di Antonello Ciccozzi [1]
La lezione dell’Aquila
I media generalmente preferirono titolare “scienziati assolti” ma, dopo il terremoto dell’Aquila, il processo alla Commissione Grandi Rischi si chiuse con la condanna di uno degli esperti imputati, riconosciuto colpevole dalla giustizia italiana perché – in mezzo a una sequenza sismica in crescita da mesi – durante un’intervista televisiva postulò che non vi fosse pericolo alcuno, invitando i cittadini a bersi un bicchiere di Montepulciano. Da lì una rappresentazione sociale di assenza di pericolosità – ancorata sul concetto di “sciame sismico” e oggettivata nel significato di “scarico positivo di energia” – contagiò immediatamente il senso comune locale, diffondendosi orizzontalmente nell’area a rischio a macchia d’olio, e propagandosi verticalmente tra i suoi strati sociali.
Quella diagnosi rassicurante calò così dall’universo reificato dei saperi esperti, contagiando rapidamente quello consensuale della vita quotidiana, trasformata in una credenza folklorica con cui la gente, affamata di spiegazioni con cui saziare la montante paura, dava senso all’evento perturbante che viveva[2]. Tale rappresentazione di assenza di rischio fu usata dalla gente come un amuleto apotropaico, nel tentativo non solo inutile, ma nefasto, di scacciare il male, interpretando con parole rassicuranti una realtà pericolosa; nella pretesa illusoria e nefasta di addomesticarla come qualcosa d’innocuo.
Partecipai a quel processo giuridico come consulente tecnico per l’Accusa, spiegando in questo modo come quella comunicazione, diminuendo la percezione del rischio, aveva aumentato l’esposizione al pericolo (il pericolo di morire travolti dal sisma, che poi è arrivato), rivelandosi, in determinati casi, quale concausa reale di morte. Per questo, al di là di tanti fraintendimenti mediatici o corporativistici, va chiarito che il processo dell’Aquila non fu un processo “contro la scienza”; semmai è stato, al contrario, un processo per la scienza, in quanto rivolto alle conseguenze disastrose che può avere una fallace valutazione e comunicazione del rischio. Come antropologo culturale, da dieci anni cerco di chiarire che quella vicenda non riguarda solo il dettaglio di quanto successe all’Aquila, ma sottende uno schema generale che ci informa in modo emblematico su quello che avviene spesso, troppo spesso, di fronte a molte emergenze collettive, e che troppo spesso ignoriamo, con conseguenze nefaste. Il titolo di quella consulenza era proprio ‘Rassicurazionismo’.
L’aperitivo di Zingaretti
Ho provato sgomento nell’aver visto la foto del politico Nicola Zingaretti con il suo invito all’aperitivo milanese, che il 27 febbraio brindava allegramente alla faccia del coronavirus. Provo sgomento perché, poco dopo quel tentativo apotropaico, e all’opposto delle sue intenzioni, Zingaretti il coronavirus lo ha contratto. Il corpo di quest’uomo politico è stato contagiato dal coronavirus perché prima la sua mente era stata contagiata da una rassicurazione disastrosa che era approdata nello spazio dei discorsi pubblici a partire dallo spillover di avventate diagnosi dei saperi esperti[3]. Così, nella per troppi giorni protratta pretesa di derubricare il coronavirus a “semplice influenza”, si è giunti a derubricare a risibile allarmismo le condotte precauzionali che si volevano disporre per arginare il contagio; tutto in un’irrazionale ingenuità pericolosamente mascherata da saggezza.
L’aver ancorato questa pandemia in crescita esponenziale globale al termine “influenza” e l’averla quindi oggettivata nel significato implicito di “normale malanno passeggero generalmente innocuo” ha costituito in sé un veicolo funestamente efficiente di contagio del Coronavirus. Zingaretti è stato vittima e complice-portatore inconsapevole di questo abbaglio. Speriamo che guarisca, come c’è da sperare che guariscano anche tutte le migliaia di persone che hanno contratto il virus perché si sono fatte convincere da simili slanci rassicurazionistici mascherati da ottimismo, che li hanno incorporati in idee e comportamenti con cui hanno agito e cercato di persuadere i loro prossimi. Egli è stato solo uno dei tanti officianti pubblici di questi incoscienti e nefasti cerimoniali, con cui si è preteso in modo grottescamente prelogistico, magico, primitivo, di erigere uno scudo alla diffusione crescente di un virus. Il suo è stato solo uno tra i tanti slogan rassicuranti, che, data la situazione, si svelano come malsane superstizioni che sono servite solo a soddisfare una dannosa pulsione alla rimozione del rischio, aumentando così la propagazione del male che si proponevano di scongiurare.
Perciò non resta che sperare che questa nemesi tragicomica potrà essere almeno servita ad aprire gli occhi a chi, non solo in Italia ma un po’ ovunque in giro per il mondo, non ha ancora inteso che la situazione è catastrofica (come c’è da sperare che un’eventuale auspicabile asintomaticità nel nostro politico non finisca con il fomentare ulteriori illusioni di non pericolosità del virus). Ma la speranza da sola non basta, e va aiutata con la costruzione sociale di argini di consapevolezza, necessari per rallentare il contagio; ora e quando ai primi segnali di miglioramento si diffonderà la tentazione di gridare che è finita prima del tempo, esponendoci così a un ritorno dell’epidemia. Per riparare i danni prodotti attraverso certi messaggi, forse è il caso che questo lemma – rassicurazionismo – entri nel linguaggio pubblico. È ora che sia chiaro che il rassicurazionismo è pericoloso come l’allarmismo, o peggio. Forse oggi il peso di questa parola nascosta si può iniziare a comprendere meglio. Perciò questo termine deve essere scoperto.
Comprendere il pericolo del rassicurazionismo per salvare vite umane
‘Rassicurazionismo’ non è nient’altro che il contrario puro di ‘allarmismo’, un termine che manca dal senso comune: esiste solo in potenza, nel cono d’ombra delineato dalla parola a cui si oppone; forse velato da una dannosa distrazione circa la sua apparente futilità e pesantezza in tempi normali, la stessa che diventa utilità, vitalità in tempi di emergenza. Nella consulenza che ho redatto per il processo dell’Aquila spiegavo che ‘allarmismo’ è un lemma composto dal sostantivo ‘allarme’ (che significa “segnalazione di emergenza”) e dal suffisso ‘-ismo’ (che significa in questo caso “dottrinarietà”, fissazione immotivata spesso legata ad atteggiamenti collettivi), i quali insieme delineano un significato di “tendenza a preoccuparsi e ad ingenerare timore verso gli altri in assenza di validi motivi”. È proprio il suffisso ‘-ismo’ a conferire al termine la connotazione dell’immotivatezza rispetto alla segnalazione di emergenza. Viceversa, poiché termini come ‘tranquillizzazione’ o ‘rassicurazione’ non comportano il connotato dell’immotivatezza, una parola che significa “segnalazione immotivata di normalità” non esiste nel linguaggio comune; e non esiste in nessuna lingua del pianeta.
L’inesistenza di questa parola si traduce in un vuoto simbolico che non consente di comprendere il senso, il danno che può essere prodotto dalle rassicurazioni allorché queste risultano dogmatiche, stereotipate, immotivate, infondate, false: queste rassicurazioni sono rassicurazioni disastrose in quanto ci rendono ciechi di fronte ai pericoli; e la loro disastrosità aumenta quando si travestono di presunta scientificità, o di qualche altra forma di autorevolezza culturalmente riconosciuta.
Poiché, nella nostra specie, il rischio viene sempre percepito non in modo istintuale e immediato ma a partire dal peso di una mediazione simbolica data culturalmente attraverso rappresentazioni sociali della pericolosità, queste rappresentazioni giocano un ruolo chiave in termini di agentività, nella prevenzione, o all’opposto, nella diffusione dei disastri di qualsiasi tipo. Il pericolo insito nel rassicurazionismo sta nel fatto che questo comportamento – provocato da sottovalutazioni consapevoli o meno della pericolosità motivate da preconcetti, interessi vari, miopia, pulsioni di rimozione – indebolisce la percezione del rischio, aumentando la pericolosità delle situazioni in cui è in gioco una qualsiasi partita inerente alla sicurezza.
Per comprendere la rilevanza del tutto concreta, reale, l’assoluta agentività delle parole con cui rappresentiamo il rischio in situazioni emergenziali (come quella prodotta globalmente dal coronaviris), è il caso di fare un brevissimo inquadramento teorico. Tradotto in termini disastrologici generali, il peso di una pandemia può essere ridotto al modello della combinatoria a tre variabili D=IxVxE: un disastro (D) è dato dalla combinazione tra l’agente d’impatto (I), la vulnerabilità (V) e l’esposizione (E).
Coniugare questa formula nel caso di un virus vuol dire comprendere questo:
I=tassi di letalità e mortalità, capacità intrinseca di propagazione dell’agente patogeno
V=resistenza immunitaria degli individui e fattori di vulnerabilità sociale nelle situazioni
E=comportamenti individuali e collettivi (derivanti da interpretazioni culturali del rischio)
Se la variabile V si gioca tra la biologia degli individui, la capacità scientifiche delle innovazioni igienico sanitarie date da cure e vaccini, le caratteristiche di protezione degli habitat sociali e via dicendo, le componenti culturali di percezione del rischio rientrano nella variabile E: tutte le interpretazioni, le abitudini che sottovalutano la pericolosità del virus fomentano comportamenti concreti che aumentano l’esposizione all’agente patogeno si traducono in un’amplificazione della disastrosità. Al contrario, la consapevolezza sulla pericolosità, la percezione del rischio, si traduce in una diminuzione dell’esposizione, la quale, ove ridotta al limite minimo dello zero, può tendere ad azzerare la disastrosità dell’agente patogeno. Le parole producono degli habitat di significati, e le semiosfere rassicurazioniste in questi casi si trasformano in costituenti vitali per l’ecosfera in cui prolifica il virus. I virus si diffondono tra gli umani in modo preponderante per via culturale, grazie alle idiozie rassicurazionistiche che immancabilmente ne favoriscono l’espansione. In questo modo, all’incrocio tra l’epidemiologia delle credenze[4] e l’analisi del rischio, si capisce che, quando l’ottimismo propiziatorio proferito con funzioni profetiche autoadempienti scade nel rassicurazionismo miope e dogmatico, il contagio di certe idee finisce con il favorire il contagio del virus.
Vi è da chiarire senza esitazione che simili questioni non rimandano a intellettualismi o futili speculazioni teoriche: si tratta di argomenti non solo importanti ma letteralmente vitali nella loro funzione pedagogica. Ciò in quanto le situazioni emergenziali portano un binarismo abbastanza spietato, mentre aumentano l’agentitivà di alcune parole con cui si rappresenta socialmente il rischio: le parole giuste possono salvare vite umane, sono il primo vaccino contro i contagi mortali, che le parole sbagliate fanno aumentare. Qui è inutile girarci troppo intorno: nel mezzo di un’epidemia che cresce gridare che non c’è pericolo equivale a fare gli untori, ossia a contribuire attivamente a rendere il contagio pandemico. Per questo deve essere chiaro che un virus in crescita pandemica è una questione che si affronta non solo con strumenti biomedici ma anche ragionando in termini di antropologia del rischio. Perciò è il caso di evidenziare la potenza del nesso che in queste circostanze si stabilisce tra l’epidemiologia delle credenze e l’epidemiologia degli agenti patogeni.
Certo, all’opposto andrebbe sempre ricordato che in generale anche la sopravvalutazione del pericolo può essere rischiosa, che anche l’allarmismo può fare danni, ma questo già è chiaro a tutti, e a volte fin troppo: nello specifico di questa situazione di crescita dei contagi, essere allarmati non significa essere allarmisti, come pure non essere allarmati espone a un implicito rassicurazionismo dalle conseguenze nefaste. Durante il mio lavoro di consulente ho spesso usato degli esempi metaforici per chiarire il nesso e le differenze tra le segnalazioni immotivate di pericolo o di sicurezza, in relazione al rischio. Ne riprendo e rivedo qui uno, quello della fontana:
Allarmismo:
Cartello “acqua avvelenata” su fontana con acqua potabile. Rischio di morire di sete.
Rassicurazionismo:
Cartello “acqua potabile” su fontana con acqua avvelenata. Rischio di morire avvelenati.
Nella complessità del reale spesso questi casi non sono totalmente separati, ma oggi sempre più segnali ci suggeriscono che siamo sprofondati nel secondo scenario. Perciò si deve capire in fretta che la percezione del rischio rimanda a un processo interpretativo collettivo di comprensione culturale della pericolosità di situazioni, comportamenti, abitudini, valori. Qui un ruolo chiave lo giocano proprio gli usi e costumi che delineano la cultura antropologica incorporata dalle persone, nel senso più elementare e al contempo profondo del termine. Mentre i pericoli dell’allarmismo sono da tempo esposti alla consapevolezza del senso comune e oggetto di sanzioni normative, quelli del rassicurazionismo restano opachi, rimandano a un referente oscuro, in quanto non espresso nei significati che questo significante ancora in potenza può veicolare. Oggi ragionare e informare sui pericoli del rassicurazionismo non si limita ad un esercizio speculativo, è un atto non solo utile ma che può rivelarsi indispensabile per salvare vite umane.
Note
[1] Professore associato di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila.
[2] I concetti di “rappresentazione sociale”, “ancoraggio”, “oggettivazione”, “universo reificato”, “universo consensuale”, sono mutuati dalla teoria delle rappresentazioni sociali di Serge Moscovici, che ha rivelato un notevole potenziale euristico per rendere conto dei processi di formazione di senso comune intorno alle questioni che riguardano la percezione culturale del rischio (S. Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 2005).
[3] Nella complessiva cacofonia di una comunicazione del rischio ancora una volta sorprendentemente disorganizzata e spesso contraddittoria, basti pensare alla nota stampa del CNR del 22 febbraio; qui, al fine dichiarato di «evitare eccessivo allarmismo», il rischio del coronavirus viene sostanzialmente equiparato a quello influenzale, invitando la cittadinanza a una vita normale (https://www.cnr.it/it/nota-stampa/n-9233/coronavirus-rischio-basso-capire-condizioni-vittime).
[4] Cfr D. Sperber, Il contagio delle idee. Teora naturalistica della cultura, Milano, Feltrinelli, 1999.
Bibliografia dell’autore sul tema
2012 Rassicurazionismo: antropologia della comunicazione scientifica nel terremoto dell’Aquila, relazione di consulenza al processo alla Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi.
2013 Parola di scienza – Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi: un’analisi antropologica, DeriveApprodi, Roma.
2014 “Il terremoto dell’Aquila e il processo alla Commissione Grandi Rischi: note antropologiche”, in, Antropologia applicata, Pensa editore, Lecce.
2015 “Il senso del caso nella savana della complessità: la percezione del rischio sismico in una prospettiva antropologica”, in Prevedibile/Imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro, Rubbettino, Soveria Mannelli.
2016 “I pericoli della ricostruzione: antropologia dell’abitare e rischio sociosanitario nel dopo-terremoto aquilano”, in Epidemiologia e prevenzione, n°2, Suppl. 1, Interferenze, Milano.
2016 “Forms of truth in the trial against the Commission for Major Risks- Anthropological notes”, in Archivio Antropologico Mediterraneo online, anno XIX, no. 18 (2).
2019 (con Decarli, G.), “Cultural expertise in Italian courts – contexts, cases and issues.”, in Cultural Expertise in Socio-Legal Studies, Studies in Law, Politics and Society, Emerald Group Publishing Ltd., Bingley, UK.
2019 (con Barocci, A.), “Cemento e sicurezza. Un confronto tra ingegneria strutturale e antropologia del rischio”, in L’ufficio tecnico, n° 3, Marzo 2019, Maggioli Editore, Rimini.
per un parere diverso su processo dell’Aquila e sul suo significato invito a leggere i post in https://terremotiegrandirischi.com/
Il ” rassicurazionismo ” mi pare un pericolo in sé e per sé. Speriamo solo che non sia contagioso.
USCIRE DAL LETARGO E DAL SONNAMBULISMO. LUNGA VITA ALL’ITALIA …
Contro “I pericoli del rassicurazionismo di fronte a una pandemia globale”, forse, è bene ricordare il “PURGATORIO DE L’INFERNO”, la lezione di Edoardo Sanguineti ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=651 ) e, dalla Cina, la lezione di Huang Jianxiang (2006): “RESTITUITEMI IL MIO URLO” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1044 ).
Federico La Sala