di Luca Illetterati
I
In molti hanno commentato il piccolo testo di Giorgio Agamben intitolato Contagio, pubblicato sul blog di Quodlibet l’11 marzo 2020, nonché quello successivo, intitolato Chiarimenti, pubblicato il 17 marzo a seguito di una serie di pesanti critiche. Nel primo Agamben rifletteva sulle devastazioni prodotte dalle norme emergenziali a fronte di quella che chiamava la cosiddetta epidemia. Nel secondo cercava di dare giustificazione a quanto detto, asserendo che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese e le norme che essa ha prodotto mostrerebbe con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita, ovvero nella paura di perderla. Il 27 marzo ne è uscito un altro, Riflessioni sulla peste, nel quale in primo luogo cerca di mostrare in che senso la quieta e acritica sottomissione dei cittadini alle norme emergenziali evidenzi una evidente continuità tra la forma di vita da essa imposta con una forma di vita già diventata abitudine prima ancora dell’epidemia e in secondo luogo cerca di evidenziare in che senso la scienza dentro questo clima vada sempre più assumendo il ruolo di nuova religione universale, di nuovo credo al quale affidarsi. Nulla, dunque, che cambi la sostanza del discorso; semmai un suo ulteriore rafforzamento.
Numerosi interventi hanno messo in evidenza l’effetto di quelle righe, soprattutto di quelle dei primi due testi: esse producono una sensazione di meccanicità scontata, frutto dell’applicazione di formule e pensieri che rendono banalmente prevedibile la sostanza del discorso. Si è detto che se qualcuno avesse voluto giocare a fare la caricatura di Agamben, avrebbe prodotto un testo non così diverso da quello realmente elaborato da Agamben®. Alcuni l’hanno quindi banalmente ridicolizzato, altri ne hanno mostrato, con argomenti di diverso tipo, l’insufficienza. In generale l’impressione è stata quella di un’incapacità di presa sul reale. E non perché i pericoli che Agamben paventa siano privi di realtà: la possibile degenerazione dei rapporti umani all’interno di una dimensione in cui l’altro è percepito solo come minaccia, il rischio di una lenta e silente abitudine a una vita a distanza – retta da protocolli esterni cui le singole vite devono necessariamente e passivamente adeguarsi –, l’imporsi di modalità di azione sempre più regolate da strutture algoritmiche, la tentazione in direzione di derive autoritarie (si pensi al modo in cui Orban sta sfruttando l’emergenza per piegare un sistema già debole dal punto di vista democratico verso una condizione paradittatoriale); questi sono pericoli reali, effettivi, che necessitano di uno sguardo critico attento e radicale. Ciò che produce il senso di mancata presa sul reale, nell’atteggiamento agambeniano, è piuttosto l’incapacità di leggere l’epidemia per ciò che essa rappresenta per l’esistenza concreta delle singole vite e delle comunità dentro cui quelle vite sono ciò che sono. Di fatto, Agamben riduce la singola vita a mero prodotto di un dispositivo – il dispositivo del potere – che avrebbe come unico obiettivo quello del controllo delle vite e delle loro azioni. In questo senso Agamben viene a trovarsi, per quanto per motivi diversi, sulla stessa barca di Donald Trump, secondo il quale la terapia è peggiore dell’epidemia, o di Bolsonaro, secondo il quale l’epidemia non deve indurre ad azioni straordinarie, ma si deve rimanere ancorati alla normalità, o in generale di tutti coloro che ritengono sacrifacabili le nude vite sull’altare dell’economia.
Qui, senza insistere sugli elementi che si prestano alla polemica immediata, vorrei provare a mettere in questione – nei limiti di un testo breve – uno degli assunti di base del discorso agambeniano, ovvero la differenza tra quella che viene chiamata la “nuda vita” da un lato, e la vita nel suo senso invece più pieno (di vita affettiva, sociale, politica) dall’altro. Questa differenza per certi aspetti viene decostruita nei lavori maggiori di Agamben, eppure in un certo modo rimane decisiva e fondante, tanto da attraversare in modo niente affatto marginale questi due piccoli interventi, che, pur nella loro stringatezza e occasionalità, ci svelano qualcosa di interessante sul pensiero ‘maggiore’ da cui dipendono.
L’idea che sta alla base della critica agambeniana ai dispositivi emergenziali che la crisi epidemiologica ha legittimato è la seguente: nel momento in cui siamo disposti a sacrificare tutto alla nuda vita, ossia alla mera esistenza – sinonimo, se si vuole, di vita biologica – allora, ipso facto, abbiamo anche cancellato la possibilità stessa di una vita autenticamente umana, di quella vita che, aristotelicamente, può essere chiamata come una buona vita. In questo senso l’emergenza COVID-19 non renderebbe solo manifesto un elemento consustanziale al dispositivo politico moderno, ma sarebbe in qualche modo un suo prodotto, l’articolazione di un’esigenza inerente a quel dispositivo.
Senza entrare nel dettaglio dell’analisi agambeniana, ciò che intendo sostenere è che il discorso che si muove dentro una distinzione siffatta – ovvero quella tra “nuda vita” e “vita piena” – è un discorso che anziché superare alcune astrazioni e presupposizioni, come vorrebbe, le assume invece in un modo tale da renderle determinanti per il suo stesso svolgimento.
L’idea che intendo qui solo suggerire è che sia necessario un pensiero della vita più radicale di quello proposto da Agamben, il quale è tutto giocato nel rimbalzare archeologicamente e concettualmente da una astrazione all’altra. Abbiamo bisogno di un pensiero della vita che sia in grado di porsi davvero al di là delle distinzioni tra il “naturale” e il “politico”, tra l’ “organico” e il “sociale”, senza tuttavia per questo annientarle. Queste distinzioni invece escono continuamente rinforzate dal discorso agambeniano, e rischiano di produrre gli esiti sconfortanti cui egli giunge nei due piccoli testi sopra menzionati. Si tratta invece di pensare il rapporto tra il politico e il naturale, tra il sociale e l’organico in un’ottica non oppositiva, bensì come dinamiche interne all’immanenza della vita stessa.
La base del dispositivo discorsivo di Agamben è, come noto, il pensiero di Walter Benjamin, e in particolare, l’enfatizzazione dell’idea benjaminiana di nuda vita, ovvero, come ha messo in evidenza Mario Farina in uno dei contributi seguiti alle uscite di Agamben, la “traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente rendibile con «mera vita»”.
Nel saggio Per la critica della violenza, Benjamin infatti scrive:
Falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro che la nuda vita (bloße Leben)[i]
È perciò da Benjamin che intendo prendere le mosse, anche se da un testo che apparentemente si muove su un piano radicalmente diverso rispetto a quelli nei quali viene in effetti tematizzato il concetto di bloße Leben, ovvero Il compito del traduttore. In questo testo, infatti – forse proprio perché il tema non coinvolge in modo diretto la nozione di bloße Leben – è possibile cogliere la traccia di un pensiero della vita che è in grado di andare al di là delle astrazioni in cui resta invece impigliato il discorso di Agamben.
II
Nel saggio dedicato al compito del traduttore, Benjamin mostra in che senso il rapporto tra le lingue debba essere inteso come un rapporto di vita (Zusammenhang des Lebens). In questo contesto si ritrova quindi a dover chiarire che cosa si debba intendere, all’interno del suo orizzonte discorsivo, con il termine ‘vita’.
La questione emerge in quanto per Benjamin la traduzione, come noto, è il luogo della sopravvivenza (Überleben) dell’originale. La traduzione è una sorta di “vita” dell’opera al di là di sé stessa, fuori da sé, in altro rispetto a sé. È una vita dell’opera che vive altrove rispetto all’opera stessa. Il che significa che la traduzione non è qualcosa che inerisce in senso proprio alla vita dell’originale. La traduzione, infatti, non significa nulla per l’originale. Essa gli è in un certo senso indifferente. È appunto una vita dell’originale al di là dell’originale, fuori da esso.
E tuttavia, pur riconosciuta questa indifferenza, la traducibilità di un’opera è secondo Benjamin un carattere intrinseco all’opera stessa. Il che non implica, ancora una volta, che la traduzione delle opere «sia essenziale per le opere stesse» (40), ma che invece – e questo scarto è rilevantissimo nell’argomentazione benjaminiana – «un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità». In questo senso la traduzione – ovvero la sopravvivenza – può portare a galla qualcosa dell’originale e della sua vita senza per questo intaccare l’originale stesso, senza per questo incidere sulla sua vita.
Così dunque, Benjamin:
Come le manifestazioni (Äusserungen) vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede (hervorgeht) dall’originale anche se non dalla sua vita, quanto piuttosto dalla sua «sopravvivenza» (Überleben)[ii].
Il lessico tutto interno alle determinazioni della vita e del vivente non è utilizzato da Benjamin in senso metaforico:
È in senso pienamente concreto, e non metaforico, che bisogna intendere l’idea della vita e della sopravvivenza (Fortleben) delle opere d’arte[iii].
Ed è proprio nel tentativo di chiarire «questo senso pienamente concreto e non metaforico (völlig unmetaphoriscer Sachlichkeit)» che Benjamin si sofferma sulla nozione di vita.
La vita, dice Benjamin, non è solamente o principalmente qualcosa che «si debba attribuire solo alla fisicità organica (organische Leiblichkeit)» (41), non è cioè semplicemente la proprietà di un corpo organico. Nemmeno però è sufficiente pensarla in termini più estesi come caratteristica di tutto ciò che ha un’anima (il riferimento di Benjamin è qui Theodor Fechner). Ed è altrettanto insufficiente concepirla, magari per attribuirle un significato più determinato e concreto, in relazione ad alcune caratteristiche specifiche dell’animalità, quali la possibilità di sentire (empfinden). Tutte queste sono certo determinazioni della vita, ma nessuna di esse costituisce il suo modo d’essere, nel senso nessuna di esse e nemmeno la considerazione unitaria di esse esaurisce la semantica della vita.
Se si vuole davvero pensare la vita, dice Benjamin, non la si può pensare nei termini di una mera naturalità:
È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia (Geschichte) e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, per tacere di una natura così incerta come il sentire o l’anima, che va determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita[iv].
La vita non è dunque secondo Benjamin qualcosa che appartiene alla natura in quanto tale. Si dà vita, dice Benjamin dove si dà storia. Solo nella storia, la vita è sé stessa. Così facendo, Benjamin raccoglie con la potenza di un tratto la straordinaria complessità che attraversa la cultura tedesca dal primo romanticismo fino allo storicismo tardo ottocentesco.
Ciò che è decisivo, a mio parere, è il riconoscimento benjaminiano che la vita della storia non è una vita che si pone al di là della natura. Ciò che semmai Benjamin evidenza è, al contrario, che la nozione di vita naturale è solo un’astrazione, un tentativo di chiudere la vita dentro una dimensione che si pretende separata dalla storia, senza in realtà poterlo essere.
Il compito del filosofo, infatti, secondo Benjamin (e vale la pena qui ricordare che il termine che sta per compito, che troviamo qui come anche nel titolo del saggio – ovvero Aufgabe – significa anche vocazione, dovere, funzione, ruolo) non è quello di contrapporre alla vita naturale una vita della storia, quanto invece «di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia della storia».
Benjamin non contrappone dunque la vita naturale a quella che la cultura idealistica avrebbe chiamato la vita dello spirito, non pensa cioè che esista una vita meramente biologica in contrapposizione alla quale si staglierebbe la vita del mondo storico e quindi del mondo sociale e politico. La funzione del discorso filosofico dovrebbe essere quella di mostrare l’inconsistenza di queste cristallizzazioni, ovvero di scioglierne la rigidità rivelandone l’unilateralità, l’astrattezza, ovvero il loro essere costruzioni a loro volta storiche e dunque ideologiche. In questo senso, l’idea che nell’umano si possa pensare una vita naturale che starebbe accanto alla vita invece spirituale è il riflesso ideologico di una metafisica che ha già preventivamente assunto e dato per scontato che natura e spirito siano regni ontologici separati, che vengono definiti e individuati solo a partire dalla loro contrapposizione.
III.
Detto in termini se si vuole banali e certamente frettolosi, ciò che Benjamin invita a pensare (ed è un invito che oggi più che mai è opportuno raccogliere) non è affatto il porsi al di là della mera vita per accedere a una vita piena, come se nell’umano esistesse una vita ‘semplicemente naturale’ separata da una vita invece ’storica’ e dunque politica. Si tratta invece di pensare la vita al di là delle astrazioni e delle unilateralità, senza separare artificialmente e ideologicamente la dimensione naturale e quella storica, la dimensione biologica e quella politica, la dimensione organica e quella sociale, la dimensione individuale e quella comunitaria. In termini hegeliani, si tratta di pensare la vita nella sua complessa concretezza, al di là delle astratte distinzioni dell’intelletto.
In questo senso, quella che ad Agamben appare come la difesa della “mera vita” è in realtà protezione di quella medesima vita che si dà anche come vita politica e come vita sociale, ovvero come piena vita. Tant’è che in questo caso la protezione di quella che Agamben continua a considerare come la nuda vita è anche protezione della vita degli altri. Per questo, come ho detto inizialmente, sembra che Agamben rimanga vittima dell’astrazione che egli stesso vuole denunciare. Sostenendo che i protocolli emergenziali pensino alla vita solo in termini di pura esistenza, si trova egli stesso a far propria questa riduzione, mancando così di cogliere la dimensione concreta della vita, dentro la quale quella separazione viene a sciogliersi.
La critica di Agamben alla riduzione della vita a nuda vita va incontro a esiti paradossali proprio perché muove da una concettualizzazione dualista, da cui non riesce in ultima istanza a liberarsi. Un’autentica critica è invece possibile solo all’interno di un orizzonte concettuale che proprio in quanto si pone al di là delle opposizioni è perciò in grado di rilevare l’unilateralità delle concezioni che pretendono di esaurirne il senso schiacciandolo dentro l’unilateralità degli estremi. In questo senso, solo se si pensa la vita nella sua complessità e fuori dalle astrazioni ideologiche che tendono a considerarla o come semplicemente naturale o come qualcosa che si costituisce al di là della natura, si è davvero nelle condizioni per criticare qualsiasi riduzione unilaterale della vita.
Pensare la vita nella sua complessità – quindi al di là delle astrazioni che la riducono a determinazioni solo parziali – significa innanzitutto pensare la vita come struttura né solamente naturalizzabile né solamente storicizzabile, quindi pensarla come rapporto o nesso intrinseco tra ciò che tendiamo a pensare come il “regno della natura” e ciò che tendiamo a pensare come il “regno della libertà”.
Una tale prospettiva trova una sua specifica articolazione dentro la discussione filosofica che si sviluppa tra Kant e Hegel, per i quali la vita è una realtà e un concetto che spezza tutti i dualismi: da quello tra anima e corpo a quello tra soggetto e oggetto, da quello tra sostanza e processo a quello tra natura e libertà.
Nel primo paragrafo della Critica della capacità di giudizio, Kant scrive:
non ci sono che due tipi di concetti che permettono altrettanti principi diversi della possibilità dei loro oggetti: cioè, i concetti della natura e il concetto della libertà. (…) dunque, è giusto suddividere la filosofia in due parti, del tutto diverse secondo i loro principi, cioè nella teoretica, la filosofia naturale, e nella pratica, la filosofia morale (è così infatti che si chiama la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà)[v].
La vita, però, non appartiene in senso proprio né al mondo della natura, né al mondo della libertà. Anzi, proprio perché non appartiene né all’uno né all’altro, di essa, secondo Kant, non si dà concetto. La vita è per Kant strutturalmente inconcepibile. Possiamo considerare gli esseri viventi, la loro struttura organizzativa, la complessità del rapporto fra il tutto e le parti che li costituisce, la loro specifica autopoiesi. Con questa comprensione, però, non abbiamo concepito la vita. La forza formante, l’autorganizzazione, ovvero la vita, rimane per Kant una unerforschliche Eigenschaft, una proprietà insondabile, un alcunché di imperscrutabile.
Dire però che la vita non appartiene né al mondo della natura, né al mondo della libertà significa dire – ed è questa sostanzialmente la mossa hegeliana che usa Kant per andare al di là di Kant – che essa abita lo spazio liminare che separa e connette i due ambiti, ovvero che essa certo non è né natura né libertà, ma anche, a un tempo, che essa, proprio in quanto non è riducibile a nessuno dei due estremi ha a che fare tanto con la natura quanto con la libertà.
Per Hegel la vita è dunque ciò che si pone al di là di tutte le astrazioni con cui l’intelletto cerca di controllare, vincolare e trattenere il reale. In questo senso la vita, considerata nella sua concretezza, è ciò che fa esplodere le rigide schematizzazioni e compartimentazioni dell’intelletto. E questo perché la vita è, secondo Hegel, soggetto e oggetto, pensiero ed essere, anima e corpo, finito e infinito, natura e libertà.
Porsi sulla scia di un pensiero come quello sviluppato da Kant e Hegel, senza per questo pretendere insensate attualizzazioni, è fruttuoso proprio per cercare di uscire dalle tentazioni dualistiche che innervano, in modo peraltro non sempre riconosciuto, un’impostazione come quella di Agamben.
Finché si assume che da una parte ci sia la nuda vita, intesa come mera esistenza, e dunque come mera natura, e dall’altra la vita nella sua dimensione storica, e quindi nella sua dimensione sociale e politica , ovvero come luogo di articolazione della libertà, ci si continua a muovere dentro un dualismo che chiede a ciascuna delle dimensioni di entrare necessariamente in conflitto l’una con l’altra e si legittima in questo modo il dominio di una parte sull’altra e quindi la riduzione dell’una all’altra.
Pensare la complessità della vita significa allora pensare in che senso la sua stessa dinamica – la dinamica della vita – sia il nucleo generatore della libertà e come solo la libertà sia in grado di realizzare la dinamica che la vita attiva. Pensare la complessità della vita, ancora, significa pensare il radicamento della libertà nella vita, nella sua peculiare autonomia, nella sua intrinseca generatività e nella sua capacità di difendersi dall’entropia e al tempo stesso il radicamento della vita nella libertà, ovvero nella capacità di essere inizio di sé, di essere norma a sé, di essere movimento in vista della costituzione e della realizzazione di sé.
Se c’è qualcosa, dal mio punto di vista, che le vicende di questi giorni richiedono di pensare e ripensare è dunque la sclerotizzazione delle nostre prassi discorsive dentro opposizioni che si reggono solo a partire dalla loro reciproca unilateralità.
Pensare l’innaturalità della natura e la naturalità dello spirito, ovvero ripensare in dialogo con le scienze della natura la nozione stessa di natura e ripensare in dialogo con le scienze umane ciò che la tradizione chiamava il mondo dello spirito, ovvero l’ambito della libertà e dunque la dimensione intersoggettiva e propriamente politica, senza ridurre per questo l’una all’altra e tuttavia cogliendone i nessi proprio a partire dalla nozione di vita è forse uno dei compiti (ovvero, ancora una volta, delle vocazioni, dei doveri, delle funzioni, dei ruoli) a cui la filosofia è oggi più che mai chiamata.
Note
[i] W. Benjamin, Per la crtica della violenza, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, pp. 5-30, qui p. 28).
[ii] W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 39-52, qui p. 41).
[iii] Ibidem.
[iv] Ibidem.
[v] I. Kant, Critica della capacità di giudizio, trad. it. a cura di L. Amoroso, Milano 19982, p. 73.
Nei tre scritti Agamben parte comunque dal fatto che la maggior parte di noi vuole sopravvivere all’infezione. Poi ritrova all’opera, nelle misure igieniche e politiche scelte, quegli apparati ideologici che ha identificato in precedenti lavori. Ma l’articolo di Illetterati ragiona solo sugli errori teorici di Agamben, non si occupa di altri rapporti possibili tra misure imposte e ideologie che le giustificano.
Mi pare del tutto condivisibile l’osservazione di Agamben per la quale la scienza tende sempre più, in questa come ormai in ogni altra circostanza, a proporsi non per quello che è – uno strumento umano- ma invece come una nuova religione, cui si deve semplicemente credere e obbedire. Che questo sia anche un fatto politico va da sé. Per il resto che la gente sia disposta a sacrificare tutto per la nuda vita- la pelle, si sarebbe detto una volta- con tutto quello che ne consegue , mi pare generalizzazione filosofica arbitraria. La gente si sta mostrando disposta a sacrificare qualcosa e per qualche tempo, pur di salvare la pelle, ma non mi pare affatto disposta a vivere per sempre così. Vedrete che a maggio in casa non ci tiene più nessuno. Il virus farà meno morti e meno audience e potremo tornare felicemente a non pensare ai 650 mila morti all’anno in Italia (dato 2019, pre corona virus, 55 mila al mese) e ai 300 bambini pakistani che morivano, muoiono e moriranno ogni giorno, solo di polmonite virale.
“ Venerdì 3 maggio 2019 – “ « C’è qualcosa di strano in mio padre… » « Anche nel mio » “ (Invasion, Hirschbiegel, 2007) “. Ieri sera ho rivisto Invasion, con Nicole Kidman etc. Quello di strano che c’ha i’ babbo è che, come tutti gli altri contagiati, ha una faccia inespressiva, cioè non ride mai etc. Inoltre è vestito di nero, come un becchino etc. La mamma, invece. “ « Pensavo fossi una di loro » « No, mai » “.
Io, francamente, più che di scienza, ho voglia di parlare di cinema. Oppure di giornalisti. Che sarebbero quelli che il cinema gli piace tanto, ma ci capiscono un tubo.
@adrianobarra
“Il fragore senza suono che ci è noto da sempre dall’esperienza del sogno, ci viene incontro dai titoli dei giornali.”
Theodor W. Adorno, Minima moralia. Introduzione e traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1954 p. 39
LA SOVRANITA’ (“CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT…
CONSIDERATO, PURTROPPO, CHE ” Le riflessioni” di Agamben non riguardano l’epidemia del CORONAVIRUS, “ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa”, ACCOLTA “L’ipotesi […] che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già […]” E CONDIVISA L’IDEA CHE BISOGNA RIFLETTERE SUL “[…] bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo. […]” E, ANCORA, CHE “come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure. [….] sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” (cf. G. Agamben, “Riflessioni…” : https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste), PER NON PERDERE IL “FILO” DI “SOFIA” E, CON ESSA, ANCHE LA VITA E LA “SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL SUO “SAPERE AUDE!”, IO RIPRENDEREI IL DISCORSO dalla citazione evangelica, utilizzata anche dallo stesso Agamben in “Pilato e Gesù” (nottetempo 2013), relativa al problema dell’ ECCE HOMO (cfr. RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO … http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632) e dalla LEZIONE DI KANT sull’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) E SULLA “fine di tutte le cose” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5026). O no?! Boh e bah?!
Federico La Sala
Nessun commento. Tanto, come vedete il mio nome, lo censurate.
Cominciamo dall’inizio: “ 8 novembre 1987 – « “ Perché scappavano tutti, mamma? “ “ Avevano paura, c’era l’uomo, nella foresta “ » (Bambi, Walt Disney, 1942) “.
“ Domenica 8 maggio 2005 – « “ Sccc… sccc… scientificamente “ » (I soliti ignoti, Monicelli, 1958) “.
SAMIZDAT
+
Ma un Agamben o un altro intellettuale prestigioso che ci tiri fuori dalla palude dell’amletismo scientifico-religioso di massa e faccia il Lutero della situazione affiggendo delle Tesi antico-rona virus (e non soltanto delle ipotesi) sulla porta di non so su quale cattedrale o banca o un Lenin che scriva le Tesi di aprile 2020 non ce l’abbiamo?
Chiedo scusa per l’off-topic, ma il commento sopra di Ennio Abate, uno dei tanti e non dei peggiori, in stile così tipicamente arbasiniano (e io Arbasino lo adoro, ma come Lui c’era solo Lui), mi sembra sia fatto, non per interloquire, ma solo per narcisismo. Forse anche questo è un problema.
Segnalo un articolo sulla FAZ che collega gli interventi di Agamben, Finkielkraut e Sloterdijk:
https://www.faz.net/aktuell/feuilleton/die-niederlage-der-denker-alain-finkielkraut-widerlegt-giorgio-agamben-und-peter-sloterdijk-16705488.html
IN SPIRITO DI “AMISTAD” (Steven Spielberg.)! UNA MEDITAZIONE “SAMASATI” ….
“CORONAVIRTUS” – NOTE A MARGINE DELLE “TESI DI APRILE”, PER USCIRE DALL’ABISSALE VORTICE DEL “MULINO D’AMLETO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=38023#comment-427595) : LENIN PRIMA
( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2372), GRAMSCI SUBITO DOPO ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154), PASOLINI E FACHINELLI POCO FA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4352#forum3157066 ). CHE ASPETTIAMO ANCORA?! DAVVERO IL MESSIA?! Nelson Mandela ci può insegnare ancora qualcosa, mi sembra ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269)!
“SAMASATI”: RICORDATI CHE SEI UN “BUDDHA”. “Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è” (Nietzsche): Dante ha segnato la strada (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2958)! Franco Fortini sapeva convivere con “le contraddizioni della verità”, perché sapeva che per comprendere Dante bisognava cominciare a leggere la “Commedia” dal “Paradiso”, non dall’ “Inferno”. Forse sapeva, come sapeva una mia amica che, “per conoscere, bisogna essere già felici” …. O no?! Boh e bah!?
Federico La Sala
“In questo senso, lo stato della musica (includendo in questo termine tutta la sfera che imprecisamente definiamo con il termine ‘arte’) definisce la condizione politica di una determinata società meglio e prima di qualsiasi altro indice e, se si vuole mutare veramente l’ordinamento di una città, è innanzitutto necessario riformarne la musica. La cattiva musica che invade oggi in ogni istante e in ogni luogo le nostre città è inseparabile dalla cattiva politica che la governa.”
Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016 p. 140
PER CARITÀ…
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=388 ) : RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5728 )! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” ( https://it.wikipedia.org/wiki/Le_ali_della_libert%C3%A0 ): LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà” (“https://www.youtube.com/watch?v=cwHehoDv5Mc ).
Federico La Sala
Si ripete, incessantemente come un mantra: non parliamo di “stato d’eccezione”, non usiamo a sproposito una categoria che ormai è diventata un pass-partout perché stride con la peculiarità della situazione attuale. Il cosiddetto pensiero critico ha ormai le armi spuntate per affrontare la novità storico-epocale di questa epidemia. Chi si appella a questi concetti, scade nell’ideologia, diventa la parodia, la caricatura di se stesso. Lei sostiene che di fronte ai brevi testi di Agamben che hanno di recente suscitato reazioni polemiche fino al limite delle insolenze più triviali: A prescindere dal tono “In generale l’impressione è stata quella di un’incapacità di presa sul reale”. Dopo un lungo preambolo lei introduce poi il tema e l’obiettivo del suo testo, affermando che “è possibile cogliere la traccia di un pensiero della vita che è in grado di andare al di là delle astrazioni in cui resta invece impigliato il discorso di Agamben”, Lei cita, introducendo il suo testo, un esempio di coloro che, in modo sicuramente più civile di altri, “hanno mostrato, con argomenti di diverso tipo, l’insufficienza” degli interventi di Agamben, facendo un richiamo a Mario Farina che parla di “traduzione tendenziosa e retorica del benjaminiano Bloße Leben con nuda vita più prosaicamente rendibile con «mera vita». Tutti sanno che “nuda vita” non è un vezzo retorico e tendenzioso di Agamben ma la traduzione storica e gloriosa di Renato Solmi del termine benjaminiano Bloße Leben che riveste un ruolo decisamente centale nel saggio del 1921 Zur Kritik der Gewalt, traduzione ormai canonica che compare nella prima edizione einaudiana dell’Angelus Novus, antologia di testi benjaminiani a cura di Cesare Cases pubblicata nell’ormai lontano 1955. All’emendamento della traduzione, segue l’argomento critico di Farina che identifica la “mera vita” con “il benessere minimo del nostro corpo, base essenziale e irrenunciabile sulla quale si edifica quella comune umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza degli uomini”. Che cosa si è detto sul concetto benjaminiano di Bloße Leben? La “comune umanità” è meglio sia composta da uomini sani che malati, perché solo la salute ”può essere fonte dell’uguaglianza tra gli uomini”. L’argomento lapalissiano di Farina non solo confuterebbe il pezzo di Agamben uscito sul Manifesto e i successivi su Quodlibet ma farebbe crollare come un castello di carte tutto l’edificio teorico di Homo Sacer. E’ pur vero, come diceva Kant, che gli autori non sono i migliori interpreti di se stessi, ma siete proprio sicuri di comprendere il pensiero di Agamben meglio di quanto l’abbia compreso lui stesso? Non dico che non si possa criticare un autore anche in modo radicale, esibire il limite del suo pensiero che lui stesso non potrà mai vedere, ma buttarlo alle ortiche come un cane morto, cosa che è diventata un’abitudine diffusa negli ultimi tempi, non mi pare leale. Non voglio entrare nel merito dell’intero articolo di Farina, perché già mi sono ampiamente pronunciato ma lei mi ha dato il destro citandolo al fine di mostrare come già sotto il profilo retorico la traduzione di “nuda vita” sia indice delle astrazioni in cui sarebbe impigliato Agamben. Cercherò di essere il più possibile sintetico, anche se il suo testo per densità e pretesa teorica si presterebbe a un’analisi critica più articolata, e non è questa la sede più opportuna per una discussione analitica. Lei sostiene che il concetto di nuda vita contrapposta a quella di una vita piena e qualificata sia un’astrazione e ricada nello stesso dualismo metafisico da cui l’autore vorrebbe prendere le distanze. “Abbiamo bisogno di un pensiero della vita che sia in grado di porsi davvero al di là delle distinzioni tra il “naturale” e il “politico”, tra l’ “organico” e il “sociale”, senza tuttavia per questo annientarle. Queste distinzioni invece escono continuamente rinforzate dal discorso agambeniano, e rischiano di produrre gli esiti sconfortanti cui egli giunge nei due piccoli testi sopra menzionati”.Credo che la lettura agambeniana del saggio di Benjamin Zur Kritik der Gewalt, a proposito della “nuda vita” vada in tutt’altra direzione. Non esiste nuda vita se non in rapporto al diritto. La vita non è mai nuda, come diceva Platone, e Agamben, come lei stesso riconosce, lo ribadisce più volte nella sua opera. Agamben non sta contrapponendo la vita naturale a quella della persona, e ancor meno la vita biologica alla vita storica. “Del principe Myskin si può dire che la sua persona resta indietro rispetto alla sua vita, come il fiore rispetto al suo profumo o la stella rispetto al suo scintillio”. Così scrive il giovane Benjamin in ricordo dell’amico Heinle, morto sucida insieme alla sua fidanzata Rika Seligon, richiamandosi al principe Miskin. In questione nel testo giovanile di Benjamin, che Agamben non cita mai nella sua opera, ma che sicuramente conosce molto bene, è una vita che “non è quella della natura e neanche quella della persona”. In fondo Agamben non fa che insistere sul fatto che anche la zoe contrapposta al bios è un’astrazione dualistica della metafisica aristotelica, solidale con la sua forma di linguaggio prepupponente e tematizzante. Il logos come legein ti kata tinòs presuppone l’essere come nuda sostanza senza qualità e su questa fonda la forma apofantica del discorso come discorso che dice qualcosa, un predicato-qualità, sul presupposto di qualcosa, di un essere senza relazione col linguaggio. Su questo piano si gioca, soprattutto nelle opere giovanili, il rapporto di Agamben con Heidegger ma anche quello con Benveniste circa la questione dei deittici e dell’enunciazione, ma non mi voglio dilungare su questo tema. Sappiamo però che Agamben parla di politica muovendo dalla filosofia del linguaggio e il suo problema è da sempre il rapporto ma anche lo iato tra vivente e parlante come momento antropogenetico La distinzione tra zoe e bios, anche se Agamben nel contesto di Homo Sacer tace la fonte, come gli rimprovera Derrida, è infatti ripreso puntualmente da un corso di lezioni tenuto da Heidegger a Marburgo nel semestre invernale 1925-26, dal titolo Logik. Der Frage nach der Wahrheit, in cui troviamo un esplicito richiamo alla Politica di Aristotele alquanto prezioso per comprendere il problema della critica heideggeriana del biologismo nel § 10 di Sein und Zeit, ma anche nei Concetti fondamentali della filosofia aristotelica a proposito del nesso tra lo zoon logon echon e lo zoon politikòn. Al contrario di quanto lei sostiene, per Agamben la vita è indiscernibile dalla sua forma, è la sua forma di vita, e non esiste pertanto una nuda vita che resti supposta e separata dalla sua forma, come “il filosofo romano” non si stanca di ripetere in quasi tutti i suoi testi ( basterebbe pensare alle sezione, dal titolo L’irreparabile, ne La comunità che viene. che è un commento al §9 di Sein und Zeit, o L’uso dei corpi che chiude la saga di Homo Sacer). L’astrazione in cui è presa la vita, come nuda vita, non è quella di Agamben, ma quella del potere sovrano. La vita presupposta dal diritto come nuda vita – esattamente come la violenza nel testo benjaminiano – è la vita già sempre catturata nella topologia dell’eccezione sovrana: ciò che il diritto presuppone come nuda vita e sulla cui esclusione – eccezione, – il diritto si tiene fin da principio in un rapporto di potenza (ex capio). Non esiste quindi la nuda vita se non nella presupposizione della decisione sovrana, quindi nell’eccezione che resta in rapporto con ciò che presuppone ed esclude nella misura stessa in cui l’esclude, nel modo, scrive Agamben, di una eccezione inclusiva. Questo, sì, che mi sembra davvero hegeliano Perciò nell’epoca moderna questa stessa nuda vita in quanto sepatata dalla vita già sempre qualitativamene determinata, presupposta e esclusa dal diritto come una substantia sine qualitate, diventa il vero portatore della sovranità, nello stesso tempo in cui il sovrano di Schmitt è ex legibus solutus, e nella decisione per lo stato d’eccezione, in cui la legge vige mercé la sua sospensione, e lo stato d’eccezione diventa la regola, esibisce la forma vuota della legge, l’anarchia dell’arché (A proposito di “stato d’eccezione”, il testo di Benjamin esce un anno prima, nel 1921, di quello di Schmitt sull’Ausnhamezustand). Ma non c’è realmente una nuda vita biologica contrapposta alla vita piena e qualificata se non nel dispositivo e nella topologia del bando sovrano. Agamben su questo punto è cristallino, non è possibile equivocare. E’ in questo senso, diversamente da Foucault, che Agamben parla di “biopolitica”. La ringrazio per l’attenzione e chiedo venia per la lunghezza dell’intervento.
L’intervento di Luca Illetterati pone questioni importanti e indica le direzioni di ricerca piu’ promettenti per il dibattito italiano. Riflettendo sull’invito finale a sviluppare il dialogo tra scienze umane e scienze naturali, vorrei proporre un punto che illustra la necessità di procedere nella direzione indicata da Illetterati e che non mi sembra abbia ricevuto la necessaria attenzione. Si tratta proprio del punto di partenza di Agamben, che a me appare viziato da una inaspettata adesione a presupposti non indagati di un discorso che si presenta con i crismi della scientificità. Il filosofo Agamben, non interessato al dialogo con lo scienziato portavoce di un centro di potere accademico, si limitava a far proprie alcune impegnative affermazioni, peraltro formulate in modo alquanto vago, e che tra l’altro sarebbero state destinate di li’ a pochi giorni a rivelarsi non poco fuorvianti.
Il ragionamento di Agamben prende dunque acriticamente avvio da quel comunicato stampa del CNR (“occorre partire” dice, ma appunto perche’ occorre e cosa vuol dire partire da li’?), una mossa teorica francamente inaspettata da un filosofo che ha costruito la sua fama intorno alla critica della tecnoscienza e del potere delle opinioni comuni. Le conclusioni cui giungeva il portavoce di un ente che si vanta di avere ottomila ricercatori e scienziati al suo servizio sono state fatte proprie dal filosofo in modo sorprendentemente ingenuo. Nessuna critica dei presupposti o della pretesa di scientificità, ne’ del potere-sapere o degli interessi in campo. Sarebbe bastata una semplice lettura del comunicato per capire quale fosse il senso di quel testo, quali gli scopi prefissi e le motivazioni all’origine della sua pubblicazione. Sarebbe bastato questo per mettere in guardia chiunque da un suo utilizzo come fondamento di un discorso sui destini generali. Incautamente Agamben prende invece il comunicato stampa come un testo scientifico indiscutibile, che contiene enunciati sul mondo reale la cui pretesa di verità non si perita di valutare, anche perche’ in effetti non gli interessa discutere di questo.
Dimostrando di essere un ingenuo quanto involontario destinatario di una operazione pragmatica, tutta interna alle logiche di una istituzione che necessita di visibilita’ e risorse, Agamben non coglie il senso di quel testo ne’ del contesto da cui nasce. Non ne capisce le logiche, ne’ coglie il tentativo di un ente pubblico, chiamato a produrre risultati efficaci con efficienza gestionale, di presentarsi invece come organo imprescindibile di orientamento della vita nazionale, punto di riferimento legittimante della tecnocrazia e potenziale guida dello sviluppo economico e sociale del paese, al riparo dunque, da inchieste troppo intrusive e nuove spending review.
Proprio in un momento di alta tensione nazionale, il CNR, da qualche anno attivamente impegnato a promuovere la propria agenda in ogni ambito che glielo consenta, ha cercato di inserirsi da protagonista del dibattito interno ai centri di potere, di accreditarsi come voce autorevole in un momento di necessità. Abbagliato da una gibigianna di un ufficio stampa impegnato a combattere la vecchia e diffusa immagine del CNR come costoso carrozzone familistico, Agamben e’ rimasto vittima delle stesse contraddizioni a cui da’ la caccia con tanta passione da decenni, costringendo se stesso a un successivo tour de force per difendere un ragionamento viziato da un presupposto assai discutibile. Energie che si sarebbero meglio indirizzate a quel dialogo non sclerotizzato auspicato da Luca Illetterati, ma per il quale evidentemente occorre ancora trovare in Italia interlocutori interessati.