga.
Ho un punto di vista leggermente diverso sulla questione del lavoro didattico – perlomeno su una parte di essa: studenti e corsi non sono tutti uguali. Io insegno a Informatica (non solo, ma mi riferisco a questo); ho un corso in aula “tradizionale” alla triennale, ed un altro alla magistrale che faccio in aula ma in videoconferenza verso un’altra sede. Nel secondo videoregistro le lezioni e le metto a disposizione. La frequenza non è obbligatoria, e la conseguenza è che, nel corso della triennale, le presenze calano notevolmente da inizio a fine corso (e non solo da me, è la norma), tanto che mi sono interrogato più volte sull’opportunità di registrare le lezioni perché almeno avrebbero un riferimento per studiare per conto loro, invece di ripetere più volte l’esame per prendere un 20. Non solo, l’interazione ad iniziativa dello studente è molto ridotta in generale: domande, poche, ricevimento, mai. Quindi il corso in presenza, purtroppo e nonostante quel che io possa volere, non pare fornire un plus concreto all’apprendimento. “Quella dialettica di scambio reciproco, quel movimento del sapere colto nel suo momento di formazione, che dal docente va agli studenti e viceversa”: bello, ma per me raro (anche se il discorso cambia alla magistrale).
Nell’emergenza, quel corso lo sto tenendo online, e mettendo poi le lezioni registrate a disposizione. E’ più faticoso. E’ meno divertente, anche perché, come quando registro l’altro corso, mi trattengo da battute e divagazioni che di solito aiutano a tenere desta l’attenzione. Però sicuramente mi vengono poste più domande del solito e pertinenti, tramite lo strumento pratico e, concordo, “intensificante”, della chat. Sarà per la tipologia dei nostri studenti, ma paiono più liberi con la mediazione dello strumento; e vedremo come andrà a finire.
Quindi non prenderei come valore assoluto la modalità di insegnamento tradizionale a prescindere dalla materia.
Anch’io sono una docente, insegno da più di vent’anni in una scuola superiore e sono assolutamente d’accordo con quanto scrivono Simone e Vincenzo. Trovo l’articolo dettagliato ma limitato, e per alcuni aspetti pregiudiziale, se vogliamo carente di uno sguardo globale. Mi sembra anche di cogliere una mancanza di esperienza didattica e anche dell’amore che essa richiede.
Come si evidenzia dalle prime righe, l’articolo è rivolto al tema della didattica nelle università, che ha aspetti comuni ma non è totalmente sovrapponibile alla didattica nelle scuole “di ogni ordine e grado”. Limitatamente all’ambito delle università, che mi pare abbiano, almeno in alcuni Dipartimenti, docenti assai buoni, giacché non credo che in tutta Italia le percentuali siano quelle di Bologna ma neppure credo che Bologna sia un caso unico, l’articolo del collega Guido Gallerani è informato, critico e intriso di un’etica professionale e di una coscienza politica (non di partito ma di “polis”) rare in molti ambienti, non solo accademici. Concordo sul pericolo che l’università finanziata dallo Stato, la quale è anzitutto comunità di pensiero libero, aperta alla società, spazio dedicato alla didattica e alla ricerca per la crescita intellettuale, politica, sociale e morale dei suoi cittadini, male interpreti la lezione appresa in questi tempi. Anche a mio avviso occorre essere vigili.
Mi ha molto colpito, inoltre, la testimonianza del collega Vincenzo, che con un pizzico di sconforto lamenta “domande poche, ricevimento mai”. Il sapere, che nel concetto stesso di università deve essere unico e diretto allo stesso fine, ossia la conoscenza (“universitas studiorum”, università degli studi, è lo scibile nella sua inscindibile unitarietà), sta prendendo direzioni separate, correndo lungo la via dello specialismo esasperato. Le facoltà umanistiche incentivano la didattica in presenza, il dialogo, lo spirito critico, lo scambio vivo della voce, mentre le discipline scientifiche sembrano aver preso altre strade di trasmissione del sapere fra generazioni. Le divergenze nella didattica trovano ovvie corrispondenze in enormi diversità nella ricerca. Ma conviene davvero dividere il sapere? Quando dovremo fronteggiare problemi epocali, come quello che stiamo vivendo ora, siamo sicuri che non occorrano invece risposte che si fondino senza dubbio su conoscenze specialistiche, ma sappiano comunicarle con linguaggi non improvvisati, gestualità e parole all’altezza del momento? Chi deve necessariamente fare la sintesi e scegliere da chi farsi guidare, dovrà possedere questa unitarietà di visione: e sarà meglio se tale unitarietà sarà condivisa dal maggior numero di persone possibile.