di Alberto Castelli
In un racconto pubblicato in italiano nel 1995 e intitolato La peste a Napoli, Gustaw Herling concludeva la sua descrizione dell’epidemia del 1656 con queste parole: «Quando si spense l’euforia della salvezza dalla peste napoletana, quando ci si fu rallegrati a sazietà della vita a un passo dalla morte, si fecero vedere le conseguenze autentiche e profonde di quei terribili otto mesi. […] Nel corso dei successivi cinquant’anni, fino alla fine del XVII secolo, nel vicereame di Napoli regnarono la depravazione, la corruzione, il disprezzo per le leggi umane e divine, l’avversione per il lavoro, l’indifferenza, l’apatia, l’atrofia della resistenza alla dominazione straniera. La peste aveva ucciso nei sopravvissuti, nei loro figli, nei loro nipoti e pronipoti il gusto, il valore e la dignità della vita associata, con tutti i suoi splendori e tutte le sue miserie».
Certo, la tragedia napoletana del Seicento, con il suo enorme numero di vittime, non è paragonabile alla, pur difficile, situazione in cui ci troviamo oggi; è però vero che le parole di Herling sollevano una questione su cui faremmo bene a riflettere: quella delle conseguenze che il Corona virus avrà sul nostro modo di vivere e di pensare. Cosa ci lascerà questa esperienza? Quali conseguenze avrà sul nostro modo di stare insieme? Quali idee o comportamenti saranno sdoganati? Quali scelte politiche sembreranno ragionevoli dopo questa paura di massa e dopo questo intervento (che si può immaginare necessario) del potere politico sulla vita di tutti i giorni? Di solito le tragedie lasciano dietro di sé macerie ingombranti: l’undici settembre, per esempio, ci ha lasciato la familiarità con la videosorveglianza nelle strade; e ci ha anche abituati a non scandalizzarci più per i metodi brutali di interrogatorio dei sospettati di terrorismo (peraltro, e per fortuna, mai resi formalmente leciti). Allora: quali macerie sociali e politiche ci lascerà l’esperienza di questa epidemia? Quali potrebbero essere le vittime, per dir così, non umane del virus?
Provo ad accennare a tre di queste possibili vittime, a tre possibili eredità che dovrebbero preoccupare ogni sincero democratico. La prima riguarda la privacy. Da quando le nostre città si sono riempite di telecamere, all’inizio degli anni 2000, le capacità di controllo hanno fatto molta strada e la nostra sfera privata si è notevolmente ridotta. Il risultato è che oggi le nostre azioni sono esposte a un’assidua (potenziale o effettiva) osservazione. Le grandi compagnie telefoniche, per esempio, sono in grado di fornire ai governi set di dati sugli spostamenti dei loro utenti, che permettono di sapere con chi una persona è venuta in contatto (contact tracing) e di compiere altre forme di monitoraggio. Simili dati sono stati utilizzati in Corea del Sud e in Cina per capire e contrastare la diffusione del virus. Non solo. In un paese non democratico come la Cina si è potuto anche fare uso di telecamere per il riconoscimento facciale, e si sono obbligati i cittadini a fornire rapporti sulla propria temperatura corporea e sul proprio stato di salute prima di poter accedere a determinati servizi.
Sarebbe assurdo sostenere che queste misure non sono efficaci: sacrificano la privacy ma salvano molte vite. Eppure, sarà permesso ricordare che, molto spesso, le misure emergenziali non scompaiono insieme all’emergenza che le ha generate, anche perché c’è sempre un’emergenza (vera o supposta) in arrivo. Dunque, quando l’epidemia sarà finita, i monitoraggi e i controlli usati contro il virus saranno ancora possibili e ci saranno esperti ben addestrati a compierli, cittadini ormai abituati ad accettarli, ed enti desiderosi di possederne i risultati. Così, quello che è oggi un utile strumento di lotta all’infezione, potrebbe trasformarsi domani in una riduzione permanente e crescente della nostra sfera privata. Una riduzione che, magari, faremo fatica a percepire come tale perché ci sembrerà normale essere monitorati e controllati in ciò che facciamo.
La seconda vittima del virus potrebbe essere una quota della nostra libertà. La paura spinge all’intransigenza, alla disponibilità a reagire duramente nei confronti dei recalcitranti. La storia ci dice molto chiaramente che la paura induce i popoli ad accettare la revoca di determinate libertà o perfino di tutte le libertà, in cambio di un’illusione di sicurezza. Ci insegna che, di fronte al pericolo, proviamo un intenso desiderio di affidarci all’uomo forte. A un leader che, in virtù di un suo supposto carisma speciale, saprà condurci al sicuro; a condizione che non sia intralciato dalle parole e dalle azioni dei soliti “grilli parlanti” che, per qualche loro forma di follia o di malvagità, “remano contro” il benessere di tutti.
Come ha scritto Luca Sofri, in un recente articolo su “wittgenstein.it”, la paura tende a generare «un sentimento diffuso di dover ognuno di noi difendere una necessità superiore, sentimento che ci legittima e ci mette tutti in una divisa, gran voglia di chiamare la polizia, denunciare qualcuno, o intervenire noi stessi. Rallegramenti per le punizioni esemplari». Aggiungerei che l’impulso a metterci «in una divisa» e ad affidarci all’uomo “del destino” viene acuita, in questa nostra epidemia, dalla difficoltà in cui si dibattono i governi, impreparati di fronte a una situazione inedita e stretti tra influenze e necessità contrastanti. La sensazione di trovarsi, impotenti, nelle mani di governanti inesperti può spianare la strada all’impulso di chiedere soluzioni tanto immediate e muscolari, quanto vuote e superficiali.
Con queste osservazioni, non intendo giungere a sostenere che la crisi epidemica potrebbe tradursi, nel breve periodo, in una crisi della forma di governo democratico in Europa occidentale. Mi chiedo però che ne sarà di questa disponibilità al rigore e all’intransigenza quando, in futuro, si presenteranno nuove emergenze. Mi chiedo se l’abitudine a ciò che accade in questi giorni non lascerà segni profondi nella nostra politica. Mi chiedo cosa ne sarà di questo allenamento ad accettare di buon grado – per preservare la vita – misure di autorità e maniere forti. Mi chiedo tutto questo anche pensando ai recenti sviluppi politici in Ungheria e ricordando che lo scorso anno Agnes Heller, in Orbanismo, ci metteva in guardia dal possibile espandersi del modello ungherese.
La terza vittima non umana del virus potrebbe essere la nostra apertura, la nostra disponibilità all’ascolto e alla compassione. Dopo l’esperienza di questa paura collettiva e prolungata per la nostra incolumità, ci sarà probabilmente meno spazio nelle nostre menti per questioni come i diritti dei più deboli, la salvezza di altri popoli, o la salvaguardia dell’ambiente. Inoltre, la crisi economica che seguirà l’emergenza sanitaria genererà fratture sociali profonde, a cui gli stati cercheranno di porre rimedio con strumenti che difficilmente saranno adeguati. Una simile situazione, non è adatta alla diffusione di sentimenti e azioni solidali; cresceranno invece la rabbia e la tendenza (che già gode di ottima salute da anni) a cercare capri espiatori nei più deboli ed emarginati.
Dopo questa crisi, proveremo più di prima la sensazione di vivere in un mondo troppo vasto e pieno di pericoli nascosti, incomprensibili, spaventosi; e forse cercheremo conforto nell’illusione di poterci rifugiare in uno spazio che sia solo nostro, di rinchiuderci nel nostro rassicurante giardino. In un’intervista rilasciata il 22 marzo scorso a “Huffpost”, il filosofo Roberto Esposito ha affermato che «il contagio del Coronavirus potrebbe produrre degli effetti sovranisti, rafforzando il discorso di quelli che sostengono che i confini servono, anzi vanno rinvigoriti, per contenere i pericoli a cui ci espone la spinta globale del mondo». E il politologo Ivan Krastev, in un articolo pubblicato su “Internazionale” il 27 marzo scorso, ha messo in luce come, in questa situazione, lo stato abbia riconquistato una centralità che sembrava avere smarrito, e come si sia rafforzata la «mistica dei confini» e il nazionalismo. «Questo – scrive Krastev – è un virus antiglobalizzazione e […] l’apertura dei confini e l’integrazione tra le persone saranno considerate una delle cause della catastrofe». Se le previsioni di Esposito e di Krastev sono fondate, è probabile che assisteremo a un rinnovato tentativo di innalzare muri ai confini dell’Italia (e degli altri paesi); muri che non fermeranno le forze del mondo globalizzato a cui siamo esposti, ma che daranno una concreta illusione di sicurezza a tutte le anime spaventate.
Succederanno davvero tutte queste cose? E in che misura? Vedremo (ulteriormente) compromessa la nostra sfera privata? Approveremo misure autoritarie contro i dissenzienti? Diminuirà la nostra empatia verso gli altri ed erigeremo barriere assurde? Ovviamente nessuno possiede la sfera di cristallo e potrebbe darsi che non tutte le conseguenze di questa crisi siano negative. A volte dai disastri può nascere una nuova coesione sociale, una nuova socievolezza tra le persone, un nuovo tipo di patto politico, e una più acuta consapevolezza dei nostri bisogni (quest’ultima potrebbe tradursi, per esempio, nell’indisponibilità a veder tagliati i fondi alla Sanità). Penso però che i pericoli che ho brevemente indicato siano reali e che potremo sperare di sfuggire al destino dei sopravvissuti alla peste del 1656, e conservare la «dignità della vita associata», se sapremo mantenere uno spirito critico abbastanza vivace da scegliere classi dirigenti mature e lungimiranti, e se non saremo disponibili a farci governare, a chinare la testa, con troppa facilità.
Complimenti per la sua molto realistica e fondata visione prospettica.
Senza intaccare il suo articolo, Dott. Castelli, mi sorge spontanea la domanda, forse banale e ancor più ingenua: se gran parte delle previsioni sulla post-pandemia hanno in stragrande maggioranza un sapore distopico, non è che sono condizionate proprio da questa assurda condizione in cui l’umanità si trova almeno da metà febbraio 2020? Come chi fosse colpito da un mal di testa lancinante fosse anche dominato da esso nel prevedere cosa avverrà nei giorni in cui ritroverà la salute.
Condivido questo articolo di Alberto Castelli quasi parola per parola e aggiungo, come nota marginale:
1) Da sempre, le situazioni di emergenza (guerre, crisi economiche e sociali, epidemie), hanno favorito la centralizzazione del potere, il rafforzamento dello Stato, e diminuito l’autonomia e la libertà dei cittadini. Anche quando discontinuità storiche, come certe rivoluzioni, sembravano avere spezzato queste dinamiche, le stesse rivoluzioni si sono poi risolte invece in un loro rafforzamento (dal 1789 a Bonaparte, dal 1917 a Stalin, ecc.). Ciò è avvenuto in tutti i Paesi e in qualsiasi tipo di regime. Ad esempio negli Usa il rapporto fra Stati federati e Stato federale è continuamente mutato a favore dei poteri dello Stato federale, tanto che oggi anche quel federalismo, modello, insieme a quello svizzero, dei federalisti europei per oltre due secoli, ha perso gran parte del significato originale dell’ordinamento federalistico.
2) Per altro verso (ce ne possiamo rendere conto anche leggendo i tanti libri di fantascienza che narrano distopie sociali proiettate in lontani mondi e lontani futuri), l’aumento della popolazione e del potere della tecnologia ha portato a una diminuzione di relazioni reali e a un aumento di relazioni virtuali (esiste ancora qualche comunità che non sia una semplice moltitudine di individui poco correlati fra loro?); a una maggiore complessità sociale e alla necessità di controllarla con tecnologie sempre più invasive della privacy e delle libertà degli individui; a un passaggio del potere dal campo della politica a quello preteso neutro della scienza e della tecnica; alla sottrazione delle decisioni che contano al controllo dell’opinione pubblica attraverso la libertà di parola e il voto elettorale; alla riduzione del potere effettivo in cerchie sempre più ristrette ed oligarchiche. Insomma, buona parte delle dottrine sulle “élite” si rivela ancora attuale, sia nelle versioni di Mosca o Pareto o Michels, sia in quelle “democratiche” dove si arriva a delineare il leader politico come imprenditore della politica.
3) La “democrazia di oggi” diventa sempre più una “democrazia autoritaria” il cui autoritarismo è meno evidente perché realizzato in leggi e istituzioni che hanno plasmato abitudini e idee che hanno introiettato come fatto necessario e naturale il carattere di questo autoritarismo. E chi si vuole contrapporre in nome della libertà e dei diritti individuali si trova a navigare non solo controcorrente, ma a sostenere proposte che appaiono ai più addirittura controfattuali, contro il “senso comune”.
È questo, ad esempio, l’attuale destino dei libertari (o libertariani) miniarchici (mini-statalisti) e dei loro vicini libertariani che vorrebbero anche l’abolizione del mini-Stato per affidare tutte le decisioni politiche alla libera contrattazione e associazione fra individui e associazioni di individui. E, naturalmente, è anche il destino degli anarchici comunitari di più antica tradizione.
“ Domenica 23 luglio 2000 – « Roma, 13 maggio 1984 – Ho perso il treno, devo aspettare fino a mezzanotte al bar della stazione. Al tavolo accanto di sono due ragazze: vedendomi con un foglio di carta davanti e con un lapis in mano, una sussurra all’altra: “ Scriverà una lettera d’amore “. Chissà, forse nel mio diario, oltre all’ideale di una cronaca trapunta qua e là di racconti, c’è anche una vena epistolare che filtra da qualche parte in profondità… » (Gustaw Herling, Diario scritto di notte, cit.) “.
Nell’articolo si evidenziano potenzialità soprattutto negative, arretramenti di natura politica e sociale, anche se, in potenza, si potrebbe sviluppare qualcosa di molto più “progressista” , perchè l’emergenza in corso ci spalanca di nuovo di fronte il nostro essere in balia della storia e della natura, minaccia negli ultimi decenni nascosta dietro la retorica delle magnifiche sorti e progressive.
Ritornando al Novecento, possiamo affermare che alle grandi tragedie, pensiamo alle due guerre mondiali, sono seguite fasi molto diverse, diremmo contrapposte, e dal momento che questa emergenza lascerà strascichi sotto certi profili paragonabili, per esempio di natura economica, tutti gli scenari sono aperti.
In ogni caso, ritornando all’articolo, la nostra società, e faccio riferimento soprattutto a quella occidentale, sotto il profilo relazionale, aveva già raggiunto un punto molto basso, difficile pensare che possa sprofondare ancora più giù, e dal punto di vista dei nuovi confini che si ergeranno, nell’immediato sarà inevitabile, non vedo perchè un mondo meno globalizzato debba essere peggiore. Ricordiamo sempre che il Secondo dopoguerra è il periodo storico in cui in confini si sono elevati più alti, ma è anche, in modo particolare in Occidente, il periodo di più grande sviluppo, con tutte le contraddizioni del caso, che la storia umana abbia conosciuto.