di Renato Nicassio

 

Il 28 gennaio è uscito per Mondadori Questa è l’America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro di Francesco Costa. È un libro interessante su due livelli.

 

Il primo è o dovrebbe essere scontato per ogni libro che viene pubblicato: è interessante nel suo contenuto. Nel testo Costa parte da una premessa fondamentale: ci sono pochi posti nel mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio quanto nel caso degli Stati Uniti. Le storie raccontate da Costa cercano di coprire questa differenza. Spesso si tratta di coprirla letteralmente. La maggior parte di ciò che conosciamo degli Stati Uniti, infatti, proviene dalle sue estremità. Semplificando, ma non troppo, degli Stati Uniti noi conosciamo la costa est con New York (o forse meglio Manhattan) e la costa ovest con la California (prima solo del cinema ora del cinema e dei computer). Questa è l’America racconta anche che succede nel mezzo, che poi è un mezzo territorialmente enorme. E allora si scopre, per esempio, che l’America è pure la deindustrializzazione del Michigan o la trasformazione – economica, etnica, culturale – del Texas. E molto altro. L’America è il paese in cui l’uso di antidolorifici ha creato tossicodipendenti insospettabili, in cui le città possono diventare talmente ricche o talmente povere da scacciare i propri abitanti, in cui le armi rappresentano un pericolo ma anche un legame. Insomma, è un posto complesso. E del resto, da una nazione grande quanto quasi un continente con cinquanta stati e sei fusi orari non ci si potrebbe aspettare altrimenti. Il libro di Costa indaga questa complessità e cerca di spiegarla. In tal senso, il primo livello di interesse di Questa è l’America è il suo messaggio.

 

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Il secondo livello di interesse è invece il suo medium. Questa è l’America è, come detto, un libro. Duecento pagine stampate da una casa editrice e vendute nei luoghi, fisici e virtuali, dove si vendono tutti i libri. E tuttavia Questa è l’America non nasce e non si esaurisce in quanto libro. È parte di un progetto più ampio.

 

Nel 2015, parallelamente e indipendentemente dal suo lavoro di giornalista per il Post, Costa iniziò una newsletter di politica americana intitolata, omen nomen, Da Costa a Costa. Il periodo era propizio. C’erano le primarie che avrebbero deciso i candidati – e che candidati – che si sarebbero sfidati per il post-Obama. Ogni settimana Costa inviava così una mail in cui faceva il punto della situazione. Analizzava sondaggi e dibattiti, spiegava procedure di voto, consigliava letture. Gli iscritti alla newsletter aumentarono e la newsletter cessò di essere solo una newsletter. Costa iniziò un podcast che inviava in alternanza alle mail: una serie di puntate di circa mezz’ora l’una in cui raccontava a voce ciò che succedeva negli Stati Uniti. E non si fermò lì. Alla scrittura delle mail e alla registrazione del podcast, aggiunse degli incontri dal vivo. Prese a girare l’Italia tra associazioni e università per parlare di America agli italiani e rispondere alle loro domande. In tutto questo, naturalmente, non trascurò mai la comunicazione sui social postando articoli e interventi sul suo blog, su Twitter, suFacebook. Dal 2015 ad oggi, fatte salve alcune pause in corrispondenza di periodi meno intensi della politica americana, Da Costa a Costa non si è mai bloccato. Anzi, si è diramato su nuovi canali e nuove direzioni. Su Instagram, soprattutto, dove Costa cerca di sfruttare le potenzialità delle “storie” per raccontare notizie in modo più rapido e accattivante. E ovviamente sul libro da cui siamo partiti. Chi segue – e non è, come si vedrà, un verbo casuale – Francesco Costa lo dunque fa praticamente dappertutto: sullo schermo, nelle cuffie, dal vivo, su carta. Ed è proprio questo che è interessante.

 

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Negli ultimi anni si parla molto di narrazione transmediale. Molte storie con cui abbiamo a che fare oggi, infatti, non si esauriscono in un unico medium ma sconfinano e proseguono in altri. Oggi una storia può essere raccontata in un libro, continuare in un fumetto, diramarsi in una serie tv, finire al cinema, ricominciare in un videogioco, eccetera, eccetera, e viceversa. E questo può avvenire sia in tempi diversi (il fumetto esce prima della serie tv, la serie tv prima del videogioco…) oppure anche contemporaneamente, o quasi. Ogni medium aggiunge qualcosa alla storia che può anche avere un nucleo forte (dei personaggi e una trama principali) e un medium privilegiato (Star Wars, tanto per fare un esempio, è libri, fumetti, serie tv, videogiochi, ma soprattutto film) ma che non potrà essere davvero conosciuta se non, appunto, seguendola nelle sue diramazioni.

 

Cambiando campo, Da Costa a Costa può essere allora considerato un caso di giornalismo transmediale. Qualcuno potrebbe però obiettare che il giornalismo transmediale è un concetto privo di senso, che il giornalismo è transmediale da decenni. Ogni giorno una notizia viene data alla tv, approfondita sul giornale, smontata da un’inchiesta sul web, rettificata in radio. E d’altra parte molte testate giornalistiche utilizzano ormai molteplici media: molti quotidiani escono sia su carta che su schermo, producono video e contenuti audio, alcuni hanno anche canali radio e tv. Tutto vero. Ma bisogna specificare qualcosa.

 

Ciò a cui assistiamo ogni giorno, da decenni, è la transmedialità delle notizie. Sono per lo più i fatti – o meglio il racconto dei fatti – a diffondersi di mezzo in mezzo. Non tanto il giornalismo inteso come genere o, forse meglio, servizio. La differenza può sembrare pretestuosa ma non lo è. Una notizia che viene data su più media ha una capacità di espansione e modificazione limitata: di medium in medium può cambiare, allargarsi o restringersi, ma resta sempre una notizia, quella notizia. E lo stesso vale per la sua durata: quando il giorno finisce, o la settimana se è molto importante, o il mese se è importantissima, la notizia scompare. Si tratta insomma di una singola presenza transmediale (e qualcuno, infatti, preferirebbe dire “multimediale”) che si diffonde su più media ma che nei vari media non si differenzia o interagisce granché.

 

Un giornalismo transmediale, esattamente come una narrazione transmediale, è invece una questione, più ampia, di approccio. Si tratta di seguire qualcosa usando media diversi, ciascuno dei quali racconta di quel qualcosa una parte diversa. Questo qualcosa, è allora ovvio, dovrà essere abbastanza ampio da giustificare un tale approccio: non sarà un unico fatto o evento ma piuttosto un intero settore o un tema complesso. Non singole notizie da raccontare su più media, dunque, ma diverse notizie raccontate da diversi media che si legano, e spiegano, tra loro.

 

Costa lo fa con la politica americana. E lo fa in maniera intelligente adeguando il medium che usa al contenuto da trasmettere. Nelle storie Instagram, di breve durata e immediata fruizione fa vedere pezzi di interviste o di incontri dei politici oppure dà e commenta una notizia appena diffusa. Nella newsletter, con tempi e spazi più lunghi a disposizione, analizza invece il più lungo periodo, ragionando su ciò che è successo in una o due settimane e ipotizzando ciò che potrebbe accadere nelle successive. Nel podcast, in una dimensione di fruizione più lenta e narrativa, può concentrarsi su vicende del passato che influenzano quelle del presente (l’impeachment di Clinton per capire quello di Trump) o raccontare i suoi reportage sul posto con tanto di viva voce delle persone incontrate. Nel libro, il mezzo che offre forse più ampiezza e possibilità di analisi, può cercare di ricostruire un ritratto più vasto della società americana approfondendo fatti di tempi e luoghi diversi – alcuni dei quali già incontrati negli altri media –che possono essere alla base di cambiamenti e scelte recenti.

 

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Un approccio giornalistico di questo tipo ha dei vantaggi evidenti. Tanto per cominciare offre una copertura notevole e variegata dell’argomento selezionato: ci sono tante informazioni e tanti modi diversi per raccontarle. In tal senso, la fruizione, oltre a essere molto completa, risulta anche poco monotona. Inoltre, adoperando mezzi che col giornalismo tradizionale non hanno molto a che fare (uno su tutti: Instagram), un giornalismo transmediale può anche attirare l’attenzione di chi su quei mezzi ci lavora o ci vive (i giovani). In tempi di crisi dei giornali non va poi sottovalutata la sua possibilità di costruirsi e fidelizzare un pubblico. Le persone che leggono la newsletter di Costa sono anche quelle che lo ascoltano sul podcast, che lo vedono su Instagram, che lo comprano in libreria, e viceversa. Queste persone, a prescindere dal mezzo dal quale l’hanno conosciuto, hanno apprezzato il prodotto e hanno deciso di seguirlo nelle sue varie diramazioni. Ciò accade ovviamente per la qualità del prodotto in sé ma anche perché il prodotto in sé esiste: piuttosto che cercare le singole notizie sparse sui vari media, una persona interessata alla politica americana trova molto più comodo seguire un’unica fonte. E se quella fonte si dimostra affidabile è assai probabile che decida di seguirla sempre. Del resto, nell’età del diluvio informativo, il filtro e la selezione delle informazioni sono dei valori e l’utente è disposto a premiarli, anche pagando. Il progetto di Costa si basa infatti sulle donazioni volontarie del suo pubblico: chiunque può seguirlo, chi vuole può dare il suo contributo. E stando a quanto dice lo stesso Costa, molti vogliono e l’hanno fatto: i soldi che raccoglie pagano il suo lavoro e coprono anche le spese dei suoi reportage dall’America. All’interno di questo modello fa naturalmente eccezione il libro, che è un mezzo che si acquista pagando un prezzo stabilito dall’editore, ma va comunque sottolineata la sua, per così dire, organicità all’interno del progetto giornalistico di Costa. In effetti, di per sé non è affatto inusuale che persone che lavorano principalmente attraverso i mezzi offerti dal web pubblichino, una volta diventati abbastanza famosi, un libro. È una questione di accrescimento del capitale simbolico (è ancora il libro a fare di una persona un autore) ed economico (il libro, a differenza di like e follow, si paga). Tuttavia, nel caso di Costa, la pubblicazione del libro non sembra essere lo sbocco finale di una fase precedente e preparatoria. Il libro sembra essere piuttosto un altro tassello – diverso ma non privilegiato – del suo variegato racconto dell’America che, infatti, Costa non ha interrotto o diminuito sugli altri canali pur in concomitanza con l’uscita del testo e delle sue presentazioni.

 

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Naturalmente, non è tutto oro ciò che si trasmedializza. In un giornalismo di questo tipo possono darsi anche dubbi e potenziali debolezze. Non va ad esempio sottovalutato l’impegno che richiede. Per seguire tante notizie che si diffondono e collegano su tanti canali c’è bisogno di tempo e familiarità con i vari canali che non tutti possono o vogliono avere (convincere un sedicenne a iscriversi a una newsletter è molto difficile, almeno quanto convincere un sessantenne a iscriversi a Instagram). Se si parla di impegno richiesto, poi, non si può trascurare quello dell’autore o degli autori dell’eventuale prodotto transmediale. Cercare notizie, produrre contenuti, differenziarli sui vari media, diventare esperto di questi media: sono tutte azioni che richiedono parecchio sforzo e a molti livelli (mentale, temporale, economico). E non è detto che tale sforzo sia ripagato, almeno nel breve periodo. La fidelizzazione del pubblico, posto che avvenga, richiede infatti tempo. Prima che qualcuno decida di darti dei soldi per quello che fai, deve capire se quello che fai gli piace e gli serve. In assenza di un qualche capitale iniziale o di una risposta rapida da parte delle persone a cui è indirizzato, la sopravvivenza del progetto può essere allora assai complessa.

 

Va però detto che non si tratta di ostacoli insormontabili. Dal lato del pubblico, ad esempio, ciascuno potrebbe scegliere – e molti di certo lo fanno – di seguire solo il canale o i canali che più gli si addicono: vedere le storie di Instagram e tralasciare la newsletter, leggere la newsletter ma non ascoltare il podcast… Qualcosa della transmedialità dell’offerta si perderebbe ma l’impegno richiesto sarebbe anche minore. Del resto, tornando all’esempio di Star Wars, non tutti quelli che vedono i film seguono anche le serie tv, i fumetti, i libri, i videogiochi. Si accontentano di una parte perché non hanno tempo e voglia di conoscere tutto.

 

Per quanto riguarda poi il grande sforzo necessario alla produzione anche qui possono darsi soluzioni. Ad esempio, non è affatto detto che un prodotto transmediale debba iniziare in quanto tale: si può iniziare lavorando su un solo medium, con costi e impegno minori, e poi, in caso di risposte positive, allargarsi. Oppure si può iniziare su più media ma dividendosi il lavoro in più persone (e questo magari all’interno di una redazione, e quindi con un capitale iniziale).

 

Insomma, il giornalismo transmediale ha il difetto – se di difetto si può parlare – di non essere semplice né da seguire né da fare ma, prove alla mano, si può seguire e fare.

 

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C’è un ulteriore elemento di potenziale criticità che va evidenziato, almeno di sfuggita. Il giornalismo italiano contemporaneo, come noto, mostra una certa tendenza alla narrativizzazione: spesso racconta storie piuttosto che riportare fatti. È una tendenza che si concretizza nell’assegnare ruoli narrativi (eroi, aiutanti, antagonisti…) a quelli che sono individui in carne e ossa e nel cercare di costruire trame e trovare morali laddove ci sono solo eventi e tutt’al più conseguenze. Il tutto, poi, viene spesso veicolato attraverso una lingua distante dalla semplicità e chiarezza che si dicono proprie del genere giornalistico ma che suona piuttosto ricca di aggettivazioni, sentimentalismi, patetismi. Un giornalismo di tipo transmediale potrebbe, almeno in teoria, esacerbare tutto questo. Adoperando vari canali – alcuni dei quali, particolarmente adatti alle strutture delle storie – e dovendo spingere il pubblico a seguirli e possibilmente per molto tempo, la tentazione di cedere alla narrativizzazione dei fatti potrebbe essere forte: del resto, cosa avvince più le persone di una bella o brutta storia? Il giornalista rischierebbe così di trasformarsi in storyteller, come si usa dire oggi, e forse anche in personaggio. Gli strumenti della comunicazione digitale, di cui il giornalismo transmediale non può fare a meno, possono essere propizi a tali trasformazioni. Usare Instagram per parlare di qualcosa e non di sé stessi non è sempre facile perché il mezzo stesso spinge l’utente a mettersi in primo piano.

 

Di nuovo, non c’è nulla di inevitabile. E il caso di Costa – che riesce a mantenere un controllo sul genere e sulla lingua dei suoi contenuti – lo dimostra: i giornalisti possono usare media che non sono propri del mestiere e rimanere giornalisti. Di più: possono imparare a farli dialogare con quelli a loro più consoni e costruire un’offerta informativa su più livelli interconnessi. E forse, per sopravvivere ai cambiamenti dei prossimi anni, devono farlo.

 

 

[Foto di Oliver Niblett da Unsplash].

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