di Italo Testa
L’immagine di Papa Francesco che percorre a piedi le strade deserte della città eterna, circondato dalla scorta che si tiene a debita distanza, mentre richiama ex negativo i fotogrammi di Habemus papam – Michel Piccoli vescovo di Roma in borghese, disorientato, in fuga da se stesso, che vaga per le strade delle città – è forse anche il simbolo vivente di quell’eclissi della religione cui, tra le altre cose, sembra di assistere in questi giorni.
Il ciclo storico segnato dal terrorismo religioso aveva condotto molti negli scorsi anni a ripensare la tesi della secolarizzazione – quel processo di desacralizzazione che nella modernità avrebbe dovuto condurre ad un radicale disincantamento delle immagini del mondo – e a metterne in dubbio il procedere lineare e irrevocabile, osservando piuttosto nel contemporaneo una reviviscenza, per quanto ibridata, di forme di sacralizzazione dell’esistenza. Nello stesso tempo, a molti era parso di notare un nuovo protagonismo della religione, che anziché restringersi alla sfera privata, come nelle interpretazioni protestanti della modernità, sarebbe tornata in modo influente a calcare la sfera pubblica.
A fronte di tali letture, appare tanto più sconcertante come, nell’emergenza del coronavirus, la presenza pubblica della chiesa si sia liquefatta, come se, posta di fronte al Grand Jeu, questa agenzia del sacro avesse deposto le armi senza colpo ferire. Non si tratta qui solo di osservare come la sospensione delle funzioni religiose pubbliche nelle scorse settimane, la chiusura delle chiese di Roma, al massimo poi riaperte per accogliere i poveri, e il silenzio dei vescovi (in passato così loquaci su tutto) siano altrettanti segni di una sorta di abdicazione volontaria da parte della chiesa cattolica, che proprio attraverso la gestione sacrale di emergenze epidemiche aveva costruito parte della sua fortuna storica e giustificato il suo ruolo pubblico. Ancora più significativo è che tutto ciò sia entrato senza attrito nel senso comune, senza suscitare proteste, come se ci si attendesse esattamente questo, come se gli orizzonti di attesa delle persone fossero già tarati sulla razionalità dell’idea che i centri commerciali restino aperti solo nei giorni feriali e le chiese chiuse anche nel week end.
L’impressione è che, a fronte del coronavirus, le immagini religiose del mondo siano in ritirata, residuali. Il silenzio della religione non riguarda solo la diserzione della chiesa cattolica – né sembra che le altre religioni organizzate stiano dando segnali di vita più intensi – o l’accettazione immediata e ragionevole da parte dei ‘fedeli’ del divieto di matrimoni e funerali. Più in generale, nella rielaborazione di quanto sta accadendo la religione sembra assente dall’orizzonte ermeneutico delle persone e dalle forme di comunità in cui esse navigano. Nel gruppo WhatsApp dei genitori della scuola può pure capitare che al millesimo messaggio qualcuno proponga anche di dire una preghiera. Ma è un fatto abbastanza evidente che le voci di virologi, epidemiologi, statistici non esercitano nemmeno più quella forma di sostituzione nel discorso pubblico dell’autorità della religione con l’autorità della scienza che i modelli positivisti prevedevano. E non è neppure del tutto vero che oggi ci rivolgiamo alla scienza come dispensatrice di quelle speranze che un tempo la religione poteva alimentare. Assistiamo piuttosto a una sorta di bricolage biopolitico di gestione e rappresentazione pubblica della crisi, in cui si tenta di mettere assieme, in modo improvvisato e, pace Agamben, nient’affatto totalitario, spezzoni eterogenei discorso scientifico, amministrativo, politico, senza che il registro religioso intervenga in alcuna maniera significativa.
Senz’altro occorre non confondere secolarizzazione e religione tradizionale, poiché il declino delle religioni organizzate è compatibile, come avvertiva Durkheim, con la reviviscenza di pratiche sacrali, rituali, culti che si ripresentano in forma mescidata, metamorfica. E ancora non sappiamo cosa potrebbe accadere, a livello di reazioni collettive allo shock, se si avverassero le previsioni più catastrofiche circa l’evoluzione della crisi. E tuttavia, permane il sospetto che nei prossimi anni anche le letture postsecolari della contemporaneità dovranno essere sottoposte a verifica.
Questa mattina all’alba sono uscito di casa e, pensando a dove avrei potuto camminare senza nuocere al prossimo e a me stesso, ho imboccato la mulattiera che conduce al Santuario di Montallegro. Avevo l’abbigliamento da corsa. Ho incontrato altre tre persone all’andata, cinque-sei al ritorno. Avevano tutti le scarpette da corsa, o da trekking: runner in astinenza in cerca di alternative socialmente accettabili, praticanti del trail running, escursionisti. Questa sera, compulsando internet, ho trovato invece un trafiletto del Secolo XIX, “Contro il coronavirus Rapallo si affida alla Madonna di Montallegro”, che riportava la seguente notizia:
“È già successo nella storia; ma un conto è leggerlo nei libri e un altro è viverlo. La comunità di Rapallo, così come ad esempio al tempo della peste o degli attacchi saraceni, si è affidata alla Madonna di Montallegro affinché preservi la città in questo momento particolarmente difficile. La funzione religiosa è stata celebrata a porte chiuse.”
“Il tre gennaio 1581, il Papa passò davanti alla nostra finestra […]”.
Michel de Montaigne, Journal de voyage, Presses Universitaires de France, Paris 1992 p. 116