di Luca Illetterati
Ognuno di noi la vive in modo diverso. Ma soprattutto, questo mi sembra di avere notato, ognuno di noi si sta accorgendo in questi giorni di essere un po’ diverso da se stesso, da ciò che pensa o si è convinto di essere. Forse è solo perché ognuno di noi è in realtà tante cose diverse ingarbugliate fra loro, per cui a volte viene fuori un colore o una sua peculiare declinazione, a volte un altro con altre declinazioni, e perlopiù una pluralità di sfumature non sempre e anzi quasi mai fra loro coerenti.
Finora questa quiete ovattata l’ho vissuta quasi come un privilegio, per quanto appaia orrido dirlo.
Ho recuperato un senso del tempo che avevo perduto, uno spazio vitale (sì: vitale) e di lavoro oramai del tutto dimenticato: ho letto molto, senza affanno, ho scritto, ho finito lavori che erano rimasti sospesi, ho chiuso piccole pratiche di lavoro la cui persistenza mi angosciava. Soprattutto ho avvertito l’inebriante leggerezza di una condizione di libertà in cui le deadlines che attanagliano quasi tutte le mie giornate (quella relativa alla consegna di un articolo, alla stesura di un paper da inviare, all’elaborazione di un titolo che stanno attendendo, alla compilazione di un modulo la cui mancata spedizione tiene fermo l’ingranaggio su cui altri devono agire) vanno sciogliendosi e liquefacendosi come cubetti di ghiaccio vicino a una fonte di calore. A ogni deadline che andava e va sfumando provavo e provo un senso di piacere malato e drogato che persino un po’ mi vergogno a descrivere. Ho pensato che era qualcosa a cui valeva la pena di pensare il fatto che solo l’emergenza, la paura, la vita che si ferma mi consentissero di vivere il mio lavoro non dico nell’unico modo in cui avrebbe senso che esso fosse vissuto, ma con uno sguardo in qualche modo più reale, più aderente alle cose, più vero.
Insomma, ci sono stato piuttosto bene finora dentro questo delirio silente, dentro questa sospensione eterea.
Poi oggi, mentre guardavo il telegiornale, vedendo quel filmatino un po’ scemo in cui si vedono dei ragazzi e delle ragazze cinesi ovviamente tutte e tutti di mascherina munit* che esprimevano la loro solidarietà a noi italian*, che ci dicevano di essere forti, che sicuramente ce l’avremmo fatta, mentre vedevo quel filmato – dicevo – volendolo commentare con mia moglie, mi sono accorto che mi usciva una voce rotta, una voce assurdamente commossa, tanto che facevo persino fatica a dire quello che stavo dicendo, come quando una cosa simile al pianto ci sale in gola mentre stiamo dicendo qualcosa che tocca i nostri sentimenti più profondi; tipo la morte, o la nascita o un gesto sincero e schietto.
Mi stavo commuovendo (anzi: mi sono commosso) guardando dei cinesi che alzavano il pollice per farci coraggio in un filmato trasmesso da un telegiornale!
Mentre cercavo di mascherare la voce rotta e un po’ ridicola che mi usciva dalla bocca impastata, dissimulando con una tosse artificiale l’imbarazzo di fronte a mia moglie, mi è venuto in mente un episodio di tanti anni fa e che forse avevo un po’ rimosso.
Era una domenica, ero giovane, avevo certamente meno di trent’anni, ed ero andato a casa di un mio amico, l’unico del mio giro che viveva da solo. Era pomeriggio, saranno state le 14.30 o giù di lì. Quando mi aprì, lo vidi un po’ strano. Indossava una vecchia e consumata tuta da ginnastica azzurra con delle striscioline a comporre la bandiera italiana sui bordi delle maniche sull’elastico che stringeva i pantaloni alla caviglia che risaliva al periodo in cui aveva fatto il corso ad Aosta per diventare ufficiale degli alpini, e si vedeva che era stanco. Entrai e mi chiese se volessi un caffè. Gli dissi di sì e ci sedemmo silenziosi in cucina, io attendendo una qualche spiegazione a quel senso di impacciata stranezza, lui perché forse un po’ imbarazzato.
Dalla stanza accanto si sentiva la tv, si sentiva che c’era Domenica In. Allora, anche per spezzare un po’ l’atmosfera, lo presi un po’ in giro, gli dissi che era un po’ una vecchia zia: in tuta e ciabatte, la domenica pomeriggio, con gli orridi schiamazzi di Domenica In alla tv. Lui si girò, lasciando la moka sopra i fornelli e con addosso un sorriso da extraterrestre mi disse che Toto Cutugno – era l’anno che Domenica In la conduceva Toto Cutugno e quindi (ho controllato) era il 1987 – gli aveva appena salvato la vita. Disse proprio così, che Toto Cutugno gli aveva salvato la vita. Io scoppiai a ridere, perché mi sembrava una battuta strepitosa, di quelle di cui lui e solo lui era capace. Sì perché quel mio amico non era come noi. Lui vedeva in modo diverso da noi. E quasi sempre in un modo migliore rispetto a noi.
Sorrise, guardò un po’ fuori dalla finestra, ma poco dopo tornò a guardarmi tenendo lo sguardo fermo sul mio. E capii, in un istante, come fulminato, che era proprio vero, che non era una battuta delle sue. Una frase di Toto Cutugno, una frase di quelle banali che si dicono in tv in quel genere di programmi, una cosa tipo ‘un pensiero a tutte le persone che stanno soffrendo’ o qualcosa del genere, gli aveva salvato la vita, gli aveva impedito di crollare dentro il buco nero che a volte lo attanagliava e che questa volta – mi disse dopo un po’ – lo stava davvero ingoiando.
Ecco mi è venuta in mente questa cosa alzandomi dalla poltrona per cercare un fazzoletto di carta dentro il quale soffiare il naso inumidito.
E allora ho pensato anche che siamo animali davvero strani. Animali, che quando camminano su un qualche crinale, quando costeggiano un qualche bordo magari senza accorgersi che stanno cadendo, si scoprono per quello che sono e riescono persino a trovare un senso minimale all’esistenza guardando il sorriso instagrammatico di un* ragazz* cinese in tv o ascoltando una frase, peraltro sicuramente sincera o comunque chissenefrega, di un Toto Cutugno qualsiasi.
forse è che nella necessità emergenziale le parole tornano al loro posto – e “deadline” e “scadenza” tornano al loro posto, e lo scarto fra necessario e non necessario si fa più palese