di Mauro Piras

 

Lo dico subito: questo è uno sfogo. Una reazione irritata a una serie di cose che abbiamo dovuto sentire in giro sulla scuola in queste settimane, nel pieno dell’emergenza. Una reazione ai luoghi comuni, alla pigrizia intellettuale, ai riflessi condizionati, o forse a una visione reazionaria della scuola talmente radicata nella cultura dell’italiano medio (del giornalista medio, del politico medio, dell’opinionista medio) che neanche ce ne rendiamo più conto. “È un 6 politico!”, “Se li promuoviamo tutti non c’è più serietà!”, “Così si deresponsabilizzano gli studenti!”, “Il lavoro dei docenti non ha più nessuna dignità!”, “Non ha più senso mettere i voti!”. Ecc. Tutto più o meno riassumibile nel sommo principio: “Signora mia, non c’è più la scuola di una volta!”. Cosa piuttosto commovente, a dire il vero, perché, a parte il caso ormai raro di qualche quasi ottuagenario brontolone, la maggior parte di questi spropositi viene pronunciata da gente come me, cinquantenni che hanno fatto la scuola degli anni ottanta, semisgangherata, che hanno fatto un esame di maturità superleggero, con due materie all’orale di cui una a scelta e l’altra pure, che non hanno mai vissuto sulla propria pelle un’emergenza di questo genere. Quindi quello che segue è un tentativo di tradurre in frasi leggibili la serie di contumelie e insulti che attraversano la mia mente quando leggo o sento quelle cose.

 

Primo, il “6 politico”. Che dire? Che non c’entra niente, che parlare di “6 politico” in questo contesto è solo sciatteria, approssimazione, pigrizia linguistica. L’espressione è venuta fuori appena si è iniziato a parlare di promuovere tutti. Intanto, promuovere tutti non vuol dire dare a tutti lo stesso voto, come vedremo dopo. Ma soprattutto, anche se questa promozione fosse una sorta di benedizione data a tutti gli studenti per chiudere quest’anno disastrato: ma che cosa c’entra il 6 politico? Il 6 politico è un’idea della contestazione studentesca, che aveva un chiaro significato politico (come dice appunto l’espressione): è l’idea che ogni valutazione è sbagliata, che va rifiutato qualsiasi voto, perché è classista e frutto del sistema sociale, cioè del dominio di classe; il voto serve solo a distinguere, secondo una borghese logica meritocratica che santifica i rapporti sociali esistenti. Quindi, l’unica è abolirlo. Ma non abolirlo e basta: abolirlo mettendo 6 a tutti, dando a tutti lo stesso ma il minimo. Niente bravi e scarsi. Niente primi e ultimi della classe.

 

Che cosa – c’entra – tutto – questo – con – l’emergenza – attuale? Niente. Lo ripeto: niente.

Promuovere tutti a causa di una emergenza che ha rischiato di far collassare il sistema scolastico italiano (che invece ha saputo reagire molto bene), o anche aiutare tutti a causa di questa emergenza non ha niente, ma proprio niente, di politico. È solo banale buon senso.

Se questa espressione serviva a dire che dobbiamo evitare di mettere tutti sullo stesso piano, usate un’altra espressione per favore (che so: “todos caballeros”). Ma fare questa osservazione è veramente fastidioso: infatti nessuno ha mai pensato di mettere tutti sullo stesso piano, e comunque, se ci mettiamo nelle condizioni degli studenti e di questa fine d’anno disastrata, bisogna anche pensare che vanno smussati gli angoli, che non possiamo impiccare tutti ai voti e alle gerarchie, già odiose. In ogni caso, anche quest’ultimo ragionamento, come quello sulle bocciature (su cui torno sotto) non ha veramente niente a che fare con il “6 politico” che, lo ripeto (mi vergogno di farlo), è un progetto “politico”, lo dice la parola.

 

E veniamo alla questione delle bocciature. Il governo ha annunciato che, a causa dell’emergenza, nessuno sarà bocciato: tutti promossi. Anzi, non il governo ma la ministra Azzolina: particolare non secondario. Perché la ministra è stata lasciata da sola in questa faccenda, nessuno dei suoi colleghi ministri, nessun Presidente del Consiglio si è fatto carico di sostenere e riprendere questa decisione, di richiamare all’ordine un’opinione pubblica scomposta che si è messa a sparare contro la ministra con ogni mezzo, calcando la mano su una persona più giovane, in apparenza più inesperta e, soprattutto, donna. Solidarietà totale alla ministra Azzolina, mi sia permesso di dirlo in questo sfogo in cui mi permetto di tutto.

Allora, le bocciature. All’annuncio del governo, e al decreto che lo ha confermato, si è scatenato il putiferio: “è una sanatoria”, “gli studenti non studieranno più”, “li stiamo deresponsabilizzando”, “il lavoro dei docenti così non ha nessuna dignità”. E così via. La cosa terribile, che fa perdere la lucidità, è che purtroppo alcune di queste cose, soprattutto le ultime, sono state dette anche da alcuni colleghi, da docenti che a quanto pare pensano che non sia possibile insegnare niente a nessuno senza lo spauracchio della bocciatura. Ma mordo il freno e cerco di mettere ordine nelle idee.

 

La bocciatura, cioè la ripetenza dell’intero anno, è molto controversa. Diversi studi affermano che è inutile e dannosa, perché non servirebbe davvero a recuperare gli apprendimenti e colpisce quasi sempre le classi sociali più deboli, oltre a essere un costo per le famiglie e per la società. Tuttavia, la cosa è controversa, appunto. Ci sono anche buone ragioni per difenderla: la necessità di seguire il ritmo di apprendimento delle persone, che non è uguale per tutti. Nella scuola democratica, se la bocciatura esiste, viene giustificata con un argomento del genere. Non ha più la funzione, che aveva una volta, di escludere dal sistema. Perché il sistema scolastico, se è democratico, è inclusivo.

Bene, in Italia la bocciatura esiste per queste ragioni. Deve quindi essere equa. Come può essere equa in queste condizioni? Come si può pensare di dire a un ragazzo: “beh, senti, qui il sistema scolastico è semi-collassato, noi da febbraio o marzo ti seguiamo alla meno peggio, però tu stai in campana: se eri insufficiente nel trimestre e se non recuperi studiando a casa in questa situazione improvvisata, noi ti bocciamo! O ti rimandiamo a settembre se ti va bene, dai. La scuola è una cosa seria! Se studi sarai promosso!”

Non riesco a trovare argomenti contro questa cosa perché mi sembra del tutto surreale. Ma il problema è che se anche la mia formulazione è caricaturale, il senso di chi vuole bocciare in queste condizioni è questo. Si dice cioè che se uno studia si vede anche in questa situazione, quindi chi non studia non può andare avanti.

 

Ma diciamola in modo più difendibile: si può dire, è stato detto, “c’è il problema di quelli che a settembre rientreranno in classe con gravi carenze, come facciamo a farli andare avanti?” È vero, c’è questo problema. Ma allora questa deve diventare una sfida: come tenere in classe studenti diversi con livelli diversi di apprendimento senza avere in mano questa arma di esclusione/selezione che si chiama bocciatura? È una sfida per la didattica, ma non è impossibile. Se solo imparassimo davvero a fare una didattica personalizzata, e non lasciassimo questa cosa unicamente alle Indicazioni ministeriali.

Insomma, bocciare è iniquo perché la scuola non può dare quello che deve, e quindi non si può chiedere agli studenti di dare esattamente quello che devono. Il patto formativo si è infranto per cause esterne, e va riformulato. Togliere la bocciatura, ma mantenere dei sistemi di valutazione e di recupero è il modo corretto di riformularlo, perché si evita l’effetto “todos caballeros”.

Poi ci sono quelli che hanno detto: certo, si sapeva che non avremmo potuto bocciare, ma non andava detto subito, andava detto all’ultimo momento, tipo il 9 giugno. Il ridicolo di questa posizioni si sovrappone all’indignazione per quella che espongo dopo (“senza la minaccia della bocciatura gli studenti non studiano”), ma mi limito al primo aspetto, per ora: quindi, se capisco bene, le regole del gioco non devono essere chiare, e non deve esserci lealtà e trasparenza nel rapporto tra scuole e studenti perché questi tendono solo a fregare, vogliono solo il voto e la promozione e quindi, essendo degli esseri privi di ogni autonomia intellettuale e morale, vanno trattati come dei bambinelli violenti e viziati. Una sorta di “ignobile menzogna”. Davvero possiamo pensare questo? Davvero vogliamo impostare la relazione didattica su questi principi? Mi fermo qui.

 

Ma veniamo al punto fondamentale, quello che fa più arrabbiare: “se non si può bocciare gli studenti non faranno più niente”, “i docenti non avranno più strumenti per farsi rispettare”, “ne va della dignità del lavoro degli insegnanti”. E infatti circolava quel meme odioso, con i due minions: sotto la scritta “tutti promossi per decreto” il minion “profe” e il minion “allievo”, e questo che se la ride e sbeffeggia il primo. Una cosa intollerabile, che mi ha fatto davvero infuriare (mettete pure la parolaccia), perché mediocre dal punto di vista di ogni vero insegnante. Questa è la cosa più grave, secondo me, perché parte dal presupposto che si possa insegnare solo usando la minaccia del voto e della bocciatura, altrimenti non si ottiene niente. Quello che fa arrabbiare qui non è la concezione deformata che viene data degli studenti, di cui ho già detto sopra: questa già basta, perché la realtà di una relazione è determinata da entrambe le parti, e se nella relazione didattica la parte più influente, quella del docente, imposta tutto sulla sfiducia, la relazione è già corrotta, e non per colpa dei discenti, per colpa del docente. Ma di questo ho già detto. Il problema più grave, qui, è la concezione della didattica che c’è dietro: l’insegnamento ha un solo obbiettivo, in questa concezione, verificare che i discenti abbiamo appreso, siano arrivati a dei “risultati”. E poi giudicare e selezionare, tra chi è arrivato ai risultati e chi no. In questa visione non c’è niente per un insegnamento fatto della condivisione di un comune ambiente di crescita e apprendimento; fatto del dialogo, della discussione e analisi comune dei problemi, della condivisione delle difficoltà, del confronto. Non c’è niente di una idea di apprendimento come crescita culturale e formazione, come acquisizione di competenze nella pratica quotidiana, pratica che è non solo del discente ma anche del docente, che procede per tentativi ed errori con il primo. Non c’è niente dell’idea che imparare, formarsi, farsi una cultura, acquisire delle competenze è anche frutto di un processo in cui si sta immersi, semplicemente, e che questo processo funziona anche se non si è sempre sotto la minaccia del voto e della bocciatura. Quello stesso tipo di esperienza culturale che noi tutti, pieni delle nostre letture, delle nostre visite ai musei, delle nostre conferenze, insomma della nostra cultura, conosciamo e pratichiamo sempre; ma a quanto pare questo apprendimento “per immersione”, nel processo, vale solo per i pochi privilegiati con cui ci identifichiamo, per gli uomini d’oro, non per gli iloti, non per gli uomini di bronzo e di ferro che sono i nostri studenti. Loro sono condannati a soffrire, a subire la scuola come una catena, come una costrizione fatta di minacce, voti e paura della bocciatura (o identificazione con la bocciatura, per i più sfigati), per i quali quindi è del tutto legittimo imbastire l’ignobile menzogna “vi possiamo bocciare anche se non possiamo”.

 

Chi non è d’accordo reagirà con il solito argomento pseudo-realista: “le tue sono illusioni, i ragazzi puntano solo al voto e alla promozione”. Questo argomento, apparentemente ovvio come ogni argomento realista, falsa invece la realtà. Primo, come ho già detto, siamo noi ad avere impostato una relazione didattica dominata da voti, verifiche, crediti e paura della bocciatura, quindi dire che i ragazzi sono così è solo una profezia che si auto-avvera. Secondo, parlare così vuol dire chiudere gli occhi di fronte a una parte enorme del nostro sistema scolastico che non funziona secondo questo schema comportamentista “stimolo-reazione”, cioè “minaccia-risultato”, ma funziona proprio nell’altro modo che ho descritto, cioè la scuola primaria, e anche buona parte della scuola secondaria di primo grado, poiché in entrambe si boccia poco o niente; e in realtà anche molta della secondaria di secondo grado, dato che davvero per molti docenti le cose non sono così, e non sono affatto spaventati all’idea che tutti verranno promossi. Terzo, se la scuola vuole essere democratica deve chiedersi una volta per tutte che cosa vuole fare: se vuole continuare a pesare come un incubo su molti studenti, o se vuole essere un processo comune di crescita e formazione. Infine, una cosa che molti insegnanti delle superiori avranno notato in questi giorni di didattica a distanza: ci sono studenti, di solito più fragili e introversi, che stanno meglio, lavorano meglio, proprio perché la gabbia si è allentata, inevitabilmente. E questo fenomeno dice molte cose su che tipo di clima si vive spesso in aula, nella relazione didattica.

 

(Firenze, 13 aprile 2020)

17 thoughts on “Di bocciature, voti e altre amenità

  1. Non insegno; riporto però un fatto, attingendo allo sfogo – credo del tutto legittimo – di una amica, docente qualificata e intelligente, oltre che apprezzata. Ella mi ha scritto, con estrema tristezza (non risentimento: tristezza, scoramento, percezione di fallimento personale), che i suoi studenti, dopo le poco opportune dichiarazioni del ministro Azzolina, si sono letteralmente dileguati, senza più frequentare le lezioni e gli incontri virtuali diligentemente organizzati e preparati dalla docente. Credo che un poco di realismo – mi permetta -, caro professor Piras (lei pure persona stimabile e docente – ne ho testimonianza diretta! – di grande levatura), non guasti.

  2. Ho avuto un’esperienza molto simile a quella del sig. Vecchio. Inoltre: la tesi che la promozione generalizzata (che probabilmente, sono d’accordo, era una scelta inevitabile) ridurrà il livello complessivo della preparazione non implica che si creda che tutti gli studenti diminuiranno il loro impegno, ma solo che una parte di loro lo farà, e questo direi che è abbastanza probabile che avvenga.

  3. Condivido quanto scritto dal collega Piras. Anch’io ho sperimentato gli effetti benefici dell’allentarsi della pressione sui soggetti più fragili e ansiosi, i quali sono moltissimi ormai. La scuola farebbe bene a interrogarsi su queste dinamiche proprio in questi momenti. Le lettere alla scuola scritte da diversi miei studenti pongono in luce tutte la stessa cosa: mancano le relazioni con i compagni, mancano i piccoli gesti quotidiani (addirittura la corsa a prendere l’autobus all’ultimo momento), manca l’aula, compresa la sua finestra rotta, ma non manca per nulla la routine di interrogazioni programmate e non, l’ansia di dover giustificare a casa il brutto voto, o il voto più basso del compagno. La scuola sta sempre più diventando per i nostri ragazzi un fattore patogeno e la responsabilità di ciò non può essere loro ascritta, perché hanno sulle spalle da sempre una tale pressione di attese e aspettative smodate che noi non abbiamo mai neppure supposto; mia madre e mio padre rimasero sgomenti quando dissi loro che avrei voluto fare il liceo classico, perché non sapevano se sarebbero riusciti a mantenermi anche per gli studi universitari: si sarebbero ampiamente accontentati di una figlia ragioniera o stenografa (all’epoca esisteva questa cosa della stenografia).
    Oggi invece i ragazzi, tutti, nessuno escluso, neppure quelli delle classi sociali più svantaggiate, sono educati ad un bisogno di autoaffermazione che non prevede il fallimento, che è animato da modelli surreali ed è molto competitivo.
    Dunque ha ragione Piras: siamo noi ad aver impostato quello che dovrebbe essere un dialogo educativo in un modo errato e se i ragazzi si curano solo del voto o della promozione è colpa nostra. Proprio quest’anno mi è capitata una classe di ragazzi bravissimi, ma davvero molto ansiosi e performativi, sempre attenti al voto e alla misurazione. Ho fatto a loro e, soprattutto, ai loro genitori un discorso molto chiaro: io non avrei più messo voti. Certamente ho continuato a valutare i ragazzi, perché è un mio compito precipuo in quanto insegnante, soprattutto far avere loro un feedback rispetto alla correttezza o meno del lavoro svolto, ma non mi sono affrettata a trascrivere sul registro ogni cosa: ho applicato la formula della valutazione formativa, che adesso, in tempi di DaD è l’unica possibile. Ho notato un netto miglioramento: alla performance per il voto si è sostituita la performance per condividere contenuti, dubbi, incertezze, passioni. La classe è diventata un laboratorio. Sto pensando di applicare in maniera stabile questa modalità. D’altronde una grande docente una volta mi ha raccontato che lei ogni anno entrando in classe diceva: “Allora ragazzi, vi dico subito che sarete tutti promossi con me. Ora cominciamo a lavorare.”
    Mi pare l’unica vera sfida degna di questo tempo.

  4. Sono una studentessa di quinta al liceo classico, e nemmeno tra le più diligenti.
    Questa nuova didattica mi ha permesso di studiare con ritimi più lenti, senza enormi ansie rispetto alle valutazioni, aggiungendo letture o visioni autonome (a volte consigliate, a volte no) per ampliare la mia conoscenza. Certo manca un contatto umano ancora più di prima. Già, non è che ci fosse un grande dialogo con i professori. Guardiamoci in faccia: è ovvio che in un sistema in cui l’obbiettivo è far imparare ad un tot di persone un tot di cose nel miglior modo possibile (e quindi possibilmente nel minor tempo) non si ha modo di avere un colloquio, specie se gli interlocutori sono più di uno o due.
    Per come è ora il sistema scolastico si basa su quanto uno studente sa, non tanto su come lo percepisce. Ad un esame di maturità quanto può importare che io abbia interiorizzato un autore X e lo abbia reso indelebile perché ha saputo dirmi qualcosa se poi so solo quello così bene? Quanto importa che un pittore mi abbia scosso nel profondo e mi abbia fatto vedere diversamente la realtà se poi non so elencare le caratteristiche di un’altra corrente?
    E questo non solo ad un esame importante come quelli di maturità o terza media, ma in qualsiasi verifica ed interrogazione: ciò che mi ha colpito del mio studio rimarrà sempre secondario a quanto io sappia ripeterlo a menadito, quanto io abbia assimilato concetti, dati. Come se uno studente fosse un computer che deve sempre fare i giusti collegamenti e avere se non tutte almeno i tre quarti di tutte le informazioni che gli vengono riversate dentro. A nessuno dei miei professori importa davvero se Montale od Orwell, Picasso o Renoir mi piacciano o meno per motivi anche complessi e legati ad approfondimenti personali, non tanto quanto gli importi che io sappia loro dire ciò che mi hanno spiegato nel modo più completo e chiaro possibile.
    È semplicemente così che funziona: l’individuo viene identificato principalmente con dei numeri, delle valutazioni più o meno positive a seconda di quanto sia enciclopedico il suo sapere. L’individuo, vedendo che la propria espressione personale viene non dico sminuita ma accantonata, ovviamente diventa meno aperto al sapere, meno motivato ad imparare per sé e non per altri o per una votazione.

  5. (molto d’accordo con M. Piras, se permettete intervengo con un capitolo dal libro LAC. Lezioni di armonia nel caos)

    Rivoluzione?

    Gli eventi narrati contribuirono tutti a produrre profonde trasformazioni nella vita del liceo. Arrivò infine il momento in cui si fece pressante la necessità di un cambiamento. Quell’anno la scuola aveva bocciato (altre parole non esistono, per dirlo) o visto ritirarsi una quota importante degli studenti, specie del primo anno. Non immediatamente, ma entro breve tempo l’impatto di quei risultati provocò dibattiti e discussioni anche accese. Riuniti in collegio, oppure nei dipartimenti delle varie discipline, gli insegnanti cominciarono a cercare soluzioni per una situazione tutt’altro che ideale.
    Intanto anche gli studenti si erano mobilitati. Riunito il comitato loro e poi l’assemblea, discussero a lungo, arrivando a comporre un documento (contenente alcune richieste, e soprattutto l’invito a rivedere assieme la forma generale della vita scolastica) indirizzato al corpo docente e alla dirigenza. Il documento iniziava con un solenne preambolo (essendo studenti, non faticarono a trovare un modello adatto) :

    Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo di studenti trasformi i legami che lo hanno vincolato alla propria scuola e assuma agli occhi del mondo lo stato di potenza consapevole e uguale a cui le Leggi della Natura e della Società gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità (e dei genitori…) richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla mobilitazione.
    Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutte le donne e gli uomini, le ragazze e i ragazzi sono creati eguali; che essi sono dal Creatore (per chi ci crede, beninteso) e comunque dalla società e natura dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita (diritto che qui diamo abbastanza per acquisito, d’accordo…), la Libertà, e il perseguimento della Felicità;

    che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli adulti e i ragazzi accordi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei soggetti coinvolti; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo della scuola tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di opporsi e chiedere che si istituisca un nuovo governo fondato su tali principi, definendone i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Formazione, la sua Prosperità e Felicità.

    Seguiva l’elenco delle proposte (riguardanti gli orari, la gestione delle verifiche, la durata delle pause di ricreazione, e altro). In coda all’elenco, proprio in fondo alla pagina qualcuno, rimasto anonimo, aggiunse con la biro la seguente richiesta:

    E per favore, smettete di assillarci con questo benedetto esame, smettete di ripeterci “studiate per l’esame, preparatevi per l’esame…”, come se non ci fosse altro al mondo! È come dire “studiate perché la scuola vi chiede di farlo”: ma che significa? È piuttosto povero come argomento, non vi sembra?

    Il documento terminava invitando gli studenti a una prima fase di mobilitazione, mirante a sottolineare l’urgenza del cambiamento. La mobilitazione, che non intendeva ostacolare lo svolgimento delle lezioni, consisteva in questo: si procedeva alla diffusione nei locali della scuola di volantini e manifesti contenenti testi scelti, ad esempio poesie e brevi parti di saggi e opere letterarie; più altri creati dagli stessi studenti. A questi si aggiunse la pubblicazione di testi giocosi, ad esempio manifesti annuncianti fantasiosi incontri e dibattiti. Inoltre, gruppi di studenti passavano nelle aule, in momenti prestabiliti, per leggere i medesimi volantini e manifesti. Solo questo: ma bastava già per cambiare l’atmosfera percepita nella scuola: era un po’ come quando si spalancano porte e finestre per fare entrare cielo, vento e rondini in volo in un ambiente a lungo rimasto chiuso. Anche i bidelli (si chiamavano ancora così) parteciparono al movimento generale: nacque in quel periodo la consuetudine, tuttora viva, di trascrivere brevi testi e parti di poesie su una lavagna all’ingresso della sede centrale del liceo.
    A titolo di esempio, tra i testi scelti dagli studenti delle varie sedi ecco dei versi, di Amelia Rosselli:

    Poi nella gamba si chiude l’uscio e l’uscio sbarazza
    i resti e il gorgo interno chiama chiama. Un altro
    giorno ancora rifaremo, la fame, l’orologio puntato
    sulle emicranie e partiremo infami, una terra
    promessa e poi scordata la tua fame.

    Non deve cadere in frantumi
    è peccato di paura
    osservi galleggiare la brace
    nella cristallina indecenza del vero
    pattuita col diavolo
    raro servizio reso al caso
    tendersi tra due anime disertate

    Eccone altri, di Patrizia Cavalli:

    Cuore alzato, scoperto, evaporato
    o forse trasferito in zone lasche,
    periferie in disuso, forse diffuso
    troppo nel nord troppo nel sud, scoppiato,
    parti che volano e altre che precipitano,
    come bambino piccolo che aspetta,
    cuore che sale svelto alla pedana
    che si raccoglie in alto per il tuffo,
    chiara felicità davvero umana.

    Oppure, un brano dell’Antigone di J. Anouilh. Antigone, nata dagli amori incestuosi di Edipo e Giocasta, parla a Creonte, suo zio:

    Mi disgustate tutti, con la vostra felicità! Con la vostra vita che bisogna amare a ogni costo. Verrebbe fatto di pensare a dei cani che leccano tutto quello che trovano. E quella piccola occasione di tutti i giorni, se non si è troppo esigenti. Io voglio tutto, subito – e che sia tutto intero, altrimenti mi rifiuto! Non voglio essere modesta, io, e accontentarmi di un pezzettino se sono stata brava. Oggi voglio essere sicura di tutto, e che sia bello come quando ero piccola – oppure morire.

    Ed ecco un estratto da uno dei meravigliosi racconti della canadese Alice Munro:

    …E ho pensato, queste cose non sembrano tanto la vita mentre le fai, sono semplicemente le cose che fai, il modo in cui riempi le giornate, e intanto continui a ripeterti che prima o poi si aprirà una breccia e a quel punto, solo a quel punto, ti ritroverai nella vita vera. Non è nemmeno che tu non veda l’ora che succeda, la breccia intendo, ti va abbastanza bene così com’è, ma di sicuro te l’aspetti. E tutto a un tratto stai morendo, mamma sta morendo, e ci sono sempre le stesse sedie di plastica e le stesse piante di plastica e la stessa giornata qualsiasi fuori con la gente che va a fare la spesa e quello che hai fatto fin qui è tutto il tuo avere, e andare in biblioteca, una semplice cosa del genere, e tornare con l’autobus su per la salita con i libri e il sacchetto dell’uva sembra, Dio mio, talmente desiderabile che ti si schianta il cuore tanto vorresti tornare ad averlo.

    L’originale mobilitazione studentesca andava avanti da una settimana quando si riunì il collegio dei docenti. All’ordine del giorno era la discussione sulla situazione della scuola. Tra i primi a esprimersi fu Elettra B., docente di teorie e pratiche dell’avanguardia nell’arte.
    Vedere così tanti studenti delle prime classi rimandati a casa, disse riferendosi agli scrutini, è troppo. C’è qualcosa, anzi più di qualcosa, che non va. Espose il suo punto di vista: la scuola aveva di fatto agito da ingranaggio, parte integrante del gigantesco meccanismo di selezione delle persone messo costantemente in opera dalla società. Aveva agito confermando e ratificando sentenze sul destino sociale dei ragazzi emesse altrove. Forse le sentenze non erano ancora definitive: ma con la sua azione la scuola non faceva nulla per opporsi e cambiarle, anzi: le assecondava e confermava. La società produceva allora come in passato differenze tra le persone, che non di rado si traducevano in sofferenze e disagio, in condizioni di vita anche percepite come ingiuste. Oggi, anzi, i segnali del disagio paiono essere in aumento, e sembrano inscritti nel vissuto di tanti ragazzi, che con le loro private e soggettive difficoltà mostrano la misura reale dei guasti, della confusione e delle storture della vita collettiva.
    Secondo Elettra B. era come se la società avesse indicato gli studenti, in particolare i nuovi iscritti, dicendo: questo, quello e quell’altro stanno indietro. E la scuola, dopo averli accolti, alla fine dell’anno aveva in pratica risposto: sì, questo, quello e quell’altro stanno indietro. In altre parole, il liceo aveva rimandato a casa esattamente quelle persone che si trovavano in maggiore difficoltà (per motivi che potevano certo venire analizzati, caso per caso). Il che era praticamente il contrario di quel che l’istituzione scolastica dovrebbe fare: tra le altre cose, proprio prendersi cura di chi appare più debole. Cifre così alte non permettevano altre letture: i numeri erano troppo eloquenti. Il liceo aveva agito da scuola duramente selettiva. Quanto ai docenti, in quella situazione rischiavano di diventare i passivi (e inevitabilmente tristi) contabili del disagio culturale, sociale, umano del momento.
    Per commentare il significato di quei numeri, la professoressa B. disse che si potevano considerare i fatti allo stesso modo in cui, in certe scene dei film, si produce un mutamento della visione grazie ai movimenti della camera. La macchina da presa segue dapprincipio i personaggi stando alla loro altezza, al livello del suolo; poi si allontana e al contempo sale, si solleva fino a inquadrare dall’alto una scena allargata, nella quale i personaggi sono solo parte del contesto, e quella che si offre allo sguardo è una visione più ampia dell’ambiente in cui essi operano. Si ha insomma una visione globale della situazione. Allo stesso modo, quando consideriamo i dati degli scrutini al livello “terra” noi vediamo, e consideriamo centrali, le motivazioni delle singole scelte: lo studente x è stato bocciato perché ha fatto troppe assenze, quell’altro perché in più casi gli si è dato un 4 che in realtà era un 3, e come si fa a mandarlo avanti? Quell’altra ancora si è sottratta alle verifiche malgrado ogni invito e richiamo, e come si fa a promuoverla? E così via.
    Ma, proseguì l’insegnante, tutte le ragioni addotte per le decisioni prese sfumano, perdono peso e assumono un altro significato quando il nostro sguardo si sposta verso l’alto, mirando alla visione d’insieme piuttosto che ai singoli elementi del quadro. Quel che si vede allora è la vera struttura delle cose, che oltrepassa e pone in una luce nuova le singole scelte e azioni, spiegazioni e interpretazioni di insegnanti e consigli di classe. E quella struttura, nel caso specifico della nostra scuola, ci offre un dato preciso: tanti studenti rimandati a casa. Troppi. Proprio quelli che andrebbero maggiormente aiutati. Questo è il significato reale e collettivo, sociale ma più ancora umano di quanto abbiamo fatto. Se restiamo al livello “terra”, ossia al livello delle spiegazioni dei singoli fatti, delle vicende individuali, perdiamo la visione complessiva, e non capiamo davvero quel che sta succedendo: è come se fossimo miopi. E di questa miopia ci siamo fin troppo spesso accontentati: perché è per noi più comoda. Dobbiamo invece dimostrarci capaci di raggiungere una comprensione migliore delle cose. Dobbiamo cambiare i modi di fare e pensare la scuola.
    Intervenne poi il professor Oreste O., che nella sezione musicale del liceo insegnava la scala di FA diesis minore (della quale era considerato uno tra i massimi esperti nazionali, se non mondiali). Dichiarandosi d’accordo con la collega azzardò una similitudine: è come se un governo decidesse di far fronte alla difficile gestione della sanità pubblica riducendo le spese: ma togliendo l’assistenza sanitaria proprio ai più poveri, ossia ai più deboli. Azione in sostanza analoga era stata secondo lui compiuta dalla scuola. Che ha come compito, certamente, quello di valorizzare talenti e capacità individuali; ma che può, deve occuparsi di chi procede con passo più lento. La scuola non può lasciare indietro nessuno, e nessuno deve respingere, concluse.
    Approvate, criticate o decisamente respinte, queste e altre idee sulla situazione del liceo animarono il lungo dibattito. Ma insomma a che “serve” la scuola?, ci si domandava. Non tardò la risposta, suggerita da più voci: La scuola esiste per prendersi cura delle persone. E sempre per lo stesso motivo esistono e lavorano in essa gli insegnanti. Ogni altra finalità e ragione risulta rispetto a questa derivata, secondaria. Considerato alla luce di questo principio fondamentale il dato degli scrutini ultimi chiamava tutti a una reazione. Qualcosa si doveva fare.
    Tanto si parlò e discusse che il collegio durò come mai nessun altro: e là, stanchi delle interminabili chiacchiere, stufi di se medesimi e più ancora dell’inerzia eterna delle cose, trattenendosi ben oltre confine tra il giorno che finiva e la notte che avanzava i professori risolsero (a grande, anche sorprendente maggioranza) di agire al modo degli eletti dell’Assemblea francese nell’agosto del 1789: decisero di cambiare drasticamente tutto, eliminando innanzitutto il vecchio, certi che nello spazio d’azione così aperto avrebbero ben potuto edificare il nuovo. Così, per cominciare vennero abolite le bocciature: riprendendo una proposta avanzata dalla dirigente anni prima, i respingimenti vennero trasformati in ammissioni alla classe successiva, con annesso un percorso guidato di recupero delle lacune (allora ci si esprimeva così) palesate dagli studenti. Nessuno più sarebbe stato rimandato a casa: il liceo avrebbe fatto il possibile per accompagnare tutti fino alla maturità. Inevitabilmente, come il frammento di roccia che comincia a rotolare giù per un pendio ne trascina altri, simile idea produsse i suoi effetti: così, presto venne decretata l’abolizione dei voti, delle griglie di valutazione, dei molti e complicati criteri adottati fin lì per valutare le prestazioni dei discenti (come sopra). Via anche l’anacronistica e ottusa regola del voto di condotta. E basta, finalmente, con la dittatura dei programmi.
    Naturalmente non si impose nulla a nessuno: sarebbe stato contrario allo spirito della riforma. Rispettando il punto di vista di alcuni insegnanti, che non si sentivano pronti per un immediato cambiamento e preferivano ancora tradurre le proprie valutazioni in numeri, si lasciò aperta la possibilità di conservare, in via sperimentale e con l’accordo delle classi interessate, la pratica dei voti relativi alle singole discipline. Ma la grande maggioranza dei docenti si dichiarò pronta a cambiare.
    In sintesi, come ebbe a dire qualcuno: basta col sistema, anzi col regime di punizioni e premi su cui si regge oggi la scuola. È anacronistico e sbagliato, è antipedagogico, è molte cose, molte delle quali davvero negative per gli studenti e per noi.
    Verso le dieci e un quarto della sera venne approvata un’ultima proposta, che implicava la trasformazione dei modi di far lezione. Si stabilì che ogni dipartimento disciplinare avrebbe avuto le sue aule, nelle quali si sarebbero alternati i docenti, ciascuno dei quali avrebbe dedicato il suo talento e le sue conoscenze alla proposizione di uno specifico indirizzo di ricerca e insegnamento, all’interno del corpus – da lì in poi decisamente meno rigido – di insegnamenti comuni (i pesanti, famigerati “programmi”).
    Quanto agli studenti, essi avrebbero seguito sequenze prestabilite di lezioni, in particolare nelle discipline di indirizzo. Ma avrebbero avuto possibilità di scelta nel seguire altri corsi, tra quelli proposti dalla scuola e altri eventualmente istituiti su richiesta. Infine, per soddisfare l’esigenza di una quantità, nonché qualità, comune e diffusa di insegnamenti impartiti, si sarebbero ciclicamente attivate sequenze di giornate dedicate al recupero di contenuti nelle diverse discipline. Con l’aiuto dei docenti ogni studente avrebbe composto un proprio percorso di formazione, trascorrendo il tempo a scuola nel segno di una maggiore libertà e flessibilità di scelte e azioni: spostandosi, ad esempio, da un’aula all’altra per seguire i vari corsi. Le lezioni sarebbero state programmate in modo tale da consentire delle pause; si sarebbero creati spazi di studio, ricreazione e per lo svolgimento di attività varie in comune. Inoltre si decise di aprire la scuola anche al pomeriggio, per seminari, laboratori, attività di gruppo, ecc. E si aprì il liceo all’introduzione di altri insegnamenti, oltre a quelli canonici, con corsi e seminari anche tenuti da esperti esterni alla scuola, e attività quali danza, musica, corsi di tecniche del corpo, e altro.
    Insomma, nell’insieme si trattava di una completa revisione della forma stessa del fare scuola. Si sperava che il liceo arrivasse a somigliare sempre più a quel che la scuola dovrebbe essere sempre: un luogo nel quale si imparano le cose sperimentando, con un degno livello di libertà e partecipazione di tutti; un luogo in cui si confermano, inventano, ricreano e sostengono con crescente efficacia e consapevolezza alcune fondamentali pratiche del vivere comune. Un luogo, soprattutto, dove poter stare con piacere, dedicandosi liberamente alla ricerca che nella vita umana può considerarsi legittima più di tutte: la ricerca della gioia, e con essa della verità.
    La sperimentazione venne avviata già quell’anno, in primavera, con un pizzico di caos – metà giocoso e metà inquieto – e un primo accumulo di esperienze da vagliare.
    Nel successivo anno scolastico la riforma divenne pienamente operativa e, con meraviglia di non pochi critici e scettici, riuscì a conquistare tutti. Non mancarono (specie all’inizio) fatiche e impacci, non mancarono aggiustamenti continui, con il corredo di discussioni e ripensamenti. Ma funzionava. Non era né poteva essere la soluzione di ogni problema, non trasformò la scuola in un paradiso in terra, ma la riforma ebbe il merito di liberare la vita di adulti e ragazzi da sovrastrutture ingannevoli e inutili, riformulando le relazioni nel giusto grado di libertà di entrambe le parti, e riducendo da subito e notevolmente il livello di conflittualità prima cronicamente presente. Senza punizioni e premi non era più possibile fingere, e neppure avevano più senso i comportamenti viziati e falsi che in quel regime avevano prosperato. Una volta usciti da quella gabbia normativa e mentale, le persone si domandavano persino: ma come abbiamo fatto a vivere in quel modo per tutti questi anni?
    Tutto divenne più semplice, certo umanamente imperfetto ma chiaro. Insegnanti che, per tenere una lezione sulla pittura rinascimentale, sulla letteratura inglese moderna o su cento altri temi, avevano fino a quel momento faticato per guadagnare il minimo sindacale di attenzione delle classi (anche affrontando la cupa visione degli sguardi assenti dei ragazzi: esperienza temuta, ben nota a qualunque docente, deprimente oltre ogni dire anche per il più cinico dei prof), si trovarono non di rado a parlare in aule affollate, con studenti che seguivano anche in piedi la lezione non più subita, ma che avevano scelto: come parte di un percorso di studi da essi stessi privilegiato.
    E non pochi tra gli insegnanti si trovarono a reinventare il proprio modo di stare a scuola, lasciando da parte la routine e scoprendosi nuovamente portatori e testimoni di un sapere vivo, non più trascinato qua e là come fosse materiale inerte, stanco oggetto di stanca routine: si ritrovavano lieti di parlare di ciò che sapevano (e amavano, persino: non era affatto male, riscoprirlo) a persone assai più attente: come disse un insegnante di storia e cultura della scienza, i ragazzi partecipavano, ascoltavano davvero. Grazie al contributo degli studenti diventava più facile rinnovare l’antica lezione, rendendola più interessante e viva. Il deciso snellimento e svecchiamento dei programmi migliorò nettamente il livello della partecipazione: gli insegnanti e gli studenti, ad esempio, dedicarono molto più tempo a ciò che più premeva a tutti, ossia la conoscenza del mondo contemporaneo, anziché all’ennesima ricapitolazione dello scibile umano. Processi sociali e culturali globali, ecologia e visioni alternative del mondo, modelli economici e sociali e stili di vita, fame e miserie e conflitti planetari, bellezze e guasti, invenzioni e utopie, tendenze e movimenti del vivere del presente: di questo e di molto altro ancora ci si occupava, finalmente con la giusta attenzione. Ci si occupava della condizione umana, dei modi di essere ed esistere delle persone, di tutti: giovani e meno giovani.
    Anche gli studenti si confrontarono con la nuova realtà: semplicemente, non dovevano più studiare per il voto. L’inerzia di alcuni, abituati se non proprio condizionati da anni ad agire sotto costrizione, non poteva durare. Si doveva decidere che fare; e anche coloro che inizialmente contavano di dormire su due guanciali, approfittando della situazione per stare a scuola senza nulla fare, nulla imparando e in nulla cambiando, non poterono più ignorare la più semplice delle verità, quella che il sistema precedente aiutava a occultare dietro uno schermo di relazioni problematiche o persino malsane: se danno procuravano agendo in tal modo, era solo a se stessi.
    Molte cose cambiarono, dunque; e il senso del cambiamento venne riassunto, verso la fine di quell’anno, da Valeria P.: Abbiamo visto quale direzione seguire, da che parte andare. Forse non possiamo cambiare subito il mondo intorno, ma possiamo migliorare la vita dentro la scuola. Sappiamo che la libertà ha i suoi disagi e affanni, i suoi passaggi a vuoto; ma la limitazione della libertà è sempre molto più dannosa, per tutti. Lo sappiamo: e non torneremo più indietro.

  6. Mauro Piras ha ragione su tutto.
    Mi permetto, però, di non assolvere affatto la ministra Azzolina: in conferenza stampa è stata la prima a liquidare il sei politico come “una categoria vetusta” ignorandone la portata storica e, appunto, politica (per tacere della vergognosa gestione delle graduatorie provinciali che non c’entra ma forse sì, perché per un eterno precario è talvolta più difficile costruire con la classe un rapporto che permetta di archiviare per sempre – questa sì “categoria vetusta” – la minaccia del voto e lo spauracchio della bocciatura).

  7. Rispondo al signor Luca. Le posso dire: non insegno. Ciò che ho scritto è attinto alla testimonianza di una docente molto qualificata, giovane, attiva, intelligente, la quale ha percepito come una sconfitta personale (ad attestare, ciò, la sua preparazione e il suo coinvolgimento emotivo, a livello professionale) la fuga, letteralmente, di molti studenti dopo le improvvide dichiarazioni del ministro Azzolina. Posso concordare con le tesi di Mauro Piras; tuttavia mi paiono, mi perdonerà lui e coloro che con lui concordano, un poco eccessivamente speranzose.

  8. Concordo, in generale, sulle osservazioni di M. Pieas. E penso che un docente abbia il compito di motivare gli studenti a prescindere dai voti.
    Questo significa “formare”. Il punto è che oggi la scuola si esaurisce nei voti: lo scrutinio è l’atto sacro. Ogni formazione sfocia in emissione di numeri: è questo il limite del sistema istruzione. I voti andrebbero aboliti: demotivano se sono bassi, rendono scioccamente competitivi gli studenti con il falso mito della meritocrazia, versione ipocritamente corretta del darwinismo sociale. E molti insegnanti assecondano questa prospettiva, purtroppo.
    La scuola deve educare persone e non addestrare lottatori in competizione per la vittoria. “Può educare solo chi sa che cosa significa amare”, diceva Pasolini. I docenti spesso lo dimenticano.

  9. Grazie. Concordo appieno sulla logica necessaria della personalizzazione didattica e della sfida che la disomogeneità di una classe con promossi e “salvati” rappresente per il docente (in primis) e per la scuola in generale. Mi dico anche che, purtroppo, la vita successiva alla scuola cambia improvvisamente i parametri. Nessuno nel mondo del lavoro “entra nei panni” del singolo lavoratore e questo si traduce in un disadattamento per non pochi. Dall’alveo della comprensione didattica all’assenza di comprensione del lavoro. E, proprio in questo, la scuola rigida e sanzionatrice assolveva il compito di maestra di vita. Altro aspetto è la deresponsabilizzazione che induce la perdita del compito di sapersi autogestire per raggiungere un risultato. Vedo che all’università si tende a prolungare l’atteggiamento del liceo con compitini e verifiche frequenti prima dell’esame. Non so se questo aiuta o meno. Quindi, concordo ma con una piccola riserva e ti ringrazio delle cose trasmessemi.

  10. Ciao Mauro, ho letto con interesse il tuo articolo. Io sono di quelli che tu annoveri essere piombato nel luogo comune, nella pigrizia intellettuale, nel determinismo, nell’oblio reazionario dell’italiano medio.
    Spero di non essere troppo molesto se intervengo in questo dibattito d’élite.
    Io, ovviamente da “uomo medio” (in questo momento vesto dignitosamente gli abiti di Fantozzi), penso che quello della nostra ministra, che è la voce del nostro Ministero della Pubblica Istruzione, sia stato un intervento improvvido in quanto, citando un concetto di Padtberg e Greiner, “elicotteristico” nei confronti degli studenti e svilente nei confronti di noi insegnanti. Penso che la ministra, arrivando con gli estintori a placare e sanare qualsiasi sentimento di incertezza dei nostri allievi e mettendo fine così all’attesa “insostenibile” di un incerto domani, sia stata profondamente diseducativa, così come quando a fare gli “elicotteri” sono molti dei genitori dei nostri allievi, che noi tanto critichiamo quando parano tutti i venti contrari che potrebbero scalfire le piccole imbarcazioni che credono siano i loro figli.
    Penso che non ci fosse nessun motivo per annunciare con due mesi di anticipo che si sarebbe stati tutti promossi, tanto più dopo aver fatto i salti mortali e attivato, alcuni di noi già dai primi di marzo, ed adesso quasi tutti, la didattica a distanza con video lezioni, compiti e approfondimenti, con una bellissima e orgogliosa partecipazione da parte degli studenti. Questa promozione la sento come una nota stonata davvero.
    Poi, tra l’altro, i nostri allievi non hanno chiesto nulla, anzi, hanno accettato con gratitudine e collaborazione totale tutto quello che fino ad oggi abbiamo proposto loro (in alcuni casi fin troppo), con i nostri tempi e le nostre modalità. Non ci hanno chiesto niente e sono convinto che non lo hanno fatto perché sapere se sarebbero stati promossi tutti oppure no non era una loro priorità. Magistralmente però noi adulti siamo riusciti ora a far percepire un problema (la promozione) che la maggior parte di loro non aveva e, se alcuni lo avevano, beh non è che fosse poi un problema così grave. E forse siamo riusciti a far sì che questo problema (ora che glielo abbiamo dato e risolto allo stesso tempo) loro ora lo sentano davvero come proprio, come nato in loro e da loro, quando in realtà è nostro, nato in noi e da noi.
    Il sottotesto di questa promozione a pioggia elargita il 6 di aprile è questo: voi studenti siete nulla impastato con niente, non contate nulla, siete pacchi col fiocco… che noi vogliamo rigorosamente vuoti, ma quieti e silenziosi. E per noi insegnanti che abbiamo avuto la sorpresa di Pasqua è stata qualcosa tipo una pernacchia con risata beffarda.
    Innegabile, Mauro, che alcuni dei nostri studenti, checché se ne dica, soprattutto quelli del primo biennio delle superiori, del ciclo delle medie e delle elementari, sapendo di essere già promossi perderanno la motivazione e la costanza finora dimostrata e forse passeranno i prossimi due mesi di attività didattica svogliatamente, senza impegnarsi.
    Come negare questo?
    E ciò non dipende dal fatto che la promozione o la bocciatura rappresenti l’unica motivazione per andare avanti: promozione o bocciatura rappresentano invece un obiettivo da raggiungere un traguardo come tanti che gli uomini di buona volontà si pongono per dare il massimo e vivere intensamente la propria vita. E poi, come poter pensare di bocciare qualcuno in queste circostanze? Dai su, andiamo, non è possibile…
    Insomma, a mio avviso non sarebbe costato nulla comunicare la promotio plenaria a fine maggio… ma la nostra propensione elicotteristica, piaga di questi tempi, ha avuto la meglio sulle nostre coscienze liquide e precarie.
    Ecco perché invito gli studenti tutti a non demordere, perché la strada che hanno di fronte è difficile, ma ce la faranno, e ce la faranno tanto più accorgendosi dei salvataggi farlocchi che l’adulto gli cala dall’alto e percependo che, così facendo, l’adulto sta cercando in realtà di salvare se stesso, non loro.
    E li invito ad essere presenti a loro stessi conservando il più possibile la purezza della loro anima; li invito alla pazienza e ad accogliere queste circostanze, così contraddittorie e così incomprensibili, come prove di vita.
    Con devozione e sottomissione.
    Rag. Ugo

  11. Concordo con il signor Alessio. Ribadisco: non insegno. Tuttavia mi permetto di rivendicare che sì, l’atto educativo è essenzialmente atto d’amore – come ricorda opportunamente la signora Teresa -, ma pure che gli insegnanti hanno necessità morale di essere rispettati e di essere ritenuti essenziali per le dinamiche di una nazione. Se la scuola funzionasse – mi vorrei collegare pur a latere con le argomentazioni del signor Alessandro – anche il mondo del lavoro, cinico e brutale (parlo da persona autistica), potrebbe, a livello etico, giovarsene. Probabilmente manca, nella scuola odierna, la reciprocità fiduciaria – tra allievi e docenti, tra docenti e genitori, tra presidi e docenti, tra presidi e genitori (e, non da ultimo, tra genitori e figli…, orizzonte problematico) etc. -; reciprocità resa impossibile dal distruttivo processo di aziendalizzazione che ha coinvolto la scuola negli ultimi vent’anni. Processo che, peraltro, ha coinvolto, di pari passo, anche la sanità: con i risultati, disastrosi, che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Sanità che si salva per la buona volontà dei singoli, va doverosamente aggiunto.

  12. Ottimo articolo, Mauro. Io aggiungerei due seguenti osservazioni: la prima è che bisogna evidenziare che il tuo discorso non deve essere inteso come “il perno su cui deve basarsi la scuola è l’assenza di bocciature, altrimenti si baserebbe sulla bocciatura”. Mi sono documentato sulla struttura REALE della scuola nei paesi in cui spesso si dice che è assente la bocciatura e ho notato che quei sistemi scolastici funzionano su presupposti TOTALMENTE diversi dal nostro. Il principio primo su cui si fondano vari paesi del Nord Europa è il seguente: investire affinché tutti gli studenti entro un certo tempo possano raggiungere dignitosi e significativi obiettivi formativi. Di conseguenza investono e non poco per fornire ai bambini e ragazzi più deboli maggiori risorse, ovvero corsi di recupero pomeridiani intensivi e continuativi, insegnanti aggiuntivi in classe e fuori classe, attività specifiche, etc. In quei paesi peraltro vige un serissimo patto formativo con le famiglie per cui queste ultime si affidano in tutto e per tutto alla professionalità dei docenti, che sono sempre rispettati e riveriti. Lì chi non è in grado di rispettare questi input basilari non viene lasciato fare quello che gli pare, non esiste permissivismo, lassismo e buonismo, né socialmente, né scolasticamente. Certo, anche loro hanno percentuali di chi non ce la fa a raggiungere certi obiettivi, ma sono percentuali piccole ma non certificano in quel caso il raggiungimento degli obiettivi se questi non sono stati raggiunti! Dunque è falso dire che in quei paesi la bocciatura in tutte le materie sia stata bandita e non si sia cambiato altro, vi si ricorre solo nei pochissimi casi in cui ci sono gli studenti più difficili e in extremis perché mettono in campo altri interventi di recupero, ben più costosi e impegnativi, ma anche più efficienti ed inclusivi evidentemente.

    Dunque questo mio primo discorso porta già alla seconda osservazione che secondo me fa comprendere il motivo delle tesi dei docenti contrari alla tua opinione: le componenti d’obbligo e di spauracchio legate alla bocciatura dovrebbero avere sempre meno valore man mano che il ragazzo viene responsabilizzato di più e a questo le famiglie dovrebbero collaborare molto, molto, molto. Occorre un patto educativo tra scuola e famiglie in cui non solo i docenti ma anche le famiglie e gli studenti debbano avere certe responsabilità chiare, naturalmente considerando le capacità di rispettarle che ciascuna parte possiede.

    La mia impressione è che negli ultimi decenni si siano spostate fin troppe responsabilità dalle famiglie e studenti ai docenti e questi ultimi spesso non hanno neanche i mezzi necessari per rispettarle. Penso a tutte le discussioni sugli incidenti degli studenti a scuola, in cui i docenti viene in pratica devono rispondere con la responsabilità oggettiva, ovvero sono responsabili di questi incidenti compiuti dagli studenti anche se i docenti hanno fatto tutto il possibile per evitarli. Sarebbe buona cosa inoltre accrescere sempre più le responsabilità degli studenti man mano che crescono.

    Ho notato che effettivamente l’Italia sembra un paese dove le famiglie crescono i figli molto più da “mammoni” di tanti altri paesi e questo non è dovuto solo col fatto che da noi è più difficile trovare lavoro. Parlando con persone che sono state a lungo in paesi del nord Europa come la Danimarca e simili ho saputo di cose come asili senza obbligo di “riposino quotidiano” e che danno mense con posate vere, coltelli compresi. Questo discorso vale sia per la scuola che per la famiglia: a 5 anni già fanno lavori di giardinaggio e di cucina, anche con coltelli più grandi di loro e a partire da 9 anni in famiglia ogni figlio, sia maschio che femmina, cucina da solo per tutti una volta alla settimana. Poi ci sono leggi che permettono a 14 anni di fare piccoli lavoretti con soldi retribuiti (e il fatto che siano retribuiti e non volontariato gratuito è fondamentale per comprendere il valore del denaro) come distribuire giornali e riviste nelle cassette postali e anche lavorare in negozi e bar per al massimo una decina di ore a settimana durante la scuola. Certo, in quei paesi del nord Europa i ragazzi percepiscono soldi dal comune dalla nascita ai 18 anni, ma effettivamente sembra che esista da quelle parti una cultura molto più forte del responsabilizzare bambini e ragazzini.

    La cosa notevole è che questa responsabilizzazione dei ragazzi fin da piccoli sembra che fosse esistita anche in Italia qualche decennio fa ma poi è effettivamente diminuita di molto. Ancora oggi la legge italiana ritiene così maturi i 14enni che permette a loro di guidare motorini, di viaggiare da soli all’estero, di iscriversi a partiti politici, di essere solo loro stessi a scegliere se fare o no l’ora di religione o altre attività religiose, anche contro il consenso dei genitori e infine di avere un minimo di responsabilità penale tanto che possono andare anche in carcere minorile. Quando io ho chiesto a un docente perché i ragazzi dovrebbero avere così tante responsabilità per legge già a 14 anni e contemporaneamente avere bisogno di “spauracchi ed obblighi” come unico stimolo per migliorarsi questo docente mi ha risposto “Ma infatti secondo me un 14enne non è abbastanza maturo per guidare motorini o poter finire in carcere, dovrebbero togliergli anche queste responsabilità e dargliele solo a partire dai 18 anni”.

    Dunque è fondamentale dare importanza al responsabilizzare tutte e due le parti, sia docenti che le famiglie con gli studenti perché questo evita accuse reciproche e rafforza una fiducia che è basilare nelle relazioni umane anche nell’educazione.

  13. Sono un’insegnante di Liceo e concordo con Piras; chi l’ha definito troppo speranzoso o poco realista, è a sua volta poco realistico: lo spauracchio della bocciatura non funziona più da tempo, nella scuola, semplicemente perché, almeno nella realtà in cui vivo io, si boccia il meno possibile, anzi, nella scuola-azienda il basso numero di bocciati è diventato un metro di valutazione del successo formativo delle scuole e uno strumento di concorrenza tra Istituti .
    Anche gli studenti lo sanno: in un modo o nell’altro a fine anno se la caveranno, possono venire rimandati in qualche materia, ma sanno di non correre davvero il rischio della bocciatura. L’effetto delle minacce, più che spaventare e stimolare allo studio (bello stimolo!) è piuttosto quello di rendere poco credibile l’insegnante , in quanto tali minacce di fatto non si realizzano (e certamente se c’è qualcuno ancora sensibile alla mancanza di coerenza nei comportamenti degli adulti sono i ragazzi).
    Dire “tutti promossi” può vanificare le ultime resistenze di chi strappa ancora dai suoi studenti qualche piccolo sforzo a suon di minacce, ma di fondo la “sanatoria di fine anno” è una realtà già ampiamente praticata nella scuola. La sfida che attende noi insegnanti è proprio quella di riuscire a individuare altri modelli di scuola.

  14. Cara signora Debora, sarò pure “poco realistico”, come scrive lei, ma certamente non sono un illuso; non soffro, glielo assicuro, come invece molti docenti, della “sindrome di Pollyanna”.

  15. Postilla. Se lei analizza le mie argomentazioni, comprenderà che sono simili, pur da una differente prospettiva, alle sue, cara Signora. Pur non insegnando, comprendo che la Scuola divenuta azienda ha smarrito ogni credibilità. Non ritengo che la bocciatura o le minacce siano strumenti utili ai fini di un equo lavoro educativo, come del resto reputo dannoso il lassismo di coloro che vorrebbero una Scuola permissiva, o eccessivamente tale (si è visto, in queste ultime settimane, che cosa il permissivismo e il lassismo italici hanno cagionato). A me pare che il suo intervento, tranchant, se posso, sia più che altro uno sfogo, come quello di Piras; proponga, per favore, lei stessa, un modello di scuola, e, al riguardo di tale proposta, argomenti in modo efficace. Con realismo, s’intende.

  16. Pienamente condivido le considerazioni del prof. Piras.
    Con particolare riferimento alla sofferenza dei bambini e ragazzi del primo ciclo di istruzione e ai “cinque in pagella” come segno di “serietà dell’insegnamento”, vorrei qui riportare quanto ha scritto il 18 aprile nella sua pagina facebook (https://www.facebook.com/adelaide.baldo) Adelaide Baldo: “Poco fa alla bella trasmissione di radio 3 “prima pagina” ho potuto fare un intervento sul tema delle possibili /probabili conseguenze dell’isolamento sociale su bambini e adolescenti. Ho ripreso quanto detto in un mio post di pochi giorni fa. Ho anche esposto la mia delusione per avere sentito la ministra Azzolina garantire che in pagella ci saranno anche i cinque come se la serietà dell’insegnamento consistesse nella severità. Il fatto è che a questa fascia d’età manca lo stare “con” gli altri, a scuola, nello sport, nelle attività estive che quest’anno non ci saranno. Questi bambini e adolescenti sono destinati a un isolamento di mesi visto che non è sicura la riapertura delle scuole nemmeno a settembre. Mi stupisce e mi fa arrabbiare l’indifferenza verso un argomento tanto serio. Non si risolve con la corsetta attorno a casa perché i bambini non sono cani. I bambini e gli adolescenti hanno bisogno di incontro, di pensiero ed emozioni condivise, di fisicità. Ovvio che se dobbiamo stare isolati lo faremo e lo faranno anche bambini e adolescenti, ma le istituzioni devono pensare a qualcosa di compensatorio. Non si può lasciare tutto sulle spalle delle famiglie. Ieri un gruppo di parlamentari ha presentato una proposta per un “decreto bambini”: speriamo in bene. C’è bisogno di un pensiero forte della politica sui diritti di una fascia di età spesso trascurata o comunque non del tutto considerata .”

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