di Pierpaolo Cesaroni e Lorenzo Rustighi
In un suo notevole contributo dedicato all’epidemia in corso, uscito ormai qualche settimana fa (https://www.doppiozero.com/materiali/le-virtu-del-virus), Rocco Ronchi annovera, fra le paradossali “virtù” che devono essere attribuite al virus, anche e forse soprattutto la sua capacità di “restituire alla politica il suo perduto primato”. Ciò che è interessante evidenziare è il senso che Ronchi attribuisce a questa affermazione. Nella sua lettura, la situazione emergenziale ci costringe a riconoscere l’infondatezza di ogni visione che attribuisce all’umano un eccezionale dominio sulla natura, per riconsegnarci invece ad un piano di immanenza che l’umano può solo assecondare e, al massimo, governare. Sarebbe proprio il riconoscimento di questa impotenza, il riconoscimento cioè dell’assenza di una “sovranità” dell’essere umano, a riattivare la dimensione propriamente politica che gli antichi conoscevano e che noi moderni abbiamo invece dimenticato. Ronchi compie quindi un’operazione opposta, almeno a prima vista, a quella che ci si potrebbe aspettare: l’epidemia restituisce alla politica il suo primato non perché fa emergere la sua differenza dalla semplice amministrazione delle cose, bensì, al contrario, proprio perché conferma la sua totale identità con essa. In un contributo più recente (https://www.doppiozero.com/materiali/teologia-del-virus), Ronchi lo conferma in questi termini: “Scoprirsi popolazione e non popolo è l’esperienza traumatica prodotta da Covid 19”. La politica, lungi dal rinviare alla trascendenza di una decisione, rivelerebbe piuttosto la sua natura pragmatica, tutta giocata sul registro immanente del “governo”. In effetti, cosa intende Ronchi per “governo”? In sostanza, esso corrisponde alla capacità di “barcamenarsi”, cioè di aderire alla necessità dell’evento, di “fare di necessità virtù”. Nel caso che ci riguarda da vicino in questo momento, ci si affida alla saggezza del governante nel superare una situazione di pericolo entro i limiti dettati unicamente dalla situazione stessa, così come ci si affida alle capacità del nocchiero di una nave che si trovi a veleggiare in mezzo alla tempesta.
In relazione a questa stimolante lettura, si può innanzitutto evidenziare che in essa sembra aleggiare un paradosso: la non eccezionalità della politica, la sua natura puramente pragmatica, sembra potersi manifestare solo in un momento eccezionale. Infatti, se la politica ha a che fare con il modo della pura necessità ed esclude del tutto quello della possibilità, allora la più alta necessità rende massimamente visibile la natura della politica. Nonostante la sua argomentazione voglia andare nella direzione opposta, Ronchi rischia quindi di concordare con quanti più o meno consapevolmente identificano il concetto di politica con il concetto di crisi, inclusi i disastri e i conflitti che questa potrebbe portare con sé. Non solo: ci si può chiedere se davvero l’adesione del governante all’evento azzeri l’elemento della decisione soggettiva – come sembra suggerire Ronchi –, o se non richieda piuttosto il massimo del comando (secondo una logica del “coup d’État” che caratterizza la tradizione della Ragion di Stato). In effetti, affidarsi alla virtù del governante significa affidarsi alla sua capacità di discernere cosa si debba fare per affrontare “al meglio” la situazione, e questo “meglio” non sembra affatto essere trasparente, immanente alla situazione, né dunque che possa identificarsi con la pura accettazione delle cose – altrimenti non ci sarebbe bisogno di governo alcuno. Infine: siamo proprio sicuri che sia il virus ad essere oggetto di governo? Non lo sono forse piuttosto gli esseri umani, cioè quei particolari viventi che sono in grado di rappresentarsi il proprio fine come altro dalla loro semplice vita, come un possibile e non come un necessario, e che, proprio per questo, hanno bisogno di governo e non di semplice “regolamentazione”?
In ogni caso, sembra che, nella lettura di Ronchi, la virtù politica sia principalmente da identificarsi con quella del governante, cioè di colui che è chiamato a trarci in salvo dal pericolo. Altri commentatori, pur concordando nel cogliere nell’epidemia una rinnovata epifania della vera politica, prendono un’altra strada, forse più radicata nel senso comune: sottolineano cioè il mirabile sforzo di unità a cui tutti i cittadini sono chiamati, il loro riconoscersi nel verace e concreto universale del bene comune. Due modi apparentemente opposti di designare la politica, perché in un caso ciò che conta davvero sembra essere il governo e la sua capacità, mentre nell’altro ad essere protagonisti sono i cittadini nel loro complesso, presi cioè come nazione o popolo.
Si tratta davvero di due visioni alternative? In realtà, sono due punti di vista che rimandano necessariamente l’uno all’altro. La democrazia, in cui riconosciamo oggi il canone irrinunciabile della nostra vita politica, nasce proprio dall’identificazione formale di queste due cose: la decisione politica e la volontà dei cittadini, dunque i governanti e i governati. Questa operazione, per noi così banale da non esserne nemmeno più coscienti, è in realtà piuttosto recente e risale alla nascita del concetto di potere sovrano all’interno delle moderne teorie del contratto sociale, a partire da Thomas Hobbes. A chi conosce almeno un poco Thomas Hobbes l’affermazione potrà apparire sorprendente, perché il “mostro di Malmesbury” è generalmente ricordato come il pensatore dell’assolutismo, cioè della decisione sovrana assoluta e inappellabile. In effetti Hobbes è anche questo, ma non c’è nulla di mostruoso in questo, perché una simile decisione può essere incondizionata solo se è stata autorizzata da tutti i cittadini, nessuno escluso: autorizzare significa promettere che d’ora in avanti tutti quanti considereremo la volontà di chi governa come se fosse la nostra e quindi non gli disobbediremo, perché obbedendo a lui in realtà obbediamo a noi stessi. In una versione più accettabile e aggiornata della sovranità, come quella fornitaci da Jean-Jacques Rousseau, possiamo quindi dire che sovrano è sempre e solo il popolo; ma allo stesso tempo la volontà sovrana del popolo può venire ad esistenza solo nelle vesti di una volontà altra, quella dei governanti che si troveranno di volta in volta a fare esercizio del potere politico legittimo. Ciò che noi chiamiamo “democrazia”, e che senza indugio parafrasiamo come “potere del popolo”, si basa esattamente su questo semplice meccanismo: la posizione della pura immanenza (la volontà generale dei governati) richiede la posizione della pura trascendenza (una volontà particolare che, per dichiarare sovrani coloro che le obbediscono, deve mettere in forma questa loro generalità).
Perché questo breve passaggio attraverso i classici del pensiero politico moderno? Ciò che intendiamo mostrare è come la situazione attuale non sia affatto il momento in cui si manifesta la quintessenza della politica. Al contrario, ciò che l’emergenza dettata dall’epidemia ci consente di comprendere al meglio è proprio la struttura di fondo di una grande opera di negazione della politica, l’opera che ci hanno lasciato in eredità Hobbes e i contrattualisti. Chi sostiene che ora più che mai siamo chiamati ad essere protagonisti del nostro destino di nazione è talmente hobbesiano da ritenere che la verace politica esista solo quando non c’è più nulla su cui discutere, quando l’obiettivo è ovvio, quando la scelta più giusta è indiscutibile e ogni dibattito al riguardo è superfluo se non pericoloso. Politica, in altri termini, ci sarebbe soltanto quando non ci si domanda più che cosa sia giusto fare perché lo sanno tutti quanti (e se non lo sanno, dovrebbero!), così che questo sapere possa tradursi nell’imperativo di un comando che, ancora una volta, si limiterebbe semplicemente a dare forma a ciò che tutti e ciascuno di fatto già vogliono. In effetti questo è il grande sogno della democrazia, sospendere ogni battibecco perché la volontà giusta è già data in anticipo. E l’unico modo per assicurarsi che la giustizia sia fissata una volta per sempre è proprio farla coincidere con la volontà dei cittadini, omnes et singulatim: volontà talmente assoluta da essere paragonabile, appunto, ad una calamità naturale che non lascia spazio ad alcun altro volere.
Ebbene, se la politica fosse davvero questo, tuttavia, essa non avrebbe a che fare con alcun universale, con alcuna possibilità di sentirsi partecipi di un effettivo bene comune, ma al massimo solo con il generale, con il genere. Come suggerisce Hegel, l’autorizzazione del comando legittimo su cui l’odierna democrazia si fonda riduce la politica alla semplice protezione della vita, alla sicurezza, perché la volontà comune non viene compresa se non come volontà della specie o della popolazione, volontà per l’appunto “generale” nel senso che accomuna astrattamente una collezione di individui reciprocamente indifferenti, la cui “unità” è possibile solo nella misura in cui siano considerati ciascuno per sé. È la stessa razionalità sulla base della quale pensiamo le elezioni democratiche, dove la volontà del popolo emerge solo se tutti gli individui sono accomunati da un identico gesto – il voto – che affinché possa confluire nella generalità deve essere compiuto da ciascuno nella separatezza della cabina elettorale, benché preso isolatamente non conti nulla (Rousseau diceva non a caso che la volontà generale si rende manifesta solo a condizione che ognuno esprima la propria opinione senza farsi influenzare dagli altri, ma ragionando solo con la propria testa). È quindi una logica, quella della volontà popolare, che per funzionare non ha bisogno di relazioni, ma anzi funziona al massimo grado se ciascuno è isolato dagli altri: lo stesso meccanismo che vediamo all’opera nel contenimento dell’epidemia, dove l’interesse della specie si realizza solo se ogni singolo individuo fa la stessa cosa separatamente dagli altri (restando a casa), benché ciascun singolo di per sé sia irrilevante rispetto allo scopo come è irrilevante che si riconosca davvero in ciò che deve fare. Il che, per inciso, conferma i limiti della lettura di Ronchi, ancora appaesata in categorie affatto insufficienti: ciò che chiamiamo popolo è in realtà semplice popolazione, certo, ma questo non fatalmente bensì per un effetto tutto interno ai concetti politici di cui disponiamo.
Ancora Hegel sottolinea come questo modo di concepire lo stare assieme degli esseri umani abbia come unico possibile risultato la “polizia” – ciò che molti chiamerebbero “governamentalità” –, cioè la coercizione esteriore che raggruppa individui altrimenti incapaci di agire di concerto, producendo artificialmente e a posteriori l’identità delle volontà che il contratto sociale aveva surrettiziamente postulato come fondamento costituente dello Stato. La democrazia produce quindi una differenza strutturale e di fatto un abisso tra la volontà dei singoli e la volontà a cui essi obbediscono, perché, nonostante quest’ultima sia la volontà “generale” di questi stessi singoli, essi non possono partecipare di essa. In questi giorni assistiamo all’indignazione contro coloro che non rispettano le restrizioni, accusati di non comprendere appunto l’interesse della nazione. Ma si tratta di un’indignazione che, per quanto comprensibile, è destinata a rimanere frustrata: nel governo di “polizia”, che il singolo identifichi la propria volontà individuale con la volontà collettiva è del tutto casuale e per nulla necessario, proprio perché la volontà collettiva esiste solo se è formulata attraverso un comando esterno che può produrre la perfetta generalità unicamente costringendo i singoli, uno per uno, a conformarvisi (come si suol dire, se non obbediranno con le buone, lo faranno con le cattive). Fatichiamo pertanto a scorgere la responsabilità dei singoli che secondo Ronchi l’epidemia farebbe emergere, ci sembra piuttosto che se qualcosa manca su questo piano sia proprio la possibilità di agire responsabilmente. Nel fare queste osservazioni non vogliamo insinuare che il modo “poliziesco” di operare sia di per sé ingiusto o tirannico: si tratta infatti di un elemento necessario, specialmente in società complesse come la nostra, e nel momento drammatico che stiamo vivendo ci atteniamo fiduciosi – proprio come tutti, anche chi strepita sui social network – a misure che al netto di questo o quel dettaglio sono ormai inevitabili e dunque anche buone. Il nostro obiettivo non è quindi quello di fare una “critica del potere”, che sarebbe del tutto speculare alla critica rivolta a chi disobbedisce alle regole (e che dunque lasciamo volentieri a chi, come Agamben, immagina scenari degni delle più fruste distopie fantascientifiche).
Piuttosto, vorremmo richiamare l’attenzione sul fatto che la politica non ha a che fare con ciò che è inevitabile, con ciò che non può che essere così, con ciò che diamo per scontato essere buono. Al contrario, questo è un momento in cui di politica non c’è purtroppo neppure l’ombra, ma proprio per questo vale la pena di approfittare di questa pausa forzata per ripensare a che cosa potrebbe essere la politica quando, a emergenza conclusa, avremo la possibilità di metterci in gioco politicamente. Se ci abbandoneremo all’illusione che la politica sia essenzialmente questa, allora avremo sprecato una buona occasione: saremo infatti costretti ad ammettere contraddittoriamente che la politica deve essere annullata per ripristinare una condizione non politica, a meno che non si voglia permanere indefinitamente nell’emergenza. Viceversa, se ciò che abbiamo provato a dire ha un qualche senso, ripensare la politica richiede sottrarsi al grande sogno della democrazia di cui parlavamo, cioè il sogno di un’unanimità pura e semplice, perenne, capace di far tacere la domanda perturbante e tuttavia insopprimibile sul giusto e sul meglio che il principio dell’autorizzazione popolare del potere ha preteso di cancellare. È del tutto evidente infatti come nella vita concreta delle nostre democrazie l’effetto di “polizia” non possa davvero esaurire la nostra esperienza, perché anzi la questione politica fondamentale – quella sulla giustizia appunto – continua a bussare alla nostra porta, ad insistere perfino sulle più rigide e fredde disposizioni di ordine pubblico. E tuttavia la democrazia, per lo meno nel senso che attribuiamo correntemente a questo termine (potere del popolo), non è di per sé in grado di pensare fino in fondo questa domanda, perché la logica su cui è stata edificata è esattamente quella poliziesca, cioè quella che si limita a costringere i singoli individui a seguire una regola generale dettata dalla cieca necessità e non suscettibile di essere discussa. Ma se la politica non può essere ridotta a questo effetto e implica sempre qualcosa d’altro, allora è necessario articolare un campo tanto del sapere quanto delle istituzioni che sia capace di comprendere questo altro che per il momento resta “impossibile” o quantomeno “impensabile”.
La sfida, che gli antichi sono riusciti a modo loro a fare propria e che la modernità ha invece rifiutato, è quella di pensare l’unità di due momenti che, come abbiamo visto, il pensiero della democrazia non riesce a tenere fermi perché ci rimbalza all’infinito dall’uno all’altro: da un lato, che i governati contino qualcosa di fronte al governo, che le loro volontà abbiano un ruolo determinato e non generico nella decisione politica e dunque in essa possano riconoscersi; dall’altro, che questo avvenga proprio perché sono governati, cioè perché la legge a cui obbediscono non coincide con la loro volontà ma è frutto della particolare responsabilità del governante. Questo significa anche che il problema della giustizia richiede non che sia data una risposta definitiva, valida per sempre, ma che sussista uno spazio “costituzionale” nel quale si dispieghi un processo di continua mediazione tra la pluralità sempre destabilizzante delle idee sul giusto e l’unità necessaria affinché la società nel suo complesso possa darsi un orientamento comune. Mediazione dunque tra la differenza e l’identità, senza cedere a quel gioco di specchi nel quale l’assolutizzazione di una pura differenza (la moltitudine degli individui privi di relazione) si ribalta immediatamente nell’assoluta indifferenza dell’Uno identico a sé (la legge incondizionata di un soggetto assoluto, sia esso Dio, il popolo o perfino un virus). È proprio questo spazio che il pensiero moderno della sovranità e della democrazia ha chiuso, perché assolutizzando la volontà dei cittadini come fondamento esclusivo della legge ha paradossalmente assolutizzato, di contro, l’arbitrio del tutto soggettivo del governante legittimo.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di “una seconda rivoluzione copernicana” …. *
GOVERNO POLITICO ED EPIDEMIA: “[…] In una versione più accettabile e aggiornata della sovranità, come quella fornitaci da Jean-Jacques Rousseau, possiamo quindi dire che sovrano è sempre e solo il popolo; ma allo stesso tempo la volontà sovrana del popolo può venire ad esistenza solo nelle vesti di una volontà altra, quella dei governanti che si troveranno di volta in volta a fare esercizio del potere politico legittimo. Ciò che noi chiamiamo “democrazia”, e che senza indugio parafrasiamo come “potere del popolo”, si basa esattamente su questo semplice meccanismo: la posizione della pura immanenza (la volontà generale dei governati) richiede la posizione della pura trascendenza (una volontà particolare che, per dichiarare sovrani coloro che le obbediscono, deve mettere in forma questa loro generalità). Perché questo breve passaggio attraverso i classici del pensiero politico moderno?
[…] è necessario articolare un campo tanto del sapere quanto delle istituzioni che sia capace di comprendere questo altro che per il momento resta “impossibile” o quantomeno “impensabile”. […] La sfida, che gli antichi sono riusciti a modo loro a fare propria e che la modernità ha invece rifiutato, è quella di pensare l’unità di due momenti che, come abbiamo visto, il pensiero della democrazia non riesce a tenere fermi perché ci rimbalza all’infinito dall’uno all’altro [….]
Questo significa anche che il problema della giustizia richiede non che sia data una risposta definitiva, valida per sempre, ma che sussista uno spazio “costituzionale” nel quale si dispieghi un processo di continua mediazione tra la pluralità sempre destabilizzante delle idee sul giusto e l’unità necessaria affinché la società nel suo complesso possa darsi un orientamento comune.
Mediazione dunque tra la differenza e l’identità, senza cedere a quel gioco di specchi nel quale l’assolutizzazione di una pura differenza (la moltitudine degli individui privi di relazione) si ribalta immediatamente nell’assoluta indifferenza dell’Uno identico a sé (la legge incondizionata di un soggetto assoluto, sia esso Dio, il popolo o perfino un virus). È proprio questo spazio che il pensiero moderno della sovranità e della democrazia ha chiuso, perché assolutizzando la volontà dei cittadini come fondamento esclusivo della legge ha paradossalmente assolutizzato, di contro, l’arbitrio del tutto soggettivo del governante legittimo ” ( Pierpaolo Cesaroni e Lorenzo Rustighi, “Sul governo politico…”, – sopra).
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO: “[…] Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il “trattato le cui condizioni siano eque” (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani – la “religione civile”, contro la “religione romana”, cattolica ! Senza volerlo, prepara la strada “cattolico-romana” a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene : “tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza” o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura ; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e – per non distruggere i risultati della sua esplorazione – si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide : Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso : la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me ! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale : “Che cosa è l’uomo ?”. Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema “religioso”, il legame “sociale”, il problema di “Dio”, il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un “campo recintato” o assoggettata alla “Moira” di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio … e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque : No King, no Bishop ! Il problema della Legge – e della Lingua : il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues ! Da dove il Logos e la Legge ?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900 : Ferdinand de Saussure ! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Citè.
La questione è decisiva ed epocale : ed è al contempo questione antropologica, politica, e “teologica”. In generale è la questione del rapporto Uno-Molti – una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale – volontà di tutti o del cosiddetto “uno frazionario”, e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) – dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant – in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un “uno” degli “uno” o delle “uno” al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del “grande fratello”. E non riusciremo mai a distinguere tra “Dio” Amore [Charitas], e “Dio” Mammona [Caritas] – tra la “volontà generale” dell’Uno e la “volontà generale” di “uno”, camuffato da “Uno”. Liberare il cielo, pensare l’ “edipo completo” – come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti … non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre … se non il suo stesso “uno” – allo specchio ? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e … desertificante !
È elementare, ma è così – come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito : “bisogna seguire ciò che è comune : e ciò che è comune è il Logos” – la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia !!! Questo è il problema : la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi !!! E se non vogliamo permanere nella “preistoria” e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici : gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta – al di là della natura – nella società, e li fa essere ed esseri umani – dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi. [….]” . (Cfr. L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di “una seconda rivoluzione copernicana”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2962).
Federico La Sala
Capisco i nostri amici giornalisti e tutti quelli che con le parole devono guadagnarsi la pagnotta giorno per giorno dicendo, contraddicendo, precisando, smentendo, accusando, difendendo, polemizzando ecc, ma i filosofi, insomma, prima di accodarsi in fretta e furia al coro generale del niente sarà più come prima e a sparare sentenze epocali sul futuro dell’umano e del disumano, un po’ di pazienza no? La nottola di Minerva si leva sul far della sera, ma non ogni sera alle otto e mezzo con la Gruber e Mentana. Vediamo intanto se il virus passa l’estate, e poi valuteremo quanto il fare di tutti e di ciascuno dovrà essere e sarà davvero diverso da quello di prima.
Mi scuso con gli autori del testo, non volevo polemizzare né sminuire il loro contributo che anzi trovo interessante, la mia era una considerazione generale, per quel poco che può valere.
Mauro, mi permetto solo di sottolineare che – forse in maniera una po’ troppo oscura a questo punto – parte del nostro intento consisteva proprio nel richiamare alla cautela quanti non hanno perso tempo a produrre vaticini straordinariamente dettagliati su come il virus cambierà i destini della politica.
Grazie Lorenzo, ultimo intervento più sul tema: se in situazione normale l’umano cerca di salvare la borsa e segue chi promette di salvargliela, in situazione non normale, quando si accerta e comunque si accetta come reale il pericolo di rimetterci la pelle, ecco che l’umano segue chi promette di salvargli la pelle: come ben sapevano e sanno i tagliagole di tutti i tempi, che per avere la borsa ponevano la nota alternativa: o la borsa o la vita! Questo in sintesi il primato attuale della politica sull’economia di cui parla Ronchi: aspettiamo che il lupo si allontani dal nostro gregge ( per non far spreco di altre metafore) e vedremo se l’umano tornerà a occuparsi sommamente della propria borsa oppure se, trasfigurato in senso francescano dall’ epocale esperienza dell’homo homini virus si dedicherà sic ora et semper al bene comune, all’abbattere muri, a pagare le tasse per finanziare la sanità pubblica ecc.. Sul vostro discorso: francamente non so quanto sia vero dire che il sogno della democrazia sia quello di decidere sulla base di un consenso unanime, eliminando la differenza a vantaggio della identità tra volontà del popolo e soggettività governante. Questo forse per Hobbes e Rousseau ma non per le nostre democrazie parlamentari o costituzionali, che vengono da Locke e Montesquieu: l’auspicio “costituzionale” che formulate alla fine non è forse quello che caratterizza da sempre con tutti i loro limiti le democrazie rappresentative moderne? Si cerca no il bene e il giusto formulandoli da prospettive e interessi differenti, dopo di che dal momento in cui la maggioranza fa del proprio giusto la legge, su base appunto democratica, questo giusto deve valere in forza di legge come giusto per tutti. Ma forse ho capito male. In ogni caso non mi pare mai possibile fare della politica altro che una scienza del possibile, questo ce lo ha insegnato Aristotele, e come non mi pare vero dire che la politica riscopre se stessa in uno stato di necessità non mi pare nemmeno vero sostenere che oggi di politica non ci sia nemmeno l’ombra o ce ne sia pochissima. La politica c’è sempre, appena due umani aprono bocca, anche solo se per decidere di metterci sopra una mascherina.