di Matteo Marchesini

 

Strano destino, quello di Giuseppe Antonio Borgese. Precoce, tempestivo, attivissimo, lo scrittore siciliano ricoprì da subito posizioni di grande rilievo pubblico e si occupò dei più vari problemi culturali, cimentandosi in generi diversi e raggiungendo su quasi tutti i fronti risultati non effimeri; eppure, più visibile dei suoi successi è il segno lasciato dai contemporanei che ne sminuirono i meriti e ne ingigantirono i difetti. Borgese aveva appena ventitré anni quando nel 1905 Benedetto Croce fece stampare la sua Storia della critica romantica in Italia; ma già alla fine del decennio, il maestro ruppe con l’allievo che provava a metterne in discussione il sistema. A Borgese si devono parecchie definizioni memorabili e non poche scoperte critiche, che toccano punti molto distanti della nostra costellazione letteraria: D’Annunzio e Tozzi, Moravia e i crepuscolari… E tuttavia alcuni tra i lettori più acuti, da Renato Serra a Giacomo Debenedetti, vollero sottolineare il carattere approssimativo e avvocatesco dei suoi interventi. Ancora a fine anni Sessanta, quando in una rassegna sulla critica novecentesca Luigi Baldacci tentò di rivalutarlo contro Serra, Natalino Sapegno rifiutò d’inserire il suo saggio nella storia della letteratura Garzanti per cui era stato concepito. Ma aveva ragione Baldacci, come poi Massimo Onofri: se gli svogliati assaggi serriani sono senz’altro suggestivi, vi manca però la capacità di collocare le opere recenti in un panorama robusto come quello offerto da La vita e il libro, in cui Borgese compendiò la sua stagione militante tra il 1910 e il ’13. C’è davvero di tutto, dentro quei volumi di cronache e riflessioni: narrativa, poesia, filosofia, dibattiti su questioni religiose, e una galleria di autori che va da Barrès a Vailati, da Taine a Lombroso, da Kipling alla Negri. Con rapidità, sicurezza e verve, Borgese collega ambiti lontani, muovendosi nelle zone di frontiera tra forma e ideologia. I suoi orizzonti comprendono anche la politica. Dopo una giovinezza da temperato nazionalista cattolico si sposta via via su posizioni liberaldemocratiche e cosmopolite, come dimostra la sua attività diplomatico-giornalistica del primo dopoguerra. Negli anni Trenta, per non sottoporsi al giuramento fascista, decide di rimanere negli Usa, dove sta tenendo una serie di corsi universitari, e qui elabora un progetto di “Repubblica universale” e “Costituzione mondiale” su cui continua a lavorare al ritorno in patria. Ma nonostante questa lungimiranza, nemmeno nel ‘45 gli italiani gli fanno una gran festa. Del resto in quel clima anche i suoi avversari vengono messi da parte. Alla morte di Borgese, nel 1952, l’antipode Emilio Cecchi scrive che si faticherebbe a dire quante delle idee in circolazione su autori italiani e stranieri siano state enunciate per la prima volta da lui: ma si tratta appunto di un riconoscimento postumo, accompagnato da quelli a denti stretti a cui abbiamo fatto cenno.

 

Strano destino, si è detto. Insieme esaltante e ingrato; e difficile da decifrare. Forse i contributi di Borgese sembrano troppi e quindi troppo dispersivi, malgrado la coerenza di fondo del personaggio? C’è davvero qualcosa d’irrimediabilmente eccessivo e velleitario, in questo ex ragazzo di Polizzi Generosa affamato di esperienze e insofferente dei confini? Certo Borgese non è versatile solo come critico, o come saggista abilissimo nel mettere erudizione e giornalismo al servizio delle sue intuizioni esistenziali, ma anche come scrittore di finzione che spazia dalla poesia al romanzo, dal racconto al teatro. Il suo pregio e limite è una duttilità da umanista sempre intelligente anche quando è più retoricamente italiano; ma vale anche l’inverso, se è vero che l’intuizione sfocia spesso nell’immagine troppo solenne e scultorea o nell’esortazione un po’ astratta. In poesie e romanzi, questa oratoria uniforme fa da collante a un’ispirazione più frammentaria di quanto l’autore vorrebbe: evidenzia la sua natura talentuosa, e insieme un’inclinazione esteticamente conservatrice. Guido Morselli, che apprezzava la prosa narrativa di Borgese, l’accostò a Bacchelli e Brancati, parlando di un romanzo capace di graduare i trapassi tra più piani, da quello sociale a quello psicologico o metafisico. La vocazione oratoria borgesiana media in effetti tra l’architettura razionale, fin troppo voluta, di certe trame, e una vena esuberante che le sfugge. In Poetica dell’unità Borgese avanza argomenti interessanti in difesa dell’eloquenza, che come Leopardi considera strettamente connessa alla poesia. Con un discorso che anticipa la svolta retorica degli anni Sessanta, osserva che se dal romanticismo in poi la si è comprensibilmente svalutata per ragioni di polemica anticlassicista, ora che la spinta propulsiva della modernità si sta esaurendo merita un recupero; ma precisa anche che questo recupero non può realizzarsi ignorando la situazione storica e contando sulla pura forza di volontà (come sembra credere a volte nell’esecuzione pratica, o nelle indicazioni che dà ai “suoi” autori). Secondo Borgese, nelle epoche in cui suona poetica, l’eloquenza diventa la liricità della prosa e il civismo della poesia. E forse è qui la vera poetica di questo scrittore, purtroppo calata in un secolo che facilmente la trasforma in enfasi.

 

Uno dei suoi svantaggi, rispetto a Serra e ad altri coetanei, sta nel rifiuto di portare alle estreme conseguenze il fondato sentimento nichilista e quasi esistenzialista in nome di un approccio edificante. Tempo di edificare s’intitola la raccolta di saggi con la quale nel 1923 Borgese si congeda dalla critica militante per impegnarsi nella creazione, mentre comincia già a trarne un bilancio con le Poesie (1922) e il Rubé (1921). La raccolta inizia da Verga, edificatore di ieri, è dedicata alla memoria di Tozzi, uno dei “primissimi edificatori” di oggi, e ha come bersaglio la nuova prosa d’arte rappresentata dai Pesci rossi di Cecchi, definito “un libro d’esercizi e di solfeggi”. Ma il bersaglio grosso è in realtà il decennio precedente, che ha bandito tutto fuorché lirica e critica. Adesso, sostiene Borgese, c’è urgente bisogno d’altro. Ed è quest’altro che tenta non solo di promuovere ma d’inventare. Un secondo bilancio di questo tentativo lo fa subito dopo essersi stabilito in America, in sede teorica con il citato Poetica dell’unità (1934) e in sede creativa con Il pellegrino appassionato, in cui nel 1933 riunisce quasi tutte le novelle delle raccolte La città sconosciuta (1924), Le belle (1927) e Il sole non è tramontato (1929), aggiungendo qualche estravagante. Oggi la summa è riproposta da Avagliano, a cura di Gandolfo Cascio e Gandolfo Librizzi. Nella sua prefazione Cascio parla di una lingua da classe media colta, disinvolta e nitida, di “infallibile mediocrità”; e giustamente nota che nei racconti torna un personaggio abbastanza simile a Eliseo Gaddi, il protagonista del romanzo borgesiano I vivi e i morti (1923). Eliseo recita un precoce autunno della vita: a quarant’anni vuole già lasciare le frivolezze mondane. Va a vivere in campagna per purificarsi, ossia per prepararsi a morire da saggio. In questo romanzo elegiaco, come già nel precedente, si trovano lunghi dialoghi sulla fede. Qui in più c’è una medium, e viene citato Fogazzaro: riferimento da tenere presente al di là del tema, dato che anche in Borgese il simbolismo tende a schiacciare la narrazione, e spesso prevale una sorta di sincretismo stilistico e strutturale, ben visibile in Rubé nei passaggi dalla storia interiore del protagonista a quella sentimentale e pubblica. Se di Virgilio Brocchi Borgese ha scritto che è Fogazzaro più Oriani, lui sembra Fogazzaro più Pirandello, o Pirandello più la Deledda. Per i racconti il discorso formale è diverso, ma i temi sono gli stessi. In molti brani del Pellegrino si respira l’aria di una mezza età malinconica, esitante; c’è l’alone del Mistero, e c’è la ricerca della solitudine in paesaggi bucolici e montani (con alcuni pezzi intensi sugli animali, dalle talpe ai gatti alle tartarughe). A volte però questi Elisei minori scoprono che è presto per un ritiro, come capita al personaggio che ha battezzato “L’Approdo” una sua bella casa famigliare all’incrocio tra lago, colline e boschi, e al quale alla fine, abbandonandola, tocca accorgersi che cinquant’anni sono “troppo pochi per restare, troppi per partire, non ancora buoni per la pace, non più buoni per l’amore”. Ma ogni tanto, al contrario, questa maturità incerta sorprende gli uomini mentre si credono ancora quasi giovani. Dopo aver ballato il fox-trot in villa, uno di loro sente il cuore che accelera in modo anomalo. Dapprima è turbato; poi guardando i figli capisce che la pienezza vitale si sta trasferendo a un’altra generazione e lo accetta con serenità. In questi personaggi riaffiorano i fantasmi della giovinezza, a lungo dimenticati, nel momento in cui si staccano dall’albero della vita. Siamo insomma davanti a un congedo dalla primavera, piuttosto che davanti a un autunno: al palpito del corpo che inizia a non essere più tutt’uno con l’istinto, allo smarrimento della mente che s’inquieta e cerca un riposo ancora indeterminato.

 

Ma insieme alla scelta di Gaddi, continua ad aleggiare su questa ricerca l’ombra ipocondriaca e smaniosa di Filippo Rubé, con le sue ambizioni napoleoniche da epigono ottocentesco gettato nel “tramestio” del ventesimo secolo. Rubé ha conosciuto la paura totale della guerra, a cui s’intitola il miglior racconto di De Roberto, e la vergogna senza riparo per questo sentimento. La sua è la malattia di chi si crede inadatto alla vita: è impaziente di misurarsi con tutto perché non è sicuro della propria reazione, vale a dire della propria identità. Né lo sarà mai, dato che nel dopoguerra, quando dovrebbe approdare appunto all’età matura, si perde in un mondo dove i ruoli sembrano ormai dipendere da una roulette ideologica: nero, rosso. Se alla fine di questo febbrile romanzo ferroviario Filippo non fosse morto si sarebbe forse evoluto in un Eliseo. O forse no. Gaddi infatti somiglia piuttosto all’amico e avversario di Rubé, Federico Monti, o al Federico Ranaldi delle ultime pagine dell’Imperio che si ritira davanti a una realtà irredimibile. Ma più probabilmente Filippo sarebbe finito male lo stesso, diventando come certe figure del Pellegrino divorate dallo stress: gente che cerca pirandellianamente di farsi rinchiudere per essere dichiarata irresponsabile, o che è spinta all’omicidio da una forza ignota. Chissà poi se in seguito, col suo tipico rimuginio ossessivo, non avrebbe di nuovo messo in discussione tutto ciò che aveva fatto al fronte. Nella raccolta del ‘33 c’è un racconto, Federico Müller, in cui il protagonista ha rimorso di avere ucciso in trincea un uomo col gusto di chi va a caccia. Qui però più che a Rubé viene da pensare ai versi del suo creatore, che contengono una pagina di argomento analogo. Ed è una pagina che Borgese sintomaticamente disinnesca nella prefazione, accusandosi di letterarietà e affermando di non avere provato quel sadismo per davvero (nello stesso scritto precisa anche di non essersi mai fermato da una Calipso, come suggerisce invece un’altra poesia: segno significativo delle preoccupazioni morali di chi aspirava a un epitaffio in cui si riconoscesse che in nessuna sua pagina era “fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio”).

 

Comunque, nei cinquanta pezzi brevi del Pellegrino appassionato il narratore non deve più preoccuparsi dei modi in cui le sue creature cambiano nel tempo. Non ha i problemi di costruzione del romanzo. Non è più costretto a sovrapporre a una vena spontanea e poco finalizzata uno schema che con quella vena stenta a fondersi. La misura, la rapidità icastica li fa coincidere. Qui Borgese riesce perfino a essere comico, categoria che gli è poco congeniale, come si vede quando prova a fare i suoi conti critici con Palazzeschi. I soggetti, gli sfondi, le spezie del Pellegrino sono molti. Troviamo, come detto, le inquietudini degli Eliseo e dei Rubé, reincarnatisi per un attimo in personaggi regionali o da “stile internazionale”. Troviamo casi di amore e morte, dolorosi o da vaudeville, con un po’ di sapore e di colore degli anni ruggenti, e anche con resti di fine Ottocento liberty: circhi, chiromanti, sogni, presentimenti, mendicanti misteriosi, e tracce di un dannunzianesimo sceso di grado ma non di eloquenza. Ci sono poi i casi siciliani, grotteschi e atroci. Il lettore che ha presente quelli di De Roberto e di Pirandello si accorgerà però che nella maggior parte manca sia l’estremismo veristico dell’uno sia quello metafisico dell’altro. Si tratta di loro versioni per così dire piacevoli. Può sembrare curioso, ma spesso proprio chi nell’arte è più impegnato in modo esplicitamente progettuale e morale produce opere più disimpegnate. Lo stesso effetto fanno certe poesie di Borgese, in cui convivono un crepuscolarismo un po’ ironico e un po’ patetico, un whitmanismo con marcia sotto e un D’Annunzio eticizzato – e questo eclettismo, come in altro modo nella narrativa, è sorretto da un talento che aleggia vago su tutto, ma che non di rado, date le impalcature aprioristiche, deve abbassarsi a escogitare riempitivi. A volte anche i racconti si esauriscono nel loro traliccio senz’ombra e senza radicalità. Puntano sull’atmosfera, ma soprattutto sulla riuscita geometrica dell’intreccio. E in questi intrecci la fa da padrone la coppia. Notevole è ad esempio la storia intitolata a Emily Lipari, un’affascinante signora della Firenze belle époque, salottiera e smaliziata, di cui dopo la morte si scopre che malgrado il suo amore per il marito non ha avuto con lui nessun rapporto sessuale, eccetto che nella prima notte di nozze, perché la scoperta di cosa implicasse il matrimonio, fatta solo allora, era rimasta sempre in lei “un ricordo opprimente, come d’un oltraggio invendicabile, d’una cosa immonda. Le pareva che tutte le donne (…) dovessero sentirsi contaminate e misere. Pure s’avvedeva di non avere verso il marito né avversione o rancore né antipatia; e nella consapevolezza della contraddizione smaniava come chi si sente quasi impazzire”. Ma accanto ai drammi cupi ci sono le commedie: triangoli, equivoci galanti che finiscono in graffi, e vicende di ometti ridicoli (anche qui: pirandelliani) schiacciati dalle donne o ciechi alla seduzione, oppure talmente insopportabili che le mogli possono restar loro fedeli solo se si tengono a distanza. In genere le scene sentimentali dànno all’autore l’occasione per inserire qualche nota brillante sui rapporti umani, almeno in un determinato ambiente: “Una donna quasi sempre sa credere di essere amata per se stessa; ma un uomo, con le donne che lo scelgono, non sa che cosa valga lui e che cosa valga il suo denaro, o il suo nome, o la sua nomea mondana”.

 

Parecchie trame, e l’essenzialità con cui sono svolte, testimoniano di un ingegno da ottimo sceneggiatore. Si legga I ladri, dove una donna apparentemente incrollabile, di bellezza alabastrina, viene conquistata da un amico del marito che dovrebbe prendersene cura durante l’assenza di lui. Ma mentre si trovano in intimità nella casa coniugale ecco che entra un ladro, un domestico licenziato che li sorprende e ricatta. L’amante lascia che l’intruso prenda i gioielli e ne compra poi delle copie; solo che ormai la donna lo disprezza per non avere reagito drasticamente alla violenza, e in quel tentativo di riparazione vede quasi il pagamento per un’ora di abbandono. Alla fine, quando l’uomo incontra per strada il ladro, i due si evitano con lo stesso riflesso. “Ciascuno ebbe paura dell’altro, come di un complice” conclude il racconto. Perfetto, nel suo genere, è anche Il campanello. Dopo la morte di un padre tiranno, la figlia può finalmente fidanzarsi. A differenza del genitore, che dal campanello traeva un rumore di raffiche, il fidanzato lo suona come un angelo. Fino alla mattina delle nozze: perché allora anche la sua mano diventa improvvisamente quella di un mitragliere, così che lei comincia a vederlo diverso, si mette a gridare davanti ai minimi inconvenienti, e capisce di essere a sua volta autoritaria come il morto, “d’avere il suo sangue, torbido e triste, nelle vene”.

 

Al capo opposto dei racconti “borghesi” stanno i bozzetti verghian-derobertiani. Il più noto è La siracusana, scandita da punti e virgola lapidari. Borgese vi narra la storia di una donna bellissima, fasciata nel pudore orgoglioso della Sicilia di un tempo, che si lascia cadere a testa in giù dal balcone dopo aver sorpreso il marito mentre carezza la serva, ma non prima di fissare la gonna con uno spillo. Altrettanto bello è il protagonista di Il ragazzo, il diciannovenne Nicolangelo, che esce per la prima volta da Messina per andare a Genova a ritirare la merce del padre. Nella sala da pranzo dell’albergo genovese in cui alloggia, Nicolangelo osserva stupito “gente d’altra razza e d’altro cielo”: due americani ricchi e una bionda seminuda. La bionda lo invita nella sua stanza, e quando l’ha iniziato all’amore lo congeda per sempre. Solo che a lui quel congedo pare inconcepibile: il giorno dopo l’aspetta per ore nel vestibolo, appena gli americani lo fanno cacciare va a comprare un’arma, torna a fronteggiarli, dichiara che “La signorina è mia sposa” e urlandole un insulto le spara in faccia. Poi, assolto, rientra a Messina, dove continua a vivere in apparenza quasi immutato, con qualche capello grigio, senza “nulla da dire a nessuno”.

 

Le sezioni del Pellegrino appassionato sono divise da intermezzi che richiamano con un motivo lirico il clima sentimentale del libro. Ma c’è anche un motivo nel motivo, quello di Valencia, “la più bella canzone da ballo”. In uno di questi vestiboli narrativi, un uomo sostiene che se non sa ballare è perché prende tutto troppo sul serio: condurre una donna sotto gli sguardi della gente gli sembra una responsabilità enorme, e insegue a tal punto il ritmo “nelle inflessioni”, “nelle sincopi”, che “se volessi imitarlo coi miei passi, rischierei per troppa musicalità di sbagliare il tempo, e per raffinatezza di parere zotico”. Ai borgesiani (ma ce ne saranno poi, di borgesiani, con “g” palatale anziché con velare?) il brano ricorderà la lettera che Borgese studente scrisse da Firenze a uno zio, confessando di sentirsi “negato a tutto ciò che dipende dalla destrezza fisica” e dando conto della propria vergogna a un ballo di carnevale.

 

In generale, l’autobiografia traspare un po’ dappertutto. Non tanto perché l’autore si specchi nei personaggi e nelle trame, quanto piuttosto perché i racconti, pur così oggettivi e autonomi, acquistano quasi sempre pieno rilievo – un rilievo che va oltre la piacevolezza – solo come segni che rimandano al complesso della sua figura. Il che è vero in parte anche per i due alter ego romanzeschi di cui qui si sono indicate le tracce. Il giovane Borgese, che forse non è andato al fronte con quel cupio dissolvi che colloca il suo Rubé tra D’Annunzio e Serra, non si è poi nemmeno ritirato come un contemplativo alla Gaddi: ha anzi nutrito speranze wilsoniane, e in seguito ha ragionato sui modi con cui rifondare la società europea. Eppure le storie dei due personaggi vanno ambientate sullo sfondo della sua vicenda umana e intellettuale: l’angoscia giovanile, l’apprendistato a una serenità difficile. Nel suo “tempo di edificare” Borgese si apparenta in tutti i sensi a Thoma Mann, condivide il suo cambiamento antidecadente. E critica Benedetto Croce, a Mann pure così vicino, proprio perché lui invece non ha voluto compiere un’autentica autocritica, ma nell’estetica come nella politica ha cambiato posizioni simulando la continuità. Quanto all’estetica, in Poetica dell’unità l’ex allievo addita questa simulazione con un gioco di citazioni, usando Croce contro Croce. Ovviamente l’affondo gli serve anche per proporre il suo punto di vista: cioè quella concezione dell’arte come visione verificata nella pratica, da confrontare non soltanto con la realtà ma anche con il modello di un “sopramondo”, che si condensa nel concetto (o pseudoconcetto?) di “trasfigurazione”. Attraverso questa concezione, più pratica e insieme più idealistica, in senso spiritualistico, di quella del vecchio maestro, l’iperromantico Borgese svaluta l’enfasi romantica sull’originalità dell’opera in nome di una classicità sognata, tolstoianamente semplice e maestosa, e insomma universalmente umana. Sul piano politico, un tale universalismo o “unitarismo” – che risale da Croce a De Sanctis, e da Hegel a Kant – si traduce intanto nei progetti di costituzione mondiale. Il libro che condensa l’analisi borgesiana della crisi europea è Golia. Marcia del fascismo, scritto in inglese e uscito nel ’37 negli Stati Uniti, ai quali l’autore guarda come centro di una possibile “repubblica universale”. Il Golia è un saggio straordinario, un instant-book che dura. Con la sua eloquenza più smagliante, Borgese ci offre un quadro della storia italiana da Dante e dal Rinascimento (termini costanti di paragone) fino al Risorgimento e al fascismo, cioè letterariamente a Carducci e a quel D’Annunzio, amato in gioventù, che “avrebbe desiderato essere, contemporaneamente un Casanova e un Napoleone”. Ma l’immaginazione sociologica si fa acuta soprattutto dove descrive la piccola borghesia, cioè il suo stesso ambiente, come massa di manovra delle dittature, dipingendone un ritratto da accostare a quelli volta a volta polemici, mitici e drammatici di Salvemini e Carlo Levi, di Pasolini e della Morante. Più che una classe, questa categoria gli sembra “uno stato mentale” incarnato in giovani impiegati “che avevano faticosamente fatto gli studi classici per poi… fermarsi, per mancanza sia di mezzi sia di perseveranza, alle soglie dell’Università o che erano riusciti a strappare una laurea senza perciò raggiungere un tenor di vita tollerabile, e una cultura decente; giovani combattenti che erano stati presi dall’esercito prima di aver imparato un mestiere e che ora erano o si sentivano troppo vecchi per incominciare una vita normale”. È la situazione di Rubé, che infatti nel romanzo, con perfetta autocoscienza, la riassume in una lettera dicendo di non sapere stringere né una vanga né una spada ma solamente il “vuoto”, e aggiungendo che “non ho forze bastanti per le mie ambizioni, eppure non posso soffocare le ambizioni”. Ma è anche la situazione di Mussolini, “mezzo operaio e mezzo intellettuale, maestro elementare, ufficiale senza soldati, giornalista autodidatta, troppo istruito per i suoi pari e troppo ignaro di latino e di filosofia per gli austeri intellettuali”, mosso da una “confusa inquietudine” e da una “vergognosa coscienza di se stesso”. Ed è, ancora, la situazione del siciliano Giovanni Gentile, che aveva in questo senso non pochi vantaggi da trarre dalla tirannia. Nel suo neoidealismo, però, Gentile è stato comunque più conseguente dell’aristocratico Croce, che Borgese smaschera qui ingaggiando una polemica molto efficace contro l’ingenuità dimostrata dai cinici lodatori della forza non appena la forza si presenta in forme a loro sgradite (il suo allievo Brancati, guarito dal fascismo, dirà in un epigramma che sotto il cuscino dei perdenti si trova spesso una copia del Principe). Come i realpolitici, osserva l’autore del Golia, Croce ha deriso i “profeti inermi”, senza considerare che i “banditi armati” crollano a loro volta ancora più stupidamente (e qui evoca la Nemesi, come in quegli anni la Weil). Dopo avere teorizzato la politica pura con sottofondo hegeliano, quando questa politica arriva per davvero i realpolitici non l’accettano; e d’altra parte nemmeno vogliono rinnegare la loro filosofia. “Se il fascismo, anche se trionfante, ha torto, allora pure la filosofia di Machiavelli e di Croce è sbagliata ed è dovere del filosofo rinnegarla apertamente, riconoscendo il valore permanente di quei profeti inermi come Dante o Savonarola, Mazzini o Wilson” scrive Borgese. “Ma questa linea di condotta era antipatica a Croce quanto gli sarebbe stata una sottomissione a Mussolini; egli le evitò entrambe privando così il suo atteggiamento politico di tutta quella efficacia che avrebbe avuto con un rinnovamento personale, e passando invece molto lentamente a un liberalismo e un europeismo che faticosamente cercava di fare accordare con la sua filosofia precedente e aggrappandosi alla continuità dogmatica della sua personalità che non gli permetteva di ammettere che una volta in vita sua, teoricamente o praticamente, si era sbagliato”.

 

Qui Borgese tocca un punto cruciale. Anziché tenere fermo il senso di una giustizia che non coincide con i fatti, l’intellettuale moderno crede di poter razionalizzare la Storia. Non solo questo intellettuale afferma che se le cose stanno in un certo modo è necessario che stiano così, ma leva lodi pleonastiche a tutti i processi rispetto ai quali sembra non si dia un’alternativa. Per tornare all’epigramma, il concetto è quello che esprime Federico nel Rubé, ricordando a Filippo i giorni in cui considerava la guerra fatale e al tempo stesso si comportava da suo promotore entusiasta: “perché volevate fare gli ostetrici dell’ineluttabile?”. Federico lo chiede con calma, senza più l’ira che lo animava nei loro litigi giovanili. Ormai quei sentimenti sarebbero una finzione: li si reciterebbe per convincersi di potersi togliere di dosso la mano gelida del nulla che è arrivato dopo. Nei racconti questa amarezza, addolcita dalla rassegnazione, si ritrova anche nell’ultimo intermezzo, dove Borgese immagina che a risentire Valencia sia una giovane coppia del 2030. “Quei nostri antenati erano tristi e simulavano la gioia; erano impetuosi e delusi”: così, secondo il narratore, penseranno il ragazzo e la ragazza del pieno ventunesimo secolo. E noi oggi, a un decennio da quell’anno, circondati dagli ostetrici dell’ineluttabile, senza poter nemmeno dire di avere nutrito le grandi speranze d’inizio Novecento, possiamo ancora chiederci come saranno quei giovani del futuro. Cosa diranno riascoltando le hit di questi anni, di prima e dopo la belle époque parodica in cui siamo cresciuti, e che è finita di colpo nelle settimane scorse? Chissà se si muoveranno in un paesaggio simile a quello dell’Invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares. Chissà se saranno avvolti in un incubo di isolamento, epidemia e spettri, tra la virtualità che uccide la realtà fisica e un illusorio eterno ritorno tecnologico. Chissà se anche vicino a loro, come vicino al protagonista dell’Invenzione, si ripeterà ossessivamente la melodia della famosa canzone spagnola degli altri anni Venti.

3 thoughts on “Una classicità sognata. Le vocazioni di Giuseppe Antonio Borgese

  1. “ Mercoledì 13 aprile 2011 – « Scriveva come respirava » (Giuseppe Antonio Borgese, Federigo Tozzi, in «I libri del giorno», 3, n. 4, aprile 1920) “.
    @ Matteo Marchesini: Anche per stare sul tema del giorno…

  2. Sono una borgesiana (ebbene sì, almeno una ne esiste), avrei qualche obiezione ma prevale la gratitudine per chi ha dedicato con questo articolo la sua attenzione a un grande intellettuale ingiustamente dimenticato. Anzi, piu chd un intellettuale, un umanista, come è detto nell’articolo e come gli sarebbe certo piaciuto di più essere definito.

  3. “Da questo libro mi si avviò una conoscenza dell’opera di Borgese che oggi posso dire completa. Dopo la lettura di Golia, mi appassionai anche alla conoscenza della sua vita: una delle pochissime, tra quelle dei contemporanei, che indefettibilmente rispondono dell’opera; davvero «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio», la vita e l’opera, in un tempo in cui tanti che servirono encomiando credettero poi di riscattarsene codardamente oltraggiando.”

    Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, Palermo, Sellerio, 1985 p. 73

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