di Francesco Valerio Tommasi
Parlando delle misure restrittive prese a seguito della diffusione del Covid-19, Giorgio Agamben ha scritto in queste righe oramai famigerate della “invenzione di un’epidemia”, che introduce uno “stato di eccezione”. Agamben ha poi criticato anche l’idea del contagio, riconducendola con questo scritto al mito dell’untore: come sostenuto da un terzo testo, supporre che ognuno sia potenzialmente un “portatore sano” da isolare conduce ad azzerare i rapporti umani. In un recente intervento su queste pagine, i termini della questione sono stati ben analizzati da Mario Farina, che ha ricordato come Agamben sia stato criticato anche da Jean-Luc Nancy, anzitutto con queste considerazioni. Nel dibattito è intervenuto poi Roberto Esposito, qui, e la questione è stata l’occasione per una discussione sulla biopolitica: si tratta del paradigma, proposto da Michel Foucault ma poi sviluppato soprattutto in Italia, secondo cui il potere ha la tendenza ad invadere progressivamente la sfera dei corpi e della vita biologica. In un nuovo intervento, Jean-Luc Nancy ha sostenuto che nel mondo attuale, dominato da una interconnessione complessa di forze e di parametri, non è semplice definire le sfere di biologia, medicina e politica. Di conseguenza, l’idea di “biopolitica” rappresenta un quadro concettuale vago. Dal canto suo, Agamben ha poi continuato ad intervenire, ad esempio qui e qui, ribadendo le sue posizioni.
Proviamo allora a mettere ordine. Alcuni dati appaiono innegabili: da un lato, come afferma Nancy, la morte che il virus porta con sé. Minimizzare l’emergenza sembra una ingenuità enorme. Dall’altro, come sostiene Esposito, il dato più generale che la politica attuale ha molto a che fare con la vita. Si pensi alla bioetica e alle biotecnologie, alla gestione dell’immigrazione o appunto, alla pandemia. Rispetto a questi elementi, sono ragionevoli le considerazioni di Yuval Noah Harari, che mostra come tecnologie di controllo non debbano implicare immediatamente perdita di privatezza e libertà; le riflessioni di Gustavo Zagrebelsky, che difende le restrizioni alla libertà in nome della tutela della vita; quelle di Judith Butler, che sostiene la necessità di ripensare il modello attuale di capitalismo; o quelle di Luca Illetterati, che su queste pagine ha sottolineato, facendo riferimento a Walter Benjamin, come il concetto di “nuda vita” sia inadeguato e la “vita” vada considerata in senso più ampio. Tra vita e potere politico non si dà necessariamente conflitto, ma sono possibili forme di conciliazione. Tuttavia, resta comunque aperto, più in profondità, il problema della libertà – come estrinsecazione del proprio corpo e delle sue possibilità – in un mondo con sfide che cambiano oramai le regole del gioco (la globalizzazione, l’ibridazione dei corpi, la labilità di inizio e fine vita, il primato della finanza sul lavoro etc…) e non permettono più di far riferimento alla “libertà dei moderni”.
Un punto di partenza interessante per provare allora a riannodare i fili della questione della libertà può essere rinvenuto proprio in un testo di Agamben. Si tratta della sua introduzione alla traduzione italiana del saggio di Emmanuel Levinas, Alcune considerazioni sulla filosofia dell’hitlerismo. Agamben si sofferma in particolare su un concetto: il soggetto “inchiodato” (rivé) al proprio corpo. La tradizione occidentale (giudaico-cristiana e liberale) ha sempre separato, per Levinas, il diritto dal fatto, l’essenza dall’esistenza, l’anima dal corpo, e ha valorizzato sul versante ideale soprattutto l’aspetto della libertà; il nazismo, invece, insiste su un materialismo inedito, quello per cui non vi è nulla al di là del dato biologico della razza. Tale dato viene elevato a destino del popolo, senza possibilità di scelta: eredità naturale diviene nel nazismo immediatamente missione storica, che a sua volta riassorbe in sé la libertà.
Agamben nota con acutezza che questo idea di un soggetto inchiodato al nudo fatto del corpo viene esaltata dal nazismo ma, almeno come punto di partenza, è condivisa dallo stesso Levinas. Questi infatti ritiene comunque illusorio ogni dualismo tra anima e corpo. In quegli anni scrive un testo intitolato significativamente Dell’evasione; e tutta la sua riflessione sarà rivolta ad una ricerca dell’esteriorità e dell’alterità. Il fatto che l’”essere inchiodato” sia caratteristica della filosofia dell’hitlerismo ma, contemporaneamente, anche caratteristica autentica della soggettività umana, permette quindi ad Agamben di sottolineare un aspetto inquietante: il nazismo non è un incidente di percorso nella riflessione occidentale. Il punto chiave per comprendere questa situazione è naturalmente Heidegger: l’essere inchiodato è infatti una radicalizzazione dell’idea dell’essere gettati (e – anche se Agamben non se ne accorge – dell’essere inchiodati al corpo parla Heidegger in un passaggio del dibattito di Davos). Incondizionata fatticità di un essere senza essenza.
Sulla scorta di questa riconduzione dell’essenza all’esistenza si verifica secondo Agamben anche un altro passaggio – che caratterizza la sua riflessione personale: la casa (ossia la fatticità intima dell’esistenza) diventa il paradigma della politica (ossia della vita libera). Il teorico di Homo sacer può quindi ribadire anche in queste righe la sua risposta a questa condizione: far valere l’inessenzialità dell’essere umano in un’altra direzione. Pensare il soggetto come “un essere di pura potenza che nessuna identità e nessuna vocazione possono esaurire”. Una “indifferenza creatrice ad ogni compito” che permette di “restare assegnati alla felicità” (p. 20).
Ma nel confronto con Levinas – e con l’idea del soggetto inchiodato – mi sembra che emerga un punto di tensione di questa pars construens agambeniana. Forse proprio questo punto è alla radice della sua difficoltà di leggere la pandemia attuale nei suoi contorni reali. In modo reattivo rispetto all’“essere inchiodato” del nazismo, infatti, Agamben sembra riproporre la ricerca di uno spazio di possibilità. Ma in questo modo il soggetto sembra ritornare a tratti “pre-totalitari”. Agamben sembra cioè proporre un soggetto che ha nuovamente la possibilità – e quindi la libertà – come caratteristica principale. Si tratta di un soggetto che, come quello della tradizione, è astrattamente capace di sottrarsi ai fatti e di ritagliarsi uno spazio di autonomia.
Non a caso, la pura potenza indifferente cercata da Agamben sembra somigliare non poco alla descrizione levinassiana della ragione serena dell’uomo liberale: “L’uomo del mondo liberale non sceglie il suo destino sotto il peso di una storia. Non conosce le sue possibilità come delle potenze inquiete che fremono in lui e lo orientano verso un cammino determinato. Per lui vi sono solo possibilità logiche che si offrono ad una ragione serena in grado di scegliere mantenendo perennemente le sue distanze.” (p. 29). Ancora non è un caso che Nancy abbia interpretato Agamben – nelle considerazioni citate – come uno “spirito forte” della tradizione europea, libertario, refrattario a restare incatenato ai fatti. E ulteriormente non sembra casuale che l’altra faccia del tentativo del potere di afferrare la nuda vita sia, per Agamben, proprio la fine della storia, intesa come depoliticizzazione totale: ad essa, Agamben oppone “mezzi senza fine” e “inoperosità”, ossia termini che si muovono sullo stesso terreno, perché prefigurano una condizione di sospensione del tempo; termini che – come le “profanazioni”, altro titolo della sua proposta – sono sempre reattivi o negativi.
Ma la morte che il virus porta con sé ci scaraventa nuovamente addosso la storia, inchiodandoci ai nostri corpi mortali. Virus ha la stessa etimologia di “vis”, forza, e di violenza. Il virus ci dice che siamo strutturalmente cagionevoli. Proprio la malattia è un caso emblematico in cui si mostra la verità dell’idea di soggettività come essere inchiodati ad un corpo. L’essere consegnati senza scampo alla pura presenza di sé, da cui non ci si può rimettere, infatti, è proprio la caratteristica dell’essere malati. Ma il malessere che accompagna più o meno sottilmente l’intera esistenza, la sua fragilità costante, non è segno della sua strutturale –non accidentale – malattia? Magari momentaneamente asintomatici, coviamo però sempre il virus della mortalità. Una soggettività che è mero corpo, e corpo mortale, è una soggettività essenzialmente morente: dunque nient’altro che una soggettività malata. Per quanto autentica, la possibilità dell’essere per la morte è l’unica possibilità che ha l’esistenza umana. Proprio come quella di un malato terminale.
Quale spazio resta, allora? Non certo quello di una potenzialità pura. Piuttosto, la modalità con cui relazionarsi ad una soggettività malata – propria e altrui – deve essere anzitutto quella della cura. Avere cura, prendersi cura, curare. Farsi carico della malattia indica una possibilità paradossale: guadagnare una distanza dal proprio essere inchiodati senza tuttavia separarsi da esso. Ogni vita è essenzialmente bisognosa di cura. La cura è una necessità inchiodata al corpo, connaturata al corpo, incarnata nel corpo. Ma curare resta sempre anche una possibilità per il vivente, in ogni momento, verso di sé, verso altri e verso cose. “Curarsi di” è una necessità possibile. In modo emblematico, poi, “curarsi di” è un riflessivo che contemporaneamente è sempre estroflesso, regge un genitivo. È un riflessivo generativo. Ha un riferimento immediato a sé e ad altri.
Un contenimento alla libertà in nome della protezione della vita fragile – propria ed altrui – non significa quindi un passo verso il totalitarismo. È una idea ancora implicitamente individualistica e astratta della libertà a proporre questa lettura. Difatti, accanto ad Agamben, sono soprattutto pensatori di estrazione liberale che hanno visto un rischio nelle misure di “coprifuoco” (cfr. ad esempio Piero Ignazi, qui); ed è la tradizione anglosassone che è stata più restia ad accodarsi ad esse. Tuttavia, contenere la libertà individuale in nome della cura per i deboli significa, oggi, riscoprire l’idea di un bene comune che trascende l’interesse singolo. Ciò permette anche di porre le basi per un paradigma futuro potenzialmente diverso, a partire dal quale rispondere finalmente alle altre emergenze della nostra epoca: l’ambiente, l’immigrazione, la povertà. Proprio un totalitarismo apolitico ed economico – fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità – ha impedito sinora di far fronte a tali questioni.
Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo”.
[Immagine: © Foto di Bryan Schutmaat].
Il salto delle parole virgolettate nel testo di Fortini rende incomprensibili varie frasi. Prego la redazione di sostituire questa versione corretta con la precedente. [E. A.]
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“allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo”. ( Francesco Valerio Tommasi)
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A patto che non si cada nella ingenuità di ritenere che sia lo Stato, questo Stato, a poter realizzare “un contenimento alla libertà in nome della protezione della vita fragile – propria ed altrui –“ . O a potersi porre lo scopo di “contenere la libertà individuale in nome della cura per i deboli [o a] riscoprire l’idea di un bene comune che trascende l’interesse singolo”. (Smentiscono gli esempi del Pio Albergo Trivulzio a Milano o dell’ospedale di Alzano Lombardo, etc…)-
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P.s.
Se proprio volete continuare a criticare Agamben, meglio riprendere in mano – ripeto – Marx. O anche questo Fortini che parlava del ruolo terapeutiche delle “pratiche sociali” :
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LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE
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Di Franco Fortini, 28 ottobre 1986, Il manifesto
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Non voglio davvero disconoscere che la libertà minore (pedagogica perché fortifica, per via di esperimento ed errore, il soggetto disordinato, e lo introduce al sistema di premi e di punizioni che l’esistenza è) non sia anche apportatrice di salubrità, di salute. Anzi, nel nostro presente che è feroce con i deboli e li sopprime ai minimi vitali (o anche al di sotto di quelli) e si vanta del sangue che la sera si trova sotto la suola delle scarpe, la libertà di disporre del cibo e del letto, delle vesti e delle medicine sarà certo meno terapeutica della volontà di quanto non siano le libertà di scelta ma è, di queste ultime, la condizione prima. Bisogni e desideri, necessità e fantasmi sono inseparabili e in continuo transito gli uni attraverso gli altri. Per non averlo capito in tempo, la tradizione laico-liberale e quella socialista, a eccezione di pochi che onoriamo, si sono presentate impreparate all’appuntamento dei nostri decenni e hanno continuato a ripetere i luoghi comuni dell’autocoscienza individuale oppure di un impegno politico che tutto delegava al Partito, inteso quale supremo gestore dell’autocoscienza. E proprio per questo è potuto sembrare invece che, chiamata da Eliot la “infermiera agonizzante”, la Chiesa terapeuta e taumaturga sia stata capace di supplenze allo stato, di unificare apostolato e guarigione, politica sacramentale e pedagogia della salvezza; né sarebbe male che vi guardassimo più da vicino. Per decine di anni troppa parte dell’ottimismo scientifico e delle illusioni sono passate, senza reale verifica, dalla tradizione giacobina o democratico-laica a quella comunista; che, come abbiamo vissuto, quando le fallisca il duro padre leninista ricorre ai miti sentimentali che hanno abbeverato progresso e industria, dai saint-simoniani al New Deal. Mi permetto rammentare, di passaggio, che non si è data sufficiente attenzione ai punti di contatto tra il pessimismo antropologico che è proprio della storica “terapia” cristiana e quello storico di una parte rilevante, sebbene minoritaria, del marxismo moderno. Per il cristiano l’uomo è costituzionalmente ammalato, leso da un vulnus originario che lo ha reso separato dalla natura edenica; la sua guarigione è salvezza e si attua fuori dal tempo, il presente non è che figura di un altro presente immutabile. Ma anche una parte del pensiero rivoluzionario, quella non rousseauiana né positivistica, non hanno una mera fine ma solo una trasformazione storica, non solo una funzione negativa ma anche una positiva. Solo l’ammalato può allora essere il terapeuta dell’ammalato, secondo la parola brechtiana, sklaven verden dich befreien “schiavi ti libereranno”. Nei medesimi anni di Brecht, inascoltati dalla sinistra dell’ottimismo “progressista”, lo dicevano anche Simone Weil e Ernst Bloch. Ma se era relativamente facile dire questo pensando alle classi umiliate e offese dell’Europa di cinquant’anni fa, chi realmente oserebbe oggi proporre, accanto a quelle, come terapeuti o liberatori, come i re guaritori o lebbrosi della leggenda, gli schiavi, i malati, i feriti del terzo e quarto mondo? O i nuovi barbari delle nostre periferie? Eppure, non dimentichiamolo, fu questa la sfida cui si confrontarono cent’anni fa i rivoluzionari europei. Il ruolo terapeutico di “pratiche sociali”. Una volta avrei capito subito che cosa si intendesse con “pratiche socali”; oggi, ma dubitosamente, credo che si alluda all’area vastissima e giustamente imprecisa, che è oggetto di volontariato o semi-volontariato o di particolari attività amministrative, dove si lavora a contatto di situazioni generalizzate, prodotte dalla società presente ma che, essa situazione, nelle proprie istituzioni, è incapace di gestire e trasformare. A me pare che la particolare condizione di queste “pratiche sociali”, nel loro inevitabile ambiguo rapporto con le istituzioni dello stato del “benessere” o “sociale” (e con quelle sue sottosezioni che sono i partiti) le volga a qualcosa che non è soltanto fattuale, empirico, immediatistico bensì a qualcosa che “deve o “dovrà” essere. La “pratica sociale” sembra, fortunatamente, eccedere proprio quel frazionamento degli uomini, quella reificazione in figure e ruoli che è, a mio avviso, l’inevitabile e già ovunque visibile conseguenza delle prediche sulla “fuga dal centro” e sulla fine dei progetti di futuro. L’Occidente conosce benissimo questi corpi intermedi fra partecipazione e secessione. E’ inevitabile che i poteri centrali diffidino, tentino di inglobare o controllare o, al bisogno perseguitino, come fu con i Giansenisti e con gli anarchici. Questi microrganismi sono naturalmente terapeutici, sono libertà e la portano, enzimi del corpo sociale e, come spesso ripetono,”nel mondo ma non del mondo”.
Nessuna di queste istituzioni di mutuo soccorso psichico e fisico, ideologico e corporeo, può evitare, come un qualsiasi Esercito della salvezza, il passaggio dalla minestra all’opuscolo, al libretto rosso o verde, all’invito a film, riunioni o feste; ma che dico, non può e neanche deve, perché il ruolo terapeutico di queste pratiche sociali è proprio di essere un indice teso a qualcos’altro, a un dover essere, a un “oltre” e, se non lo sono, allora valgono quanto il medico della mutua, i congressi dei partiti, il campionato di calcio o il Te Deum a Santiago. Per dire tutto in una formula: la condizione che chiamiamo di libertà – da qualcosa e per qualcosa – non è terapeutica o lo è solo se contiene in sé la possibilità di un superamento di se stessa ossia una obbligazione e un impegno, quindi una accettata limitazione di se stessa per un fine e un orizzonte ulteriori. Quanto affermo va contro il costume intellettuale ereditato dal progressismo. In una società che non vuole sentirne parlare (o vuol sentirne parlare soltanto “a destra” ossia con ben precise garanzie di ordine sociale) quanto affermo implica anche considerare terapeutico ciò che indirizza gli investimenti libidinali verso quel che oltrepassa la nostra biografia, dunque verso una repressione. Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria. Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO. Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare. Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “ La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: “La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro”.
Dall’intervento di Nancy (molto bello, grazie del link), al minuto 4.50:
“On serait tenté de caricaturer la situation ainsi : en Europe, c’est « sauve qui peut » et ailleurs c’est : « à nous deux, virus ! » Ou encore : en Europe les atermoiements, les scepticismes où les esprits forts, au sens ancien de l’expression, occupent plus de place que dans beaucoup d’autres régions. C’est l’héritage de la raison raisonnante libertine et libertaire, c’est-à-dire de ce qui pour nous vieux Européens représentait la vie même de l’esprit. C’est ainsi qu’en Europe la répétition inévitable de l’expression ‘mesures d’exception’ fait surgir le fantôme de Carl Schmitt par une sorte d’amalgame hâtif.”
(“Si potrebbe abbozzare la seguente caricatura della situazione: in Europa la parola d’ordine è “si salvi chi può”, altrove: “a noi due, virus!”. O anche: in Europa sono di casa gli indugi, gli scetticismi, nei quali gli spiriti forti, nel senso antico del termine, occupano più posto che in altre regioni del mondo. È l’eredità della ragione ragionante libertina e libertaria, cioè di ciò che per noi vecchi europei rappresenta la vita stessa dello spirito. È così che in Europa la ripetizione inevitabile dell’espressione ‘misure d’eccezione’ risveglia, in seguito a una specie di affrettato amalgama, il fantasma di Carl Schmitt.”)
A me sembra che qui “libertina e libertaria”, detto della ragione, intenda, oltre a “refrattario a restare incatenato ai fatti” come interpreta Francesco Valerio Tommasi, anche “critica” nel senso del criticismo illuminista. E dire che la ragione così intesa “rappresenta per noi vecchi europei la vita stessa dello spirito” è un’affermazione dalle interessanti implicazioni: implica, ad esempio, che per noi europei la ragione/spirito è tale non soltanto nel momento in cui dà forma a una realtà, ma anche e forse soprattutto quando si oppone a un potere. Come se per esistere la “ragione ragionante libertina e libertaria” avesse bisogno di un potere a cui opporsi.
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE …
A) – UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: […] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico – fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità – ha impedito sinora di far fronte a tali questioni.
Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo”. ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia” – sopra);
B) – “UN NUOVO INIZIO”: “[…] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) – ANTROPOLOGIA : KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1535), LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5281) e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790#forum3156390);
D) – CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) e uscire dalla dal letargo e dalla caverna (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923), ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos », vulg. «ecce homo»)”.
E) – LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr. (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085).
Federico La Sala
Leggo un piacevole Paolo Mieli sul complottismo. Naturalmente si parla anche di Agamben: “ In principio fu Giorgio Agamben. “. Io, che di complotti non so niente, che non sono un filosofo, non sono uno scienziato, non sono nemmeno un giornalista, insomma non so niente di niente, perché sono solo un poveraccio che scrive un diario, ricordo di avere scritto una volta: “ Senza data [1981] – Dice: « Ti ricordi al Pantheon la notte tutte quelle fighe? Sembrava un complotto ». È un complotto. “. Niente altro, che io sappia, da aggiungere.
Agamben moralista epicureo, alleniamo la mente a ragionare su cosa ci rende felici perché se lo siamo non ci manca niente, se non lo siamo facciamo di tutto per diventarlo.
Da vari giorni è tutto un parlare e straparlare, sulle tv e giornali, della cosiddetta Fase 2. Insomma, parlano dell’apertura senza che nessuno l’abbia decretata. E’ un po’ come il cacciatore e la pelle dell’orso. E se la Fase 1, quella del contenimento, avrebbe dovuto essere una sorta di “prova generale” per misure dittatoriali o comunque liberticide, beh, c’è da dire che è venuta un po’ sgangherata, quotdianamente segnata dai litigi istituzionali tra regioni e governo, dove ciascuno ha fatto il c… che ha voluto.
Comunque, se oggi s’invoca la Fase 2, quella del “libera tutti”, è perché s’è mossa la Confindustria, coi suoi plenipotenziari, valvassini & valvassori compresi. Quindi, e con buona pace di Carl Schimtt e d’Agamben, il covid 19 ha rovesciato l’assunto schmittiano, e oggi bisogna dire che sovrano non è chi decide lo stato d’eccezione, bensì chi lo revoca
“Virus ha la stessa etimologia di “vis”, forza, e di violenza.” Could you kindly provide a source or a reference for this etymology?
The PIE root for “virus” is wisós or *ueis- (with the Greek ἰός), while the PIE root for “vis” is *weyh₁- or u̯ī̆ro-s (with the Greek ἴς).
Il coronavirus ci rigetta nella storia, come giustamente affermato in conclusione di questo ottimo scritto. Viviamo, mutatis mutandis, ciò che i nostri antenati hanno vissuto in epoche storiche oramai dimenticate, se non dagli studiosi, intesi come coloro che studiano, anche nel loro piccolo, il passato. E come allora viviamo forte il dilemma se l’ “individualismo”, finanche suicida ma non è importante, che oggi si carica anche di “darwinismo sociale”, ha la prevalenza oppure non sul “socialismo”, su ciò che riguarda tutti e in particolare i più bisognosi di cura, come evidenziato dall’articolo. Paradossale, ma non più di tanto, è che la sinistra, soprattutto quella radicale, si trovi a braccetto nel sostenere il primo a discapito del secondo. Forse sarebbe il caso che non si definissero più “socialisti” ma “complottisti”.