di Gilda Policastro

 

Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro

 

Ai più pigri piace ricordarlo come scrittore “pulp” o “cannibale”, ma Enrico Ghezzi lo aveva definito, anni fa, un “lirico sublime”: Aldo Nove era appena tornato in libreria, poco prima dell’emergenza pandemica, con una nuova raccolta, Poemetti della sera (Einaudi). Un libro che si pone nel solco di almeno due dei suoi precedenti (Maria e A schemi di costellazioni) per l’afflato mistico-creaturale bilanciato da una salda consapevolezza metrico-materica. I temi a lui cari dell’origine, dell’infanzia, dei segni/sensi e della dissoluzione (arrivando al Giorno della mia morte e alla Fine del mondo, tra i migliori dei Poemetti) si ribadiscono qui nella duplice dimensione esistenziale e storica: «Tutto ciò che definiamo/cultura va ricostruito […]/Non più forma/non più sostanza/Profitto». Ed è ben visibile nei nuovi versi non solo la messa a fuoco di un’idea riconoscibile di mondo, ma il legame della scrittura, altrettanto riconoscibile, con la tradizione della poesia: dai primi secoli (fortissima nella parte iniziale l’eco delle laudi) fino ai grandi tragici del contemporaneo (andando da Paul Celan a Milo De Angelis). A fondamento dell’ispirazione, se ha ancora senso convocare una categoria trascendente (e ne ha, per un autore filosofico anche senza esibirlo), c’è sempre un dialogo riattualizzante, in grado di restituire alle grandi questioni un’apparenza “semplice” (nell’accezione utilizzata da Enrico Testa per il romanzo realista, in contrapposizione alla lingua espressionista). Grandi questioni che puntellano il testo di parole-concetto (il tempo, il tragico, le generazioni, l’unione, il Tutto, la separazione, l’universo), disseminate in uno scenario cosmico e naturale (su tutti gli elementi: il cielo). Non c’è però nessun idillio empatico o conciliazione, perché la natura è sottoposta a stress entro un ossimoro esistenziale permanente: «il vento, le piante/i minerali, gli animali/lo sanno, che siamo noi/il decoro dell’ultimo canto del tutto,/un incanto tradito/e terrorizzato» (da Non siamo mai nati non siamo mai morti). L’io poetante, entro una sorta di sua riduzione o replicazione anamorfica, si attribuisce un solo compito, primario: nominare le cose, interpellarle, riscoprirle attraverso le cantilene e le apostrofi (come nel refrain iniziale «Guarda, madre», tra capriccio d’infanzia e preghiera – laude, appunto). Ho avuto i Poemetti dall’autore a fil di sirena, negli ultimi giorni in cui si poteva parlare ai tavolini di un bar. Ne è venuto un dialogo proseguito forzatamente a distanza, che ha toccato dai massimi sistemi ai minimi stati di fragilità ma, soprattutto, ha provato a sondare le residuali scorte di umanità di cui siamo più o meno provvisti, nel nostro esilio attuale.

 

Sulla copertina del tuo ultimo libro, Poemetti della sera, leggiamo: “Guarda, madre, quel luogo./Quel luogo lontano./Lo vedi?/Prima che tu nascessi lo abitavamo./Non io./Non tu”. Il libro è uscito all’inizio di febbraio, prima che ci trovassimo nell’emergenza attuale. Cos’è adesso, per te, “quel luogo che abitavamo?” Qualcuno (”non io/non tu”) potrà ancora abitarlo?

 

Quel luogo è qualcosa che si avvicina al concetto di Nirvana buddista, all’ek-stasi della mistica occidentale o al “nulla” induista, ossia la dissoluzione dell’ego determinato nell’energia che siamo. Energia che, ricorderebbe Zanzotto filtrando il linguaggio con il secondo principio della termodinamica e l’Aristotele dei grandi maestri arabi, è pietra è vento, leone e maglietta e arcobaleno. C’è un saggio indiano, Sri Nisargadatta Maharaji, morto negli anni Ottanta dello scorso secolo, molto caro a uno dei miei due maestri, Milo De Angelis: Nisargadatta, analfabeta venditore di sigarette il cui semplicissimo messaggio si è diffuso in tutto il mondo, diceva sempre: “Mi chiedete sempre cosa c’è dopo la morte. Perché non meditate su quello che eravate prima di nascere, e non su quello che sarete dopo?”. L’espressione, cara a milioni di indiani, è “sat-cid-ananda”, ossia l’essere impersonale e onnisciente fuori dalle categorie kantiane di spazio e tempo. Hegelianamente (e induisticamente) è la corrispondenza tra “puro essere” e “puro nulla” (prima della loro “sintesi” nel “movimento” e quindi nell’apparenza; pure, è “l’inviolato” islamico della tradizione sufi, spesso, a livello popolare, direttamente o indirettamente citato da Franco Battiato). Ancora, quel luogo, è quell’indicibile che pure Dante “dice”, o meglio “prova a dire”, alla fine dell’ultimo canto del Paradiso. Quel luogo è, insomma, l’essere.

 

Vero: in Poesia e destino, dell’82, ma ristampato di recente, De Angelis ritorna spesso su questa dimensione reversibile del tempo, che è anche in alcuni suoi versi (ad esempio la memorabile chiusa de La goccia pronta per il mappamondo: “in noi giungerà l’universo/quel silenzio frontale dov’eravamo/già stati”, su tutti). Per te però questa dimensione dello spaziotempo più vicina a una spiritualità orientale è se non sbaglio un portato recente (non così la tua tensione filosofica, in generale). Ad esempio era molto presente nel tuo ultimo romanzo, Il professore di Viggiù. Com’è cominciata?

 

Sì, in Poesia e destino Milo De Angelis cita più volte Nisargadatta. Da parte mia, la lettura di Schopenhauer alla fine del liceo accompagnata da quella di Hegel, inevitabilmente legata alla “mistica renana” (Eckhart, Suso) mi hanno avvicinato al pensiero non occidentale. Le mie prime letture in tal senso furono la Baghavadgita ma anche i commenti di Osho ad alcuni testi talmudici, tutt’ora editi da Giuntina. E poi il Rinascimento, Campanella e i testi che gli ebrei sefarditi in fuga dalla Spagna portarono in Italia con la rinascita del platonismo e dell’ermetismo… Per non dire di Giorgio Colli e della sua edizione completa delle opere di Nietzsche. Mi sono laureato in filosofia morale e non è possibile capire le figure cardine dello zoroastrismo, che è anche l’essenza del Nietzsche maturo, senza immergersi in quell’oriente che è padre (e madre) della morale. Lo stesso dicasi per il dionisismo e il suo legame con i culti misterici egiziani, la stessa multiforme (plurisimbolica) figura del Cristo… Ecco, ho parlato di una sorta di linea tellurica del pensiero occidentale, diciamo orfica, che dai testi iniziatici diffusi sotto il nome di Ermete Trismegisto ci conducono a Giordano Bruno fino alla fisica quantistica, ai multiversi ma specialmente agli ologrammi dei multiversi di Bohm (del resto già deducibili dalla scuola di Copenaghen). E così si ritorna placidamente all’induismo… Il professore di Viggiù è stato il mio tentativo, direi in buona parte fallito, di esprimere in modo iconico questo percorso di riscoperta del Sé impersonale e della “falsità” del mondo, quella che credo esprima meglio, in sintesi, il già citato Franco Battiato attraverso la fase “Niente è ciò che sembra, niente è ciò che appare perché niente è reale”. Aggiungendo a quel niente un minimo scarto identificato dalla psicanalisi di Jacques Lacan in quello che lui definisce “Piccolo oggetto a”, ossia il desiderio, la volontà, la pulsione che ci lega attraverso il linguaggio. E in Italia, chi maggiormente si è avvicinato a questa lallazione che noi chiamiamo mondo, le nostre vite, ritengo siano stati Andrea Zanzotto e, in chiave empirica, Nanni Balestrini, con il suo uso “materico” del linguaggio.

 

Ecco: con Balestrini siamo però in tutt’altra dimensione, nient’affatto trascendente e tutta interna al “politico”, potremmo dire: la creatività come dimensione singolare ed eccezionale viene superata in nome di un pensiero collettivo, che si costruisce per l’appunto con i materiali di quello che chiamiamo reale e che sono i fatti, le cose e anche le parole già scritte (di Nanni si diceva fosse l’unico poeta a non aver mai scritto un verso suo). Come concili, se credi si possano conciliare, l’aspetto orfico con l’aspetto materico, nella poesia (ma direi nella scrittura)?  

 

Siamo ancora dentro le barriere del linguaggio, della sua funzione referenziale. Nel pensiero indiano, il materico e il “trascendente” non si elidono. Vedi Milo De Angelis che, “ateo”, traduce Lucrezio ed è assolutamente “materialista”. Sono categorie contrapposte solo all’interno di una concezione ormai obsoleta. Cosa ci dice di materia e spirito il teorema di incompletezza di Gödel? Eppure sono i fondamenti della logica e della matematica contemporanea. Nanni, il mio adorato Nanni Balestrini, mi ha spesso detto “Io non ho ego, né inconscio”. Stessa identica frase mi diceva De Angelis. “Orfico” non vuole dire “romantico”. Anzi. E Nanni, per tutta la vita, è stato aderente, in poesia, al principio del “C’è chi parla” (ancora, Lacan), punto focale di un mancato coro epico di cui collettava i frammenti e ne lasciava che in modo quasi meccanico ne scaturissero mondi su mondi, in quello “schioccare del sangue” che è sempre stata la sua formula, dionisiaca e impersonale affermazione della vita (riassunta bene in Istruzioni preliminari, testo che chiude meravigliosamente la sua Caosmogonia). Purtroppo abbiamo buttato via decenni nella contrapposizione puramente caratteriale tra Novissimi e Parola innamorata che hanno reso patetico il confronto poetico in Italia. Certo sono caduti in tanti in questo tranello e Nanni ci ha giocato. Sotto la scuola geniale di Anceschi, Nanni ci ha dimostrato che esiste e ci domina un uso comune delle parole che non è (perché dovrebbe esserlo?) diverso da quello in cui lo svuotamento mistico si fa storia. Cos’altro vorrebbe dire il suo “sventramento della storia?”. Parimenti il suo impegno politico, così radicale, così lucido, si pone altrove rispetto al discorso teorico: e qua mi sfugge perché si debba optare per l’uno o per l’altro, fatto su cui lo stesso Nanni ironizza, del resto, in uno dei suoi testi a me più cari, La poesia fa benissimo (sèguito di La poesia fa malissimo, va da sé).

 

Un’altra questione che forse trovi superata (per certi versi lo è), è lo scarto tra prosa e poesia: tu come ti regoli, quando decidi che “certe cose dette in versi suonano meglio che in prosa” (citando un bel titolo di Nelo Risi)?

 

Aneddoto: Fu proprio Nanni Balestrini (nel ’93 o nel ’94) a dirmi: “Ma perché invece di andare a capo ogni tanto non scrivi tutto di seguito? È un trucchetto che uso anch’io. Poi la gente ti legge”. Questo “consiglio”, detto con grande classe e ironia, l’ho applicato con Woobinda, la mia prima raccolte di prose. E già avevo avvertito come le lasse “senza punteggiatura” di Vogliamo tutto, La violenza illustrata e gli Invisibili di Balestrini avessero un respiro metrico anapestico potentissimo. Direi, con Celan, che è proprio un fatto di respiro: la poesia è tendenzialmente anaerobica, la prosa aerobica. “Senti” il tipo di ritmo e se a questo si confà meglio “l’andare a capo” o meno. Pure, in linea di massima, percepisco nella poesia, con l’uso che può fare del vuoto, ossia dell’andare a capo, una tendenza a un’espressione più intensa. Banalizzando, mi verrebbe da dire che la poesia sta alla prosa come il whiskey alla birra: ma è davvero una semplificazione.

 

A proposito di Woobinda: la tua scrittura da allora è molto cambiata (inevitabilmente, dato che sono passati più di vent’anni!), anche se non hai rinunciato del tutto alle torsioni o violazioni grammaticali che costituivano una tua marca di stile (un linguista, Giuseppe Antonelli, coniò la definizione di “piuccheparlato” o “lingua ipermedia” per questa particolare declinazione del parlato, ricostruito in vitro, diverso dal mimetismo diretto, alla Pasolini o alla Siti, aggiungo io). Già Sanguineti diceva di aver cercato, per il romanzo, una lingua che fosse “lingua e non penna”, cioè che aderisse a una istanza comunicativa sì letteraria ma non libresca. Correggimi se sbaglio, ma ho l’impressione che la sperimentazione, nella tua opera, abbia un po’ cambiato fuoco, spostandosi dalla lingua al genere, così sei passato dal “romanzo” di impegno sociale (Mi chiamo Roberta…) al romanzo lirico (La vita oscena) al romanzo mistico (Tutta la luce del mondo) a quello filosofico-postmoderno (Anteprima mondiale o l’ultimo, Il professore di Viggiù). Infine, qualcuno mi pare ti abbia chiesto di “rifare” Woobinda: non avrebbe senso perché sono passati vent’anni o perché quello che hai fatto dopo ti ha distanziato da quella visione del mondo, e inevitabilmente dalla lingua che la veicolava?

 

Ogni volta che approccio la prosa sento il bisogno di inoltrarmi in un sentiero nuovo. Detesto i generi (ciò non significa che non ami scrittore di libri di generi). Il mio amore è la scrittura e sono piuttosto libertino. In Woobinda c’era semplicemente la ricerca di aderire all’incombente “neuromagma” (titolo di un bellissimo libro di Bifo) espressione di un rincretinimento generale che poi, decennio dopo decennio, si è amplificato fino al rumore bianco, a un rincoglionimento massivo che credo richiederebbe un’ulteriore trasformazione linguistica. In più, un fattore psicologico: a metà degli anni Novanta sentivo ancora un margine di sarcasmo, a tratti anche, scendendo di un paio di ottave (prendo in prestito dal linguaggio musicale), di ironia. Oggi non trovo che ci sia più niente da ridere. L’imbarbarimento ha superato il livello (per me) di tollerabilità e non voglio più parlarne (per ora).

 

Nel Professore di Viggiù dici (anzi fai dire al Professore, che tra l’altro è un protagonista scomparso) che il romanzo è una “storia che entra a far parte di una famiglia di storie”, ma aggiungi che la storia di cui parli è una sorta di “allucinazione”, in cui “ciascuno di noi si sente al centro”. Concludi che il romanzo è un punto di osservazione e che ce ne sono tanti. Sembra in effetti che tu abbia lavorato, in tutti questi anni, in modo esattamente contrario all’autofiction, che ha dilagato per un certo periodo (dai primi anni Duemila all’altro ieri). Il tuo “io” è sempre un “io” di relazione, non ha rilevanza in sé, ma all’interno di una percezione dell’emergenza che qualche volta è sociale (come in Roberta) ma più spesso è esistenziale, una specie di indagine inesauribile sul dolore, sul senso, sulla verità. Uso paroloni inappropriati?

 

Sono “paroloni” che mi trovano concorde. Anni fa lessi quasi per caso una raccolta di interviste a Michael Ende, Storie infinite (Rubbettino). Da adolescente ho visto il film tratto dal suo romanzo La storia infinita cinque volte, credo. E per due volte lessi poi il romanzo. Ende, costantemente infastidito dall’essere sempre etichettato come autore di “libri per bambini”, scava a fondo su quanto il tema del viaggio, dell’esilio, del ritorno, da Omero a oggi, sia la dimensione archetipale attorno alla quale crescono le differenti vicende di quei “lupi di mare” di ungarettiana memoria che noi tutti umani, nessuno escluso, siamo. E lo siamo sempre a livello “tribale”, su molteplici livelli e differenti focus, appunto. Pure, la dimensione individuale è comunque forma dell’universale. Penso alla solitudine interiore di Leopardi, o di Pavese, che intrappolate nelle maglie del linguaggio diventano emblemi di qualcosa che riguarda tutti. E mi piacerebbe chiudere con una frase di Kundera (cito a memoria): “Forse tutte le storie ruotano attorno a una stessa storia primordiale, ma che deve essere ancora essere scritta”.

 

In un articolo recente uscito su Tuttolibri hai ricordato la tua esperienza “cannibale”, etichetta editoriale rispetto alla quale ti sentivi sostanzialmente estraneo. “Eravamo separati in casa”, dici, “io e la mia fama”. Penso a questa condizione di estraneità che vivi in modo molto radicale, sia disattendendo le aspettative editoriali (nello stesso articolo ricordi: “mi chiedevano libri ‘violenti’ e scrivevo lunghissimi poemi d’amore in prosa”), sia allontanandoti per lunghi periodi. Sono scelte secondo te obbligate dalla scrittura vissuta come pratica, come studio, oltre che come ispirazione? Personalmente credo che mondanità e letteratura siano destinate a nozze infelici, ma ci sono anche esempi contrari (mi viene in mente Arbasino, ma anche autori miei coetanei). D’altra parte a differenza di altri scrittori, sei presente nei social, sia pur in una funzione critica, non meramente autopromozionale. Ruolo pubblico ed “esilio creativo”, come li bilanci?

 

Caratterialmente sono molto chiuso, malgrado negli anni proprio grazie alla letteratura riesca a gestire la mia insofferenza a incontri superiori alle tre persone. Se posso dirla tutta, detesto la mondanità, ma non certo il mondo, non l’umanità. I social possono essere, nel loro essere effimeri ma al contempo ancora tutti da studiare e con un potenziale che neppure conosciamo, un ottimo “salotto” in cui discutere e confrontarsi, tenendo ben presenti flussi linguistici e algoritmi, e l’assenza di tanti fattori, come il senso di un sia pur minimo gesto di contatto fisico e della prossemica. Ma restano comunque, in ausilio, quando si è in collegamento video, delle espressioni non verbali, i gesti… E tutto questo lo stiamo forzatamente provando in questi giorni.

 

Mi vengono in mente due domande interconnesse, leggendo questa tua risposta: la prima è se credi in una comunità di poeti (se non in una repubblica!), cioè se pensi, proprio alla luce del primato che ha assunto in questo momento particolare il sapere scientifico, che sarebbe il caso di valorizzare un pensiero umanista al di là delle emergenze (destinate, a quanto pare, a cambiare le nostre vite a breve e lungo termine, anche al cessare o all’attenuarsi dell’emergenza stessa). L’altra: “in questi giorni”, come ben dici, mentre infuria una pandemia e siamo costretti in tutto il mondo all’isolamento, la poesia ha senso, dobbiamo leggerne, possiamo farcene qualcosa (Balestrini diceva: non si vede perché la poesia si ritenga in grado di salvare il mondo più del balletto o del giardinaggio…)? 

 

Credo in una comunità di umanisti (poeti, scrittori, linguisti, psicanalisti, ma anche storici, filosofi, antropologi, musicisti, artisti visivi, architetti, teologi, e ci metto pure “ciarlatani” nel senso della più estesa umanità possibile) che abbiano affinità con quella forma di pensiero che ha avuto la sua massima espressione nel Rinascimento e che oggi, in comune rapporto con l’epistemologia, formino una comunità di sapienti e non di funzionari del potere finanziario. È il clima che ricordo Jung in Sogni ricordi e riflessioni, dove tutti incontravano tutti, ma pure il “Bar Jamaica” dove, agli inizi degli anni Cinquanta, Dario Fo e Piero Manzoni, Elio Pagliarani e Arnaldo Pomodoro passavano le nottate a bere e a fumare. Il bar Magenta c’è ancora, mi ci ha portato un paio di volte Balestrini, come amarcord museale: non rimane più nulla di quel tempo. Sulla battuta di Balestrini intorno alla poesia, ricordo che sul “Manifesto” anni fa l’assimilò alla cura dei tulipani o al collezionismo di pipe. Il significato, chiarissimo, lancinante e divertente come gli era proprio, era abbattere l’elitarismo dei sedicenti (neo)laureati che formano combriccole di quattro sfigati che detengono il verbo, la qualcosa è in effetti triste e comica allo stesso tempo. “Più bella della mia poesia è stata la mia vita”, ha scritto Alda Merini. È stantio invidiarsi ciò che non c’è, o predicare in una discarica abbandonata.

 

[Foto di Dino Ignani]

 

Esuli, rubrica a cura di Gilda Policastro

 

5 thoughts on “Conversazione con Aldo Nove

  1. Colpisce un fatto (non mi si fraintenda; non è, il mio, un commento negativo, o un commento capzioso): un autore come Nove che, un poco come Pasolini, è, in scrittura, egotico, riflette sul contrario dell’ego. Credo vi siano spunti di riflessione, soprattutto da parte di chi, come me, non “ama” – ovvero non ha un approccio emotivamente partecipato a – gli autori che legge.

  2. Quando leggo quello che, quasi vent’anni fa, ha scritto Aldo Nove: “ Martedì 16 ottobre 2001 – « L’Immacolata Concezione sancisce che la nascita di Maria, madre di Cristo, è avvenuta senza peccato esattamente come quella di suo figlio. E dunque non vi è nessuna differenza di dignità teologica fra la Madonna e il Dio che in lei si è incarnato, e dunque ancora non è possibile in alcun modo legittimare alcun tipo di inferiorità della donna nei confronti dell’uomo. È “ il volto femminile di Dio “, cui parla Coelho nel suo bellissimo Sulle sponde del fiume Pedra mi sono seduto e ho pianto. » (Aldo Nove, Nicole Kidman, il Corano e il dogma dell’Immacolata Concezione, in «Il Foglio», 13/10/2001), penso che io non sono uno scrittore perché non riuscirei mai a scrivere queste cose dopo essere andato al cinema. O forse è soltanto che sono vecchio, e il cinema lo guardo quasi soltanto in tv. E comunque non mi piacciono gli eufemismi.

  3. Domanda non provocatoria a Nove, uno dei pochi cinquantenni di formazione specifica rigorosa e buona riconoscibilita’ editoriale: quante copie ha venduto in carriera? 50k? 100k? 500k? 1000k? Grazie, saluti.

  4. Tanto per chiarire meglio il mio pensier(in)o: “ Lunedì 21 aprile 1997 – « La donna dello schermo ». Io, che leggevo i libri – di scuola -, credevo che fosse Dante. Lui, che capiva le cose alla lettera, e magari leggeva i fumetti, pensava che fosse il cinema. Sarà stato fesso ma ha avuto ragione lui. “. Insomma: uno di questi giorni dovremo parlare della vecchia faccenda delle ” due culture “.

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