di Tommaso Di Dio

 

Ho un ricordo preciso della prima volta che lessi la poesia di Mario Benedetti. Era il 2004, ero a Milano: un pomeriggio qualsiasi dei miei vent’anni.

Era una giornata di sole; e quel giorno ero passato dal Libraccio di Porta Venezia dove avevo fatto una delle mie abituali perlustrazioni tra i libri usati di poesia. Per consultarli, a quel tempo, era necessario chinarsi a livello del pavimento perché tenevano i libri di versi sul ripiano più basso. Così, in ginocchio, sfogliavo le pagine di autori di cui non avevo mai sentito il nome, cercando, cercando non so cosa. Leggevo a caso una, due, tre pagine: se qualcosa accadeva, acquistavo il libro e per un po’ lo portavo con me. Mi capitò allora fra le mani un libro di poesia dello Specchio Mondadori, praticamente nuovo; aveva un costo ribassato della metà (4 euro e 70) e una copertina assai bella: una montagna verde, un cielo bianco sporco, una fila di assurde lucine che li separava; in basso a sinistra, dal verde emergeva la figura di un uomo disteso, colorato di giallo con gli occhi chiusi, verso la quale una mano pallida, venuta non si sa da dove, porgeva obliqua una carezza finale, tenerissima, minima.

 

Se oggi penso a quel momento, qualcosa ancora si agita dentro di me: un movimento, uno spasimo, una crepa. Ricordo che aprii il libro, lessi alcuni versi. Tutto adesso diventa nero, si fa più veloce. Scorre il film della nostra amicizia, Mario: la birra, le serate, i capodanni insieme; i libri scambiati, centinaia di cene e milioni di parole e infine la notte dell’infarto, gli ospedali, i tubi nella gola, gli abbracci, le mani nelle mani, il pianto che ad oggi non finisce: non sa finire. Quel pomeriggio, dopo pochi versi, chiusi immediatamente il libro: era successo, era successo di nuovo. Impossibile andare avanti a leggere in quel momento. Mi alzai per pagare e andare via, verso un luogo dove avrei potuto continuare quell’esperienza. In quei versi c’era una potenza fragile, scardinata; un’eco di mondo che mi investiva, dolce ma precisa, che m’inchiodava e mi portava via la lingua madre: avevo letto i primi versi di Umana gloria.

 

Mario Benedetti qualche giorno fa ci ha lasciato. Nei giorni tragici e dolorosi di questa violenta pandemia, nel giorno con più vittime in Italia, Mario Benedetti è entrato nella «perfetta assenza», là dove tante volte aveva rivolto lo sguardo e da cui aveva tratto forza per la sua scrittura. Ora, finalmente, è nel tempo «mostrato», dove «durano i libri»; in quell’area della materia sensibile verso cui, con ogni attenzione, per quanto aveva potuto, aveva misurato la sua vita: «Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi», così aveva scritto.

 

Più volte negli ultimi anni ho scritto sulla sua poesia e spero di farlo ancora. Oggi invece scrivo del mio amico, di me e di lui: trascrivo le sillabe di un’intimità. E se mi sono permesso di ripercorrere il momento del primo incontro con la sua poesia, è perché so che questa mia storia, con minime o meno minime variazioni, è condivisa da molti. Più volte, se mi capitava di raccontare questa storia, qualcuno sapeva raccontarmi la propria, come se ognuno conservasse nella memoria con la mia identica chiarezza l’incontro con quel libro. La poesia di Mario Benedetti è stata, per chi si è affacciato alla parola poetica dopo il 2000, l’incontro che ha segnato un destino. Mario, insomma, è stato fra i rari poeti della nostra epoca: e la sua forza irradiava anche fuori dalla pagina. Chi lo ha incontrato, chi lo ha frequentato lo sa bene: aveva una capacità unica di creare tensione, elettricità; di contravvenire – a modo suo – alle piccole meschine convenzioni sociali a cui tutti ci pieghiamo senza farci caso. Mario Benedetti aveva il talento unico di creare imbarazzo. A volte il discorso con lui si interrompeva a metà di una frase e si apriva un silenzio, vasto, impronosticabile: ci si guardava smarriti, temendo che fosse ormai impossibile giungere a dare senso compiuto a quella sintassi già avviata, temendo che pure il senso fosse soltanto una delle convenzioni a cui ci si adagiava proni. Impossibile fare finta di niente: con lui le parole si mostravano in tutta la loro povertà e miseria: erano solo «frasi nella vita». Impossibile essere tranquilli con lui intorno, ogni cosa poteva accadere, ogni frase spezzarsi, ogni silenzio invece ricucire distanze. Averlo accanto, come è stato detto, era davvero sentire aperta ogni possibilità dell’esistenza, anche quella dell’affetto smisurato e gratuito o, in un salto improvviso, dell’ironia più mordace, del riso vero e scatenato.

 

Ho della sua amicizia ricordi splendidi. Io e Mario ci siamo incontrati almeno una volta a settimana per dieci anni, con una costanza e una gioia di cui solo chi conosce la vera amicizia sa intuire i contorni. Ricordo un pomeriggio di primo autunno, in cui prendemmo la macchina solo per il gusto di lasciare, per una volta, i confini di Milano. Nessuno dei due sapeva bene dove andare: ci dicemmo soltanto “Andiamo a Nord, verso le montagne”. Nessuno di noi due aveva la benché minima conoscenza delle Alpi lombarde, ma volevamo andare in un bosco. Così raggiungemmo le prime alture – credo oltre Varese – e ci buttammo a piedi in un sentiero qualsiasi. Quello che seguì fu una delle mattine più belle della mia vita: passammo diverse ore senza meta, fra i larici e i pini, camminando, parlando. Mario, non so perché, senza che ci fosse collegamento con alcun discorso precedente, iniziò a parlarmi – con un trasporto che mi turbò – del sorriso di Beatrice nella poesia di Dante e di cosa potesse significare l’esperienza del sorriso nella poesia contemporanea. La cosa era assolutamente insolita: io e Mario conversavano di letteratura soltanto nelle ore più tarde e sempre di sbieco, a mezza bocca, quasi di nascosto, con un pudore adolescenziale. La poesia aveva per Mario una presenza nuda, intima. Non se ne parlava in tutte le ore, non se ne parlava di fronte agli estranei: non se ne parlava neanche “per parlare”, ovvero in quella forma esteriore di discorso sociale che accettiamo ormai da tempo in tutte le forme di cui è fatta la nostra vita e che ci sta mangiando l’anima. Per Mario parlare del sorriso di Beatrice, come parlare della analogia nei versi di Alfonso Gatto o della video arte di Franco Vaccari, non significava farne una disanima storica; sempre per Mario parlare di arte era parlare della propria poesia, della nostra poesia: di qualcosa che ci era prossimo, che ci era necessario. Per Mario era centrale che la poesia fosse coltivata in intimità, all’interno di un gruppo ristretto di persone che vivevano insieme e ne facevano un’esperienza solidale: solo così nella poesia si poteva procedere. Ma poesia per lui non indicava soltanto un prodotto testuale, ma un più vasto spazio della percezione. Questa idea era tanto in lui radicata, che condividere insieme una visione era – in un certo senso – più importante della verifica di quanto poi se ne sarebbe scritto. La poesia era innanzitutto un esercizio di sensibilità: uno sguardo sulla vita, un modo di muoversi dentro di lei, di toccarne i bordi, stare lì, ascoltare quello che succede. A questo sguardo, se c’era, se era maturo, il testo avrebbe dovuto semplicemente conformarvisi millimetricamente. Il testo non era un assoluto: Mario era sì disposto – come ci avvenne – a passare un intero pomeriggio e decine di sigarette a discutere sull’opportunità di aggiungere una virgola a un verso di Tersa morte, ma non aveva nessuno culto della parola poetica, né di chi la praticava: la parola poetica era – come ebbe a dire in un’intervista con Claudia Crocco – una forma di «testimonianza e commento» della vita. Qualcosa di relativo insomma, parziale, poveramente appeso a una più profonda parzialità, che è poi l’esperienza che ognuno di noi fa della propria unica vita. Da qui il fastidio verso tutte quelle forme di scrittura che pretendevano di dire la “Cosa” della realtà interamente oppure – forse peggio – divertivano il lettore, perché si volevano contro qualcosa o dentro la lingua, distraendolo così da una percezione più intensa, più esposta, di questa angosciosa parzialità. Mario, invece, ti riportava sempre sul punto e da lì non potevi muoverti: «Non distrarti. Non eludere/ la pura inconcepibile assenza, non distrarti».

 

Dopo due anni di frequentazione settimanale, Mario, a notte fonda, dopo uno dei suoi usuali lunghi silenzi, anticipando la domanda con un giro di frasi che mostrava l’impaccio in cui eravamo reciprocamente presi, mi chiese, con una tenerezza disarmante: «Tu scrivi, vero?» Risposi una cosa del tipo «sì, più o meno». Morivo dall’imbarazzo. Mario aggiunse, cauto, che, se avessi voluto, quando avessi voluto, avrebbe avuto piacere di leggere qualcosa di mio. Dopo due anni di amicizia, due anni di discorsi notturni sulle bollette e su Pascoli, su Machado, su Caproni, sui Boscimani e sul terremoto in Friuli, su Chuck Schuldiner, sul death metal e su molto altro, su tutt’altro, la proposta mi faceva terrore. Ero terrorizzato dal dover svelare la miseria di quanto scrivevo a quel poeta la cui lettura mi aveva cambiato la vita. Qualche giorno dopo gli mandai una serie di prose poetiche, le più violente e storte che avevo scritto fino ad allora: c’era il sangue, l’incubo, il sesso, c’era la violenza di un’estate solitaria spesa chiuso in casa in preda ai fantasmi delle mie ossessioni; speravo che la forza dei temi e il tratto forte dello stile sopperisse alle mancanze che allora avvertivo nella mia scrittura. Ricordo che stavo male al pensiero che presto l’autore di Umana gloria le avrebbe lette. Mario mi mandò dei messaggi sul cellulare, scrivendo che le trovava «atroci», «forti», «potenti». Non ne parlammo mai più; e non parlammo più di ciò che stavamo scrivendo, per anni, almeno fino all’uscita di Pitture nere su carta: della nostra poesia si parlava solo per allusioni o attraverso discussioni mirate a minimi dettagli tecnici. La nostra amicizia voleva mettere in comune qualcosa di più vasto della scrittura. Da quel giorno ho però sentito da parte sua un’immensa, muta fiducia: ogni qual volta scrivo, scrivo dentro questa promessa che abbiamo costruito insieme. Di fronte ai miei versi e così di fronte ai versi di chiunque, Mario cercava la forma di un sentire intenso, un’urgenza esistenziale nella scrittura, senza pregiudizi a priori sulla tecnica con cui si manifestavano. Nel 2009, mi chiese se avessi delle poesie; avrebbe voluto pubblicarle in una piccola edizione per Transeuropa; ci teneva molto: diceva che era il momento. Mi disse anche una frase del genere: «scriverò la prefazione, poi non farò più nulla per la tua poesia». Ha mantenuto la promessa. Io provo a mantenere la mia.

 

Il 10 febbraio 2014, Mario mi manda un messaggio sul cellulare: «Scendi?». Vivevamo a poche centinaia di metri di distanza uno dall’altro. Era un pessimo tardo pomeriggio invernale: freddo, triste, piovoso. Uno dei tanti della vita. Non aveva bisogno di specificare altro: rispondo «sì» e dopo un quarto d’ora mi faccio trovare al bar a metà strada fra casa mia e casa sua. Stranamente, il locale era semivuoto; ci sediamo, ordiniamo una birra. Stiamo lì, proviamo a parlare, niente: è un pomeriggio di nulla, tedio, malinconia. Non abbiamo niente da dirci; ci eravamo visti pochi giorni prima, nessuna novità. Stiamo lì, condividiamo un tempo, vicini, ognuno nei propri pensieri, ognuno nel proprio mondo disgregato; eppure stiamo lì, uno di fronte all’altro, con la birra davanti e il silenzio. Non ci sono sorrisi questa volta; le parole escono fuori a fatica e alla fine finiamo per smettere del tutto di provare a parlare. È uno dei ricordi più intensi che ho di Mario. Sarà durato un’ora, forse qualcosa in più, qualcosa di meno. Io e lui, lì, senza dover spiegare niente, senza doversi giustificare: stare lì, insieme, a sentire qualcosa e basta. Fuori la città, le macchine; intorno qualcuno passava, una voce, un’altra birra. Cosa significa condividere un silenzio? Forse questo è un poeta: chi ha sperimentato una volta per sempre l’impossibilità di accedere al discorso e di questo porta testimonianza in ogni discorso che fa. Mario è stato tenacemente fedele a questa impossibilità, a questa perfetta luminosa lacuna, a questa dimensione a cui le parole non possono accedere, ma cui continuamente bussano con umiltà. Le parole della poesia di Mario sono sempre lì, «messe all’angolo, dove le linee ripartono dal punto che conclude le pareti». E si spezza la sintassi, franano i vuoti delle inarcature; ci si imbatte in spaesamenti, ellissi, anacoluti, soggetti assenti. Si sta vivi per un po’, finché tiene fiato per un altro verso. E ora Mario siamo noi, «sono io a svuotare i tuoi sogni, dentro di me».

 

Tommaso Di Dio

27-28 Marzo 2020

 

[Foto di Viviana Nicodemo].

2 thoughts on “Un ricordo di Mario Benedetti

  1. Intensa questa recensione che pone in primo piano l’intesa, l’amicizia e la complicità poetica dei due autori. Ancora una volta la testimonianza che “poesia è vita”: comune sensibilità, stima reciproca, dialogo silenzioso, specchio. Si rinnova il clima “cortese” dello Stilnovo nella ricerca peculiare di uno stile unico.
    Cordialmente,
    Rosaria Di Donato

  2. Mi unisco al cordoglio per la scomparsa di Mario Benedetti, esponente importante della poesia italiana contemporanea e punto di riferimento per molti lettori ed autori ora trenta-quarantenni.

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