di Sandro Frizziero

 

[Pubblichiamo un’anticipazione dal nuovo romanzo di Sandro Frizziero, Sommersione, seguita dalla nota di Tiziano Scarpa che accompagna il libro, in uscita il 12 febbraio per Fazi]

 

Qualche anno fa, qui come altrove, non si parlava affatto di ambiente, né tantomeno di scioglimento dei ghiacci. Erano discorsi, questi, da boy-scout o da radical chic; per dire, sull’Isola ci si preoccupava molto di più dello scioglimento dei cubetti nello spritz che toglieva robustezza al Campari.

Tu non credevi ai cambiamenti climatici, come non ci credeva il tuo dottore, non ci credevano il macellaio e il tabaccaio; neppure tua figlia, la Simonetta, ci credeva, nonostante la sua spiccata sensibilità e la sua fama di ambientalista, e neanche la Cinzia, tua moglie, sembrava darci molto peso.

Lei, in ogni caso, non avrebbe mai espresso la sua opinione su un argomento così delicato, pace all’anima sua; sapeva bene, la Cinzia, di non farcela proprio a capire certe cose. Dopotutto, lei non aveva mai messo il naso fuori dall’Isola, che poteva saperne del mondo! Per questo le ricordavi a ogni occasione quanto fosse ignorante, ignorante come la merda, le dicevi, e quanto fosse stata fortunata, anzi fortunatissima, a trovare uno come te, che comunque di cose ne sapeva un sacco anche senza scuola, uno che aveva navigato e conosceva la fatica, perché la fatica, per conoscerla, bisogna viverla, mica basta raccontarla, come crede qualcuno.

 

Era meglio che la Cinzia se ne restasse muta, insomma, non come i tuoi compagni di bevute che, ancora oggi, non perdono occasione di pontificare sul pontificabile assieme, questo è ovvio, a don Antonio che, in quanto ministro di dio, ricorda ben volentieri agli uomini la loro finitudine, la loro naturale propensione all’abisso. Sic transit gloria mundi, sospira ogni tanto il prete, come se le pecore del suo infelicissimo gregge, perdute in questo coriandolo di mondo, potessero aspirare anche solo a un briciolo di grandezza.

La Cinzia, tua moglie, che era stata davvero una santa donna, a cui mancavano, per una probabile negligenza dell’altissimo, solo le stigmate, se ora fosse viva, invece, presterebbe grande attenzione alle sue omelie. In ginocchio, prima di dormire, pregherebbe dio di non far riscaldare troppo il Polo, di regolare meglio il termostato, in definitiva, così che il ghiaccio possa tenere duro e il mare risparmiare la vostra casa e il vostro piccolo magazzino.

 

Oggi lo sanno tutti che il processo di innalzamento delle acque è irreversibile nonostante gli scongiuri e le preghiere, e che le blande contromisure governative sono arrivate fuori tempo massimo, dimostrando ancora una volta la validità universale della storiella della rana che, gettata in una pentola, invece di saltare fuori subito e salvarsi, si gode il tepore prima di finire bollita.

L’Isola intera è destinata a essere sommersa senza troppe cerimonie, come una vecchia stanca che muore senza disturbare figli e nipoti. E se questo non bastasse, pure la subsidenza la condanna allo sprofondamento, accelerato peraltro dalle piattaforme che al largo delle sue coste succhiano gas dal sottosuolo.

Non c’è futuro sull’Isola che, a ben vedere, altro non è che una cicatrice del mare, un postaccio, insomma, dove non cresce nulla se non i platani piantati dal comune e le ostinatissime tamerici che ancora si aggrappano alla sabbia della spiaggia.

L’Isola ha forma allungata, non ha centro né periferia. Si sviluppa per una decina di chilometri in lunghezza, ma solo per qualche centinaio di metri in larghezza. Viste dall’alto, le terre emerse assumono l’aspetto d’un elastico teso che pare sempre sul punto di spezzarsi.

 

Pianeggiante e uniforme, l’Isola è il risultato di naturali e progressive sedimentazioni o del volere d’un estroso demiurgo interessato a separare il mare dalla laguna, vale a dire l’acqua viva e irrequieta del mare, dall’acqua ferma e stagnante della laguna; a creare dunque una barriera per pesci e navi, per alghe e boe, interrotta appena dalle bocche di porto. E l’acqua del mare che penetra nella laguna, con il suo instancabile lavorio, disegna gli arabeschi dei canali, plasma minuscoli bacini, lagune sussidiarie, barene semisommerse.

L’Isola, come sanno bene i suoi abitanti, resiste come ultimo baluardo dell’umanità, stretta tra la palude e il mare in un abbraccio mortale e, allo stesso tempo, seducente, al quale non può sfuggire.

L’Isola è collegata alla Terraferma da un efficientissimo servizio di battelli. Una corsa ogni mezz’ora, ogni giorno dell’anno, Natale e Capodanno compresi, sebbene sia davvero difficile immaginare perché qualcuno dovrebbe volerla raggiungere a Natale o a Capodanno. Solo durante la notte il servizio è sospeso.

Nonostante ciò, tu non puoi lasciare l’Isola, lo sai bene. È il prezzo da pagare per il male che hai fatto. Questa sottile striscia di terra che emerge a malapena dalle acque per te è un penitenziario, un carcere di massima sicurezza da cui nemmeno Edmond Dantès sarebbe stato in grado di evadere, una prigione diffusa dove le case del villaggio sono celle sorvegliate senza sosta da vedette appostate dietro a cartelloni pubblicitari e a cassonetti dell’immondizia; gattabuie al cui interno condannati come te subiscono ogni giorno interrogatori e intimidazioni.

 

Tu di questo carcere conosci praticamente ogni segreto: la disposizione ramificata delle celle, l’occupazione dei vari detenuti, i turni delle guardie, i percorsi dei pattugliamenti. Proprio per questo sai che la fuga è impossibile.

Con la borsa frigo in una mano e la canna nell’altra, cammini sulla diga, che poi è l’estremo confine dell’Isola. Da qui puoi vedere il profilo incerto delle sue coste e quello scuro dell’ex colonia gestita un tempo dalle Figlie della Carità, dette comunemente canossiane, divenuta prima un centro elioterapico per i bambini di Cˇernobyl’ e poi sede della setta millenarista degli Angeli, i cui adepti attendono l’imminente fine del mondo. Del resto, gli stessi isolani sono certi che entro breve tempo un diluvio universale colpirà l’Isola; se così non fosse, non si comprenderebbe la loro eccentrica abitudine di posizionare, in uno stato di apparente abbandono, piccole imbarcazioni lungo il ciglio delle strade o all’interno di ombrosi cortiletti.

Oltre l’ex colonia, si staglia la sagoma massiccia del forte costruito nel Medioevo per proteggere l’Isola, allora centro del commercio del sale, da improbabili incursioni piratesche; forte dal quale, ne sei sicuro, qualcuno scruta il mare per scongiurare possibili evasioni. Scommetti che anziani artiglieri ancora si aggirano tra i suoi bastioni, pronti a usare le loro bombarde polverose contro chiunque tenti di allontanarsi.

 

Poi, ancora più lontano, c’è il sarcofago coperto d’erba stinta del deposito di novemila metri cubi di gas propano liquido (combustibile non molto inquinante, è vero, ma infiammabilissimo), che si decise di costruire sull’Isola quando ancora non era quotidianamente allagata dalle maree e si riteneva fosse un ottimo punto di arrivo per le navi gasiere.

Nel mezzo, la schiera variopinta delle casette del villaggio, molte delle quali sono ormai vuote visto il calo demografico provocato dalle inondazioni e dall’inevitabile paludismo, sulle quali svetta il campanile candido della chiesa della Madonna dell’Apparizione e il palazzone dell’ospedale psichiatrico voluto dalla curia per rinchiudervi le suore e i preti dementi di mezza regione.

Se si esclude la costruzione del deposito di gas e i nuovi lampioni voluti dal sindaco, sull’Isola non è cambiato nulla rispetto a quando eri giovane. I vecchi della Terraferma possono dire, a ragione, che da loro è cambiato tutto, che non riconoscono più il paesaggio che li circonda, che nel luogo dove oggi sorgono grigi condomini e altrettanto brutti cavalcavia, un tempo c’erano campi circondati da boschetti e piccole strade di campagna. Possono sospirare, i vecchi della Terraferma, davanti a un parcheggio multipiano che seppellisce per sempre anche solo l’immagine offuscata di un casone agricolo o davanti a una piccola collinetta che cela una casamatta abbandonata dopo la guerra.

 

Tu stesso, scrutando dall’Isola il profilo incerto della Terraferma nelle giornate limpide, hai assistito al lontano moltiplicarsi dei comignoli delle industrie, alla posa di maestosi elettrodotti, all’innalzarsi delle prime torri; ma bastava tornassi a volgere il tuo sguardo al villaggio per renderti conto che sull’Isola non sarebbe arrivato nulla di nuovo.

Tu e gli altri vecchi dell’Isola non vi accorgete di alcuna differenza confrontando i vostri ricordi e ciò che vedete ogni giorno. Sull’Isola non esiste nostalgia per il paesaggio. Tutto è rimasto così com’era da tempo immemore, quasi che le piccole case alte e strette fossero anch’esse opera della natura, pochi metri quadrati generosamente messi a disposizione dal creatore perché famiglie numerose si azzuffassero e poi si stringessero ogni giorno attorno al fuoco per condividere povertà e miseria.

*

Nota

di Tiziano Scarpa

 

«In fondo all’Adriatico, a nord, esistono isole filiformi che separano il mare dalla laguna veneta. In una di queste esili terre Sandro Frizziero ha trovato il suo tesoro. Non un forziere di zecchini d’oro, ma qualcosa di infinitamente più prezioso per un romanziere (e dunque anche per noi lettori): uno scrigno di passioni brutali e primarie, di ipocrisia, maldicenza, invidia, avidità; vale a dire, tutti i sinonimi dell’amore malinteso.
Conosco l’Isola a cui si è ispirato l’autore, perciò posso apprezzare quanto l’abbia trasfigurata in una sua potente iperbole poetica, facendola diventare uno stemma di malumori e malamori universali. Un posto da cui si riescono a vedere le stelle del cielo, sì, ma solo perché «sono i lumini di un cimitero lontano».
Sommersione racconta la giornata decisiva di uno dei suoi abitanti – un vecchio pescatore – forse il più odioso; certamente quello che sa come odiare più e meglio di tutti gli altri: la vicina con il suo cane; la moglie morta; la figlia a cui interessa solo la casa da ereditare; i vecchi preti dementi ricoverati in un ospizio; qualche assassino e qualche prostituta; i devoti di un antico miracolo fasullo, inventato per coprire una scappatella; i bestemmiatori che spesso coincidono con i devoti; i frequentatori della Taverna, unico locale dell’Isola oltre all’American Bar, ma di gran lunga preferibile perché «all’American Bar non c’è ancora un sufficiente livello di disperazione».
Su tutto ciò il vecchio pescatore ha rancori da spargere, fatti e fattacci da ricordare; e però gli resta da fare ancora qualcosa che sorprenderà gli abitanti dell’Isola, lettori compresi. Questo romanzo gli dà del tu, perché Frizziero ha il dono dell’intimità con i suoi personaggi, ne è il ritrattista inesorabile. Sotto le sue frasi – o dovrei dire meglio: sotto i suoi precisi e ben dosati colpi di martello – l’umanità resta inchiodata al livello più inerziale dell’esistenza: l’altro nome di quest’Isola, infatti, potrebbe essere Entropia. Una formicolante, disperata, indimenticabile Entropia».

 

[Immagine: Giuseppe Michelini, Laguna veneta. Pescatori].

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