Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi
[Seconda puntata della rubrica a cura di Massimo Gezzi costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione, attualmente “congelata” e costretta a reinventarsi in forme nuove. Dopo Fabio Pusterla, risponde Francesco Targhetta].
1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?
Sono entrato di ruolo nel 2017, dopo 10 anni di supplenze. Insegno a tempo pieno in un liceo con più indirizzi (scientifico, linguistico, scienze umane) di Treviso.
2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?
Sì, ma è un discorso che si potrebbe fare per altre espressioni culturali che si incontrano solo a scuola (penso alla filosofia), e in più anch’io sospetto, come Fabio Pusterla, che sia sempre stato così, per quanto sia indubbio che oggi la poesia abbia raggiunto un impareggiabile livello di invisibilità. Detto questo, rispetto al passato un insegnante di oggi ha a disposizione molti più strumenti per intercettare la curiosità dei ragazzi verso la poesia, a partire dall’addentellato del rap. Se, ad esempio, in seconda si partisse dall’analisi del testo di una (buona) canzone rap e non da Petrarca o Carducci per far familiarizzare gli studenti con alcuni aspetti stilistici, metrici e retorici della scrittura in versi, li si potrebbe poi introdurre nel mondo della poesia con meno pregiudizi negativi, soprattutto se all’analisi di quel testo si facesse seguire la lettura di qualche poeta contemporaneo. Gli studenti di oggi hanno molto più a che fare con rime, allitterazioni e paronomasie degli studenti di qualsiasi altro momento storico: approfittiamone. Nelle gabbie dello zoo troppo spesso ci stanno, più che i poeti, gli insegnanti, incluso il sottoscritto.
3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?
Qualche volta è capitato, ma non molte. C’è sempre, in qualsiasi classe, anche un solo studente cui si illuminano gli occhi a sentire leggere una poesia o che quantomeno è curioso di scoprire Leopardi e si fa incuriosire da Ariosto, Tasso, Pascoli o Gozzano, e da insegnante che sa quanto solo tenendo viva la propria passione si possa fare breccia nei ragazzi e accendere in loro un interesse, cerco di agganciarmi agli sguardi e alla presenza di quello studente per provare a coinvolgerne altri. Si sa che non è possibile appassionare tutti; anzi, è ovvio che sarà una minoranza quella che troverà nella poesia una scintilla. Non è così anche tra gli adulti, con un surplus di presunzione e diffidenza? Sicché devo dire che non sono mai caduto in spirali frustranti, tranne forse con il Dante della Commedia. Mentre l’Inferno piace sempre, proporre il Purgatorio (che pure è la cantica che preferisco) e soprattutto il Paradiso è ormai arduo anche nelle classi più motivate, e ogni anno mi chiedo quanto sia necessario perseverare. Intanto, a malincuore, riduco vieppiù il loro spazio.
4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?
Sono semplicemente due cose che mi piace fare, ma credo che la relazione esista piuttosto tra la mia esperienza di lettore e quella di insegnante. Consiglio ai miei studenti i libri che sono piaciuti a me (dando sempre loro la possibilità di scegliere tra almeno tre alternative alla volta, di modo che trovino, in quel piccolo ventaglio, ciò che più fa il caso loro), mi emoziono quando leggo certi testi in classe, e, insomma, si capisce che amo la letteratura e che i libri hanno avuto una parte fondamentale nel fare di me quello che i ragazzi vedono ogni giorno nelle aule. Non credo invece che il mestiere di prof abbia avuto un’influenza sul mio modo di scrivere (anche se di scuola un po’ si parla in Perciò veniamo bene nelle fotografie); certamente si può dire che abbia migliorato il mio modo di leggere. In classe leggo sempre io, ed è stata una grande palestra. Spesso mi costa fatica. La voce mi si rompe, il fiato mi si spezza, rallento e mi fermo, o al contrario mi scappa una sincera risata. Ma ho imparato a non vergognarmi se mi emoziono a leggere una poesia di fronte a trenta adolescenti, e mi fa piacere notare ogni tanto con la coda dell’occhio che c’è una ragazza o un ragazzo che ha fatto cadere le autodifese e si è lasciato coinvolgere emotivamente.
5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.
Sì, regolarmente. Al biennio propongo quasi soltanto testi del ‘900 e di autori viventi, sia per la narrativa che per la poesia. Ma anche al triennio ci lavoro parecchio: ogni anno nelle mie classi facciamo discussioni attorno a una dozzina di romanzi contemporanei, italiani e stranieri, e lavoriamo ad almeno un progetto che coinvolge scrittori viventi, dal classico incontro con l’autore (Fontana, Bajani, Durastanti, Szalay) a concorsi legati alla scrittura creativa o alla recensione (anche di libri di poesia: nel 2018 per il premio Castello di Villalta leggemmo Burratti, Ariot e Donalisio, recensendo poi quest’ultimo). In due classi ho provato la sfida di inserire tra i libri da leggere per le vacanze estive un titolo di poesia contemporanea (anche qui dando una scelta di 3-4 raccolte). Purtroppo l’anno successivo ho cambiato scuola e non ho potuto avere riscontri; ma è un esperimento che ripeterò. Aneddoti ne avrei tanti, ma a lasciarmi sempre basito, anche come autore che ogni tanto va nelle scuole, è lo sgomento degli studenti quando si ritrovano a leggere o a incontrare uno scrittore non morto. Sembra loro una contraddizione.
6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?
La scuola può esserlo, certo, soprattutto per quanto riguarda la lettura. Dipende, al solito, dal singolo docente. Ce ne sono che stimolano conversazioni sui libri, che aderiscono a progetti di promozione della lettura, che dedicano alla letteratura contemporanea una parte importante della programmazione annuale, che continuano a parlare di libri e a consigliarne anche a ex studenti usciti dalla scuola da un po’, e ce ne sono che non leggono un libro da anni.
Il discorso sulla scrittura è più complicato, perché a scuola giocoforza si lavora su tipologie testuali di analisi o argomentazione, a discapito della scrittura creativa (con l’eccezione forse del primo anno). La soluzione migliore per stimolare gli studenti appassionati di scrittura è organizzare qualche seminario o corso pomeridiano. Qualche volta mi è capitato ed è stato fruttuoso. Un paio di anni fa, in occasione di un concorso dell’università di Verona, tenni con una collega qualche lezione sulla poesia breve (tanka e haiku); fu una bella esperienza. Ma non è facile, con l’elefantiasi degli impegni burocratici e delle riunioni, dedicare le giuste energie a questi progetti: nella mia scuola sono il referente per la promozione alla lettura e per i concorsi letterari, e devo dire che, a fronte della quantità esorbitante di bandi che mi arrivano ogni giorno e che giro ai colleghi, il coinvolgimento delle ragazze e dei ragazzi è poi minimo. Sia noi che loro siamo travolti da una sovrabbondanza di stimoli che rende difficile focalizzarsi su un’idea. D’altronde durante l’università le cose vanno pure peggio: tutti i miei ex studenti appassionati di scrittura negli anni universitari smettono di scrivere.
7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innestano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:
Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.
Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?
Il modello di insegnante à la professor Keating non mi è mai piaciuto, e questa proposta mi sembra andare pericolosamente in quella direzione. Vero è che la valutazione rimane l’incombenza più delicata e spinosa per un docente, e gli studenti ne subiscono sempre più la pressione (vedi le crescenti ansie, gli attacchi di panico, i meccanismi competitivi deteriori, l’interesse solo al voto), ma proverei, prima di soluzioni drastiche, altre strade. Ad esempio eliminerei una volta per tutte la modalità di interrogazione tipica della scuola italiana (lo studente ripete ciò che l’insegnante ha spiegato, tutt’al più integrandolo), che è ancora diffusissima; si valuti oralmente solo con strategie alternative (approfondimento, esposizione di testi, lezione tenuta dai ragazzi ai propri compagni ecc.), che facilitino il coinvolgimento degli studenti. Naturalmente si tratta anzitutto di cambiare il modo di fare lezione. Non è facile, e penso alle mie stesse resistenze. Ma mi sembra chiaro che qualche nuova soluzione vada tentata.
8) Ultima curiosità: fai l’insegnante di lettere (o di altro) anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante di lettere (o di altro), da qualche parte nel tuo percorso?
Avevo una buona insegnante di lettere al liceo, ma la mia passione per la letteratura era già sbocciata, direi autonomamente. Le sono grato perché nell’estate tra la quarta e la quinta ci diede da leggere un libro a scelta tra il Pasticciaccio di Gadda e L’altrieri di Dossi. Dossi non lo lesse nessuno: era fuori catalogo. Ma lo recuperai appena possibile e resta uno dei miei autori prediletti. Detto questo, a quell’età mai avrei pensato che sarei diventato un insegnante. È un’ipotesi che si è palesata solo alla fine dell’università. Mi stupisce positivamente trovare ora tra i miei studenti alcuni che hanno intenzione di insegnare. Non è un caso, però. Se i sondaggi recenti dicono che quello dell’insegnante è un lavoro con una rispettabilità sociale medio-bassa, dicono anche che la categoria che ne ha la stima più alta è quella degli studenti.
Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi
[Immagine: Foto di Friedrich Seidenstücker].