di Valerio Cappozzo
Una leggera rotazione del mappamondo da sinistra verso destra e la centralità dell’Europa scivola verso est, lasciando il suo posto alle Americhe. E così la storia si ripete.
La peste nera cominciò a diffondersi dal 1347 nel nord della Cina e viaggiò velocemente verso ovest passando per la Turchia, la Siria, l’Egitto, la Grecia, la penisola balcanica prima di infettare la Sicilia e così l’Italia intera dirigendosi verso nord in Svizzera, in Francia e Spagna, in Inghilterra, Irlanda e in Scozia uccidendo un terzo della popolazione europea, all’incirca venti milioni di persone. Fu un evento catastrofico che influenzò la vita sociale, la religione e le arti, come successe tra il 429 e il 426 a.C. La peste di Atene si scatenò durante il conflitto tra l’esercito ateniese e Sparta, pestilenza descritta dallo storico Tucidide nel secondo libro de La Guerra del Peloponneso, in cui ne traccia le origini: «A quanto si dice [il male] comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo» [II, ii, 48]. Per far fronte all’emergenza il generale Pericle, che morì a causa dell’epidemia, convocò l’assemblea del popolo e si rivolse ai suoi concittadini con queste parole:
Prevedevo il vostro risentimento che non mi ha colto improvviso, poiché ne avverto in trasparenza le ragioni. Perciò ho ora deciso di convocarvi in assemblea, per ravvivarvi la memoria e correggervi, se qualche irragionevole ombra appanna il vostro atteggiamento, inquieto e tetro nei miei confronti e troppo passivo contro le avversità di quest’ora. È mia opinione che il profitto del singolo cittadino, quando l’organismo dello stato è sorretto da una mano ferma e regolare, sia più prospero che quando l’utile pubblico, fiorente per le individuali e private sostanze, soggiace in realtà nel suo complesso a squilibri e tracolli. Se un cittadino vola alto sulle ali della sua personale fortuna ma la sua patria langue in decadenza, il suo volo avrà breve respiro: se al contrario la sua condizione è vile e la salute dello stato robusta godrà di più cospicue facoltà d’elevarsi [II, ii, 60].
I momenti di crisi causati da eventi naturali così nefasti hanno il potere di far emergere la vera identità del paese colpito. Nella reazione politica e civile di un popolo si manifestano il carattere di una nazione, le sue forze e le sue debolezze. Atene, con la vittoria in mano contro l’acerrima nemica Sparta, finì per perdere il controllo che esercitava nel Peloponneso uscendo dalla guerra indebolita e Pericle, conscio della forza militare, economica e culturale del proprio paese, pronunciò parole sensate e utili al bene comune. Il suo discorso, partendo dal singolo, è incentrato sul destino della nazione facendo sentire chiunque, giusti e iniqui, parte di un tutto. Un intero che se conosce l’indebolimento causato dal mancato rispetto delle leggi, anche in forma esigua, rischia di sgretolarsi. A questo pensiero fa eco la religione che è indicativa in caso di pestilenze, considerate punizioni divine contro il traviamento umano:
Un fuoco si è acceso nella mia collera
e brucerà fino nella profondità degl’inferi;
divorerà la terra e il suo prodotto
e incendierà le radici dei monti.
Accumulerò sopra di loro i malanni;
le mie frecce esaurirò contro di loro.
Saranno estenuati dalla fame,
divorati dalla febbre e da peste dolorosa.
Il dente delle belve manderò contro di essi,
con il veleno dei rettili che strisciano nella polvere [Deuteronomio 32:23-24]
Con queste parole Mosè mette in guardia gli ebrei ricordando loro quali siano le disposizioni della legge divina e persuadendoli a ottemperarle per garantire la prosperità futura. Nel caso in cui i comandamenti non vengano rispettati sarà invece l’inferno, dove il risentimento più feroce della divinità si sfoga in modo cruento, padre di un figlio scellerato che merita il castigo, la punizione e la tristezza, l’isolamento e la morte in ogni angolo della terra. Così fu considerata la peste nera che nel 1348 raggiunse il suo picco in Europa e in Italia. Una delle reazioni al contagio fu la fobia popolare che si scatenò contro gli ebrei, innescando una vera e propria caccia alle streghe sedata da Papa Clemente VI che si oppose alle accuse di delitto o di contagio mosse verso un popolo che, nonostante la slealtà, come scrive nella sua bolla papale Quamvis perfidiam ludaeorum, non meritava le colpe che gli venivano addossate. Responsabilità assurde, insensate, potremmo aggiungere rileggendo in termini moderni il contenuto dello scritto pontificale che in quel preciso momento storico interpretava diversi interrogativi del rapporto uomo-Dio, del modo in cui i fedeli intendessero la religione e come il potere ecclesiastico stesse trasgredendo i principi fondamentali del Cristianesimo.
Sarà la letteratura ad affrontare la questione da diversi punti di vista. Dante attraverso la ristrutturazione della cosmologia ultraterrena e della morale che la governa, Boccaccio trattando della peste già nel proemio del Decameron. Qui la pandemia ha una funzione diegetica e determina le ragioni dell’opera. Nella situazione in cui «la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata» rischia di demoralizzare chiunque, la letteratura interviene come antidoto all’orrido perché è nella consolazione del raccontare la possibilità di provare ancora piacere, vitalità e speranza nel futuro.
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata [I, I, introduzione, 8-9].
Nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano […]. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male […]. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare [I, I, introduzione, 19-23]
Questo è il desolato scenario del 1348 in cui la lotta di Dio contro l’uomo, o dell’uomo contro l’uomo, esaltava l’ingiustizia e il libero sfogo dei bassi istinti alla ricerca della sopravvivenza. Menti elevate come quella di Boccaccio prendono spunto dall’urgenza della condizione per descrivere la società intera, per sublimare la mortalità della pestilenza con ragionamenti sullo stato delle cose mentre i più si lasciavano sfuggire di mano l’occasione per essere solidali, preferendo saccheggiare moralmente, nonché materialmente, i propri simili. Questo disordine assoluto, questa entropia sociale senza precedenti, offre un momento di riflessione perché nella difficoltà sono più chiare le priorità e si definisce naturalmente il valore degli affetti, dei legami, degli individui.
Tra il 1629 e il 1633 l’Italia settentrionale, insieme al Granducato di Toscana e alla Svizzera, si trovò ad affrontare un’altra peste, di proporzioni ridotte in confronto a quella del Trecento ma comunque tragiche. Il virus fu portato in Italia dai Lanzichenecchi provenienti dalla Germania per sedare nelle città le sommosse dei mendicanti che protestavano contro le condizioni di vita nelle campagne colpite da carestia. Alessandro Manzoni, due secoli dopo, ambientò il suo romanzo storico negli anni della peste seicentesca perché, come era già stato per Boccaccio, la pestilenza era occasione per analizzare l’animo umano nel momento di crisi. Il modo in cui linguisticamente si parla del morbo, secondo Manzoni, basta a denotare lo smarrimento della ragione, il difetto nell’ascoltare, osservare per poi usare delle parole che possano essere indice di responsabilità.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle piccole cose, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre messe insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire [I promessi sposi, cap. XXXI]
Dalla letteratura e dalla storia torniamo sul piano della quotidianità per guardare la condizione che caratterizza il nostro oggi. Quello che ci separa dall’Antica Grecia è più evidente dalla distanza con il Medioevo o con il Seicento. Ma la differenza non risiede nella lontananza del tempo, quanto nella mancanza odierna di lucidità politica, sociale e antropologica, un difetto che la stessa letteratura va notando da secoli. Le parole di Pericle, riportate da Tucidide, se confrontate con l’odierno “capo degli ateniesi”, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sembrano appartenere a una lingua che non ha trovato voce nella modernità. Il breve discorso televisivo trasmesso l’11 marzo 2020 dalla Casa Bianca mostra dei segnali sconcertanti perché dichiara la superiorità degli americani nei confronti del mondo, del virus stesso, dei popoli tutti. Il risultato è quello di considerare l’Europa responsabile della propagazione occidentale della pandemia definita «virus straniero», dandole quindi una connotazione razziale, come successe contro gli ebrei e contro l’Oriente nel 1348. I rischi li abbiamo già ricordati, l’indebolimento nazionale, come in Grecia, o l’entropia sociale che rese gli uomini peggiori nella loro sconsiderata ricerca di un’illusoria liberazione dal male, come accadde durante la peste del Seicento. Oggi è sembrato tutto scivolare in una distrazione e in un silenzio interrotto da poche dichiarazioni che mancano di precisione. Si bloccano i viaggi, si innalzano muri oceanici per non voler scoperchiare la vera situazione sanitaria degli U.S.A., cartina di tornasole del sistema capitalistico, ma soprattutto si fa finta di nulla in questo grande paese che guarda con preoccupazione agli altri ma che non riesce ancora a capire di essere parte del problema globale. Questa la sensazione vivendo da parecchi anni in America e ora aspettando la reazione alla nuova peste che come tutte le altre darà modo a ogni continente, a ogni nazione, a ogni individuo di mostrarsi o anche di realizzare, seppur per un attimo, la propria identità. La storia ai giorni nostri si sta rivelando maestra non di vita ma di ignavia, mentre la natura si impone con lo stesso vigore da migliaia di anni, sempre più forte, più tenace e coerente nella sua lotta contro il virus-uomo.
[Immagine: Ebrei mandati al rogo durante una pestilenza].