di Chiara Cappelletto

 

La preoccupazione che la libertà dei cittadini subisca restrizioni durature a causa delle misure restrittive prese per contenere il progredire dei contagi da Covid-19 è comprensibile: prima arriva l’infrazione penale per avere stazionato all’aperto vicino a una fontana, poi scende l’esercito nelle strade, infine chiude il parlamento… Ma se preoccupazione deve essere, le ragioni non vanno imputate – almeno per ora – alle scelte che il governo nazionale e quelli regionali stanno prendendo.

 

Se ci troveremo in un regime illiberale ed eventualmente violento non sarà nemmeno perché nel nostro paese circola una propensione qualunquista e infantiloide per l’ordine imposto dall’uomo forte – una propensione tanto più grave quanto meno ha, in fondo, bisogno di un’ideologia di riferimento per giustificarsi. Sarà invece perché le maglie della nostra cultura civica sono sfilacciate; perché leggi, norme e comportamenti non hanno mai prodotto un corpus armonico di abitudini sociali. Questa anarchia un po’ spiccia potrà facilitare – non giustificare – la scelta per eventuali soluzioni “dure”.

 

Mi pare però che l’individualismo italico che stiamo sperimentando in queste settimane non si comprenda solo con le solite generiche ragioni culturali, e dipenda invece da motivi che sono specifici al nostro tempo.

Innanzitutto, l’idea che la vita sia “mia” è incompossibile con le misure di contenimento di una pandemia. Che io lo pensi perché sono figlio integrato del sistema neocapitalista per cui la vita è un bene individuale, o perché sono laico praticante in uno stato di diritto ancora molto clericale, l’idea di poter disporre della mia vita e della mia morte viene mandata gambe all’aria da un invisibile virus che ci arriva da un pipistrello cinese; servirebbe tempo per instaurare nuove responsabili alleanze tra il mio corpo e il corpo sociale, più tempo di quello che abbiamo a disposizione. Siamo rimasti con il cerino in mano e al momento c’è poco da fare. Possiamo al più rifarci – come sta accadendo – alla responsabilità per i propri cari, ma è una toppa, per quanto nobile.

 

In secondo luogo, ed e quel che più mi interessa, l’esperienza che noi facciamo del nostro corpo, dello spazio pubblico e della loro relazione che è mediata dai social media e dai più vari schermi non corrisponde all’alternativa dentro/fuori cui veniamo continuamente richiamati: stare in casa/non uscire. Da un lato sono infatti esplosi i limiti delle mura domestiche, dall’altro è stato assimilato lo spazio aperto. È diventato mio lo spazio sonoro che produco mentre in tram converso senza cuffiette al cellulare, e nel quale gli altri sono inclusi senza parteciparvi; è diventato mio lo spazio di movimento che produco facendo jogging sul marciapiede mentre gli altri vi camminano con passi diversi e contrari. La distinzione tra soggiorno e piazza, tra proprio e comune, mal si adatta al nostro modo di spostarci con uno zaino in spalla sempre e comunque, pieno di cose che non usiamo ma che costituiscono il nostro ambiente affettivo. Ci portiamo in giro il nostro spazio come una tartaruga il suo carapace.

 

Se vogliamo che questi “io estesi” di nuova generazione – indipendentemente dalla loro età anagrafica – restino all’interno delle mura casalinghe, dobbiamo proporre parole, immagini, metafore che sembriamo non avere a disposizione e di cui l’attuale classe dirigente non sa di aver bisogno. L’immaginario con cui infatti ci raccontiamo il contagio, la forza del governo e la nostra indisciplina viene dritto dritto dal Novecento.

 

La colonna dei mezzi militari per il trasporto delle salme da Bergamo ad altre regioni italiane non è solo dolorosa e non dipende solo da necessità logistiche. Suggerisce altro; mostra la forza dell’esercito, ed evoca l’immagine della guerra. Ora, l’immagine della guerra, non fosse grave, sarebbe risibile.

 

Il virus cammina con noi, si sposta con noi. Tra chi, contro chi sarebbe la guerra? Le persone o gli Stati? Quanto alla prima, negli ultimi giorni negli Stati Uniti è aumentato vorticosamente l’acquisto di armi da fuoco. L’ipotesi di un’allucinazione collettiva per la quale ciascuno di noi vede l’altro impossessato da un alieno da abbattere a colpi di fucile è al momento solo cinematografica. Ma l’immaginazione è vivace e da Alien al Covid-19 il passo non è troppo lungo. Quanto alla seconda, l’Europa ha chiuso lo spazio di Schengen. Suggerire immagini belliche è, al minimo, stolto: le scelte concentrazionarie vanno infatti di conserva.

 

Mentre i rappresentanti eletti di istituzioni democratiche stentano ad atterrare nel XXI secolo e a proporre politiche degne di un unico ecosistema, sta a noi ripensare che cosa significa spazio proprio e spazio collettivo, così da evitare non solo l’instaurarsi di regimi autoritari che ci murino nelle nostre case – come hanno fatto i cinesi – ma anche quelle aggressioni personali minori ma diffuse – quegli attacchi piccoli ma violenti verso semplici cittadini rei di “spostarsi, correre, avvicinarsi troppo.”

 

Per scegliere di stare in casa dobbiamo imparare a riabitare un luogo che ci è diventato alieno. Se ciascuno di noi avesse a disposizione caschi di realtà virtuale, potremmo isolarci dal resto del mondo e al contempo evadere dalle mura domestiche. Così non è, e non so se sarebbe auspicabile che lo fosse. Sono perciò i nostri corpi vivi, vulnerabili, sani e malati, ad essere i veri agenti sociali. Più che tutorial di inglese, servirebbero danzatori che ci insegnassero la Contact Improvisation, attori che ci mostrassero quanto tempo occorre per attraversare una stanza passo dopo passo. In loro assenza, dobbiamo riscoprire la distanza che separa il bagno dalla cucina dove andiamo a prendere un aperitivo su zoom.us con i nostri amici. Dobbiamo imparare un’estetica della prossimità ibridata da finestre virtuali sul mondo di fuori, far collaborare in modo inedito e asincrono il tatto con la vista, usare i polpastrelli per capire quanto è lungo un tavolo mentre vedo mia madre in un’altra città. Se le cose non saranno più come prima, sarà perché si è modificata la nostra esperienza del prossimo e del lontano.

1 thought on “Stretti stretti, lontani lontani

  1. Sarà perché all’epoca della mia militanza politica (di base) sapevo che il suo prezzo (e ne capivo la ragione) era una scheda su di me (come su di tanti altri) sita in qualche faldone della Digos congiuntamente alla sua “benevola” attenzione, che queste misure restrittive, “illiberali”, non mi preoccupano più di tanto. Non ce lo vedo proprio il “nostro” premier dirigere una svolta politico-istituzionale autoritaria gomito a gomito coi “nostri” generali. Semmai mi preoccupano di più, da un lato, la svolta autoritaria e incostituzionale impressa al paese da due decenni a questa parte da trattati e normative europee, e, dall’altro, il virus dell’individualismo tecnologico diffusosi da tempo tra i giovani, supportato dalla mancanza di prospettive politiche e dall’analfebitsmo politico di ritorno.

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