di Mariano Croce e Olivia Guaraldo
[Il breve scritto che segue introduce e apre una serie di interventi sulla recente contrapposizione, dialettica o meno, tra critica e postcritica. Autrici e autori parteciperanno a un dibattito sulla forza concettuale e pratica della critica sociale e sulle ragioni di chi ritiene invece che i suoi limiti richiedano una trasformazione sostanziale del lessico e del metodo della teoria che abbiamo ereditato dal Novecento. Pubblichiamo in questa occasione la premessa del curatore della serie, seguita dal primo intervento].
Presentazione di un delitto
di Mariano Croce
Siamo senza dubbio dinanzi a un delitto di proporzioni storiche, e assieme a noi c’è quel Prefetto che August Dupin lasciava parlare perché potesse dare conforto alla propria sfacciata incapacità: costui offre spiegazioni profonde e penetranti a riguardo di cose che non sono in alcun luogo, e non riesce a vedere quelle cose che, invece, si offrono alla vista:
Lasciatelo parlare – disse Dupin, che non aveva ritenuto opportuno replicare. – Fallo chiacchierare; serve a placargli la coscienza. Mi basta averlo battuto sul suo terreno. Tuttavia, che non sia riuscito a risolvere il mistero non è cosa straordinaria quanto lui crede perché, a dire il vero, il nostro amico Prefetto è troppo astuto per poter anche riuscir geniale. La sua accortezza non ha corpo. È tutta testa e niente altro, come le immagini della dea Laverna: al più, testa e tronco, come un merluzzo. In fondo un’ottima persona. Mi piace specialmente per il modo (c’è una battuta che lo definisce in modo magistrale) con cui si è guadagnata la reputazione di gran talento. Intendo, quel suo modo “de nier ce qui est, et d’expliquer ce qui n’est pas”[1].
La chiosa rousseauiana è inclemente: l’astuzia dello scaltro spiega quel che non esiste. Lo proietta sulla scena per darsi il conforto d’una spiegazione plausibile in cui il reale fa da capro espiatorio per un’asfittica tendenza all’alambicco. La spiegazione è là, dinanzi agli occhi; eppure il Prefetto non solo non spiega quel che c’è e spiega quel che non c’è; ma introduce di sottecchi quel che non c’è, altrimenti certo del conclamato fallimento. Nulla a che vedere con la genialità, quel salto un po’ goffo con cui dal reale si rimane lì: nel reale. Non c’è bisogno, dice il genio, d’inventare nulla: basterà guardare. Il genio prende congedo da quella managerialità dell’astuzia che Manganelli attribuiva al bravo compilatore delle note a piè di pagina – arte della minuzia che egli, troppo tardi, doveva riconoscere di non padroneggiare, per ripiegare, quindi, su altro mestiere:
Troppo tardi: incapace di frequentare metodicamente le biblioteche nostrane, di compilare schede, di catalogare argomenti, di redigere note, ho dovuto ridurmi a fare il genio. Miserabile fine, per chi era nato per gli studi. Ma, in questo modo, mi sono esentato da tutto ciò che non so fare, che è, appunto, tutto[2].
Dupin sa che l’astuzia dell’investigatore è tutta cerebrale e tralascia il corpo nel dominio dell’estensione. Quell’assurdo dualismo, a principio del moderno, che complica persino i racconti investigativi. Per vedere le cose c’è bisogno di un corpo intero, non biforcato, che ricomprenda la mente nella rete della materia – per non finire invece nella rete che cattura il merluzzo.
Sarà per questo che Laverna, regina del travestimento, garantiva i suoi favori mistici alla categoria che il Prefetto più odia, quella dei ladri. Ma in fondo, chi è l’autentico ladro, il più sfacciato e impunito, se non il Prefetto? Questi sottrae al reale il bene più prezioso (il carattere di realtà) per introdurvi qualcosa che oscuri la sua neghittosa incapacità. E, assieme a Orazio, il Prefetto, il più invisibile dei ladri, potrà invocare la dea:
Pulcra Laverna, / Da mihi fallere, da iustum, / Sanctumque videri: /Noctem peccatis, et fraudibus / Obiice nubem (Orazio, Epist. I, Lib. I)
Che la Dea doni quindi al nostro Prefetto l’arte di esser creduto giusto e di ingannare; che stenda una nube sui suoi peccati e sulle sue frodi.
Qual è quindi il delitto di proporzioni storiche che denuncio in apertura? Abbiamo quantomeno due ipotesi da vagliare. Potrebbe trattarsi di qualcosa che il Prefetto solo è in grado di scovare con i suoi arnesi cerebrali, che scavano al di sotto della patina di realtà su cui il nostro occhio inesperto si arresta. Oppure l’opposto: ha ragione Dupin. Il delitto non c’è. È una stramberia del Prefetto. Anzi, peggio: sta nell’esistenza stessa del Prefetto, che si tinge di giustizia allorché depreda il reale della sua disposizione all’esser visto.
Sta tutta qui, in fondo, la contrapposizione recente tra critica e postcritica. Ora: farò certo professione di partigianeria dicendo che, nella mia trama, la critica è il Prefetto e la postcritica è Dupin. E sia! D’altro canto, l’iniziale posizione dei pedoni non pregiudicherà l’esito delle indagini. Perché sì: c’è bisogno di un’indagine.
Due parole sugli antefatti, o meglio, sugli indiziati.
La critica è quell’esercizio di pensiero che si rifiuta di cedere alla credenza per cui il reale è dato a vedersi. Dietro la scorza del reale c’è ben altro – e capire cosa sia quest’altro è decisivo per capire cosa sia la scorza che lo protegge e come poterla rimuovere. La critica scioglie le incrostazioni, avvia reagenze forti, smotta concrezioni sedimentate: non si arresta alle conclusioni che chiunque, senza critica, potrebbe raggiungere da sé. La critica è uno strumento tecnico-tecnologico potentissimo per capire quel che c’è sotto e che sta dietro le cose: quel che fa sì che le cose appaiano per come sono; quel che fa sì che l’occhio comune si accontenti di credere che la realtà sia ciò che vede.
La postcritica ritiene che tutto questo sia piuttosto sensato. In certi momenti, la propensione all’inganno – e all’autoinganno – annebbia la vista. La critica è senza dubbio una bussola affidabile in caso di nebbia. Rimedio estremo, però, perché, come una mappa, la bussola indica direzioni, ma non offre nulla del panorama. La postcritica rivendica il senso più proprio del camminare a diretto contatto con le cose, del fare ingresso a tutto corpo in uno spazio. Perlopiù, la bussola del sospetto – il credo fondativo della critica – tende a distrarre da quanto c’è attorno.
Ecco, la critica e la postcritica non sembrano per natura destinati al conflitto, ma all’integrazione: in tempi di normalità, si può semplicemente passeggiare. Se l’atmosfera si fa ostile, se ci si perde, ecco, meglio avere con sé una bussola. Con l’idea di fondo (o quantomeno la speranza), però, che solo la passeggiata dà il senso proprio di quel che ci circonda.
Tutto questo, si badi, è già sempre fuor di metafora. Il camminare è una pratica di pensiero che coinvolge tutti i sensi, e il pensiero è il movimento in un panorama. In questa inclinazione “peregrina”, la postcritica si dà come attingimento dello spazio reale attraverso la creazione di legami sensoriali e affettivi con il panorama. La critica è diffidente rispetto a questi legami e crede che ogni percorso richieda un fondamentale disincanto: i legami potrebbero essere trame tutt’altro che benevole per cui, alfine, ci si trova invischiate/i contro i nostri stessi interessi. Prima di farci toccare dalle cose, dice la critica, bisogna capire da cosa sono mosse. Ed è qui che si consuma il primo e più forte strappo tra critica e postcritica. Le cose non sono mosse da nulla che le trascenda. Se serve la bussola è perché ci si è perse/i, perché abbiamo imboccato la strada sbagliata e ci siamo lasciate/i distrarre. Abbiamo creato legami sbagliati con cose sbagliate. Non, come la critica ritiene, perché qualcuno o qualcosa ci abbia teso un tranello.
Difficile rendere il senso di un dibattito più che centenario, eppure il succo sta tutto qui. Al fondo, c’è poco altro. Ovvero migliaia di pagine di metafisica, ontologia, teoria sociale, antropologia, e altre discipline che piegano il confronto nelle modalità più variopinte. Ma il dissidio sta proprio lì: possedere la tendenza al sospetto o esserne posseduti? Credere al Prefetto e alle sue astuzie o accontentarsi di essere geniali?
Se il Prefetto ha ragione, ecco, il delitto è davvero di proporzioni storiche. La postcritica ha sedotto, ingannato e ora sevizia chi crede che si possa fare a meno della critica. Se ha ragione Dupin, le proporzioni del delitto vanno a dir poco ridimensionate e i sistemi di sicurezza possono essere allentati. Dal canto mio, pur stimando il Prefetto, ammetto di dar sostegno pieno a Dupin. Non occorre che sveli il mistero della Rue Morgue per dare a intendere come la fitta trama di indizi e sospetti, intessuta dalla polizia (critica), abbia teso a ingarbugliare quel che, per conto suo, era ben visibile se solo ci si fosse accostati alle cose.
Il giudizio tuttavia non spetta a chi scrive. Si apra piuttosto l’indagine.
Abbiamo allora bisogno di testimoni pronte/i a rilasciare dichiarazioni su fatti dei quali esse/i abbiano avuto conoscenza, e che sono oggetto della presente indagine preliminare. Le/i nostri testimoni saranno autrici e autori che esercitano in diversi campi del sapere e che di certo sapranno vagliare le ragioni di critica e postcritica senza animosità né pregiudizio.
[1] Edgar Allan Poe, Gli omicidi della Rue Morgue, in Id., Auguste Dupin investigatore e altre storie, traduzione di Giorgio Manganelli, Einaudi, Torino, 1991, p. 32.
[2] Giorgio Manganelli, Mammifero italiano, a cura di Marco Belpoliti, Adelphi, Milano, 2007, p. 106.
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Da Versailles a Torre Maura: il pane e la critica
di Olivia Guaraldo
Abbiamo amato la decostruzione, la differenza, la resistenza. Abbiamo coltivato la contaminazione, l’ibridazione, la moltitudine. Oggi queste parole, con le quali abbiamo per anni scritto di filosofia, scomposto tradizioni e composto teorie, da carismatiche astrazioni diventano prosaiche concrezioni, e non sono come le avevamo immaginate. A forza di decostruire, di de-naturalizzare, di de-familiarizzare siamo arrivati ad un punto in cui ogni retorica emancipativa che poteva guidare l’intento originario è svanita. Prevale un relativismo incattivito e paradossalmente identitario. Le differenze e i loro diritti hanno moltiplicato le pretese di riconoscimento mettendo minoranze contro minoranze, in una balcanizzazione delle identità politicamente sterile. Non c’è più un noi, o se c’è è il noi del consumo ‘on demand’, nell’era del prodotto ‘customized’, confezionato in serie ma su misura, secondo la preferenza individuale. La resistenza, poi, c’è, è vero, ed è quella di gruppi o movimenti antagonisti, con larghi progetti emancipativi ma piccoli seguiti. La resistenza di massa è invece quella di crescenti populismi che mal sopportano le istituzioni democratiche, i loro pesi e contrappesi (lungaggini), i loro orizzonti valoriali (ipocriti, corrotti). Le moltitudini non sono per la libertà e l’uguaglianza ma per la casa popolare agli italiani: la rivolta del pane non ha più le fattezze gloriose della marcia delle donne su Versailles, ma quelle odiose di Torre Maura, con tanto di calpestio ostinato sui panini per i bambini Rom. La contaminazione e l’ibridazione prendono ora le concrete forme di una paura collettiva a cui nessuna e nessuno si sottrae: una fottuta paura di morire per un virus cinese ci avvolge come un incantesimo.
Non funzionano più i buoni propositi emancipativi che presupponevano la critica. Una critica che ci istruiva su cosa non andava, su come le cose fossero diverse da come apparivano, su quali rapporti di forza (visibili e invisibili) determinavano il presente dell’oppressione, dello sfruttamento, dell’ingiustizia. La critica ha continuato a predicare le sue verità nascoste – purtroppo ad essa non ha fatto seguito nessuna presa del Palazzo d’Inverno né tantomeno la coscienza di classe diffusa, l’autonomia operaia, la sovversione, o, come diceva Marx, “l’abolizione dello stato di cose presente”. Le cose sono senz’altro più complesse e articolate di quanto questo pezzo possa argomentare (che poi dev’essere breve ed efficace, altrimenti non verrà letto. Altro problema della critica: il suo linguaggio da iniziati, la sovradeterminazione di ogni termine usato, in codice per chi sa, e capisce l’ammiccamento, gli altri non meritano.) Certo è che alla radicalità (linguistica, politica, culturale) di quella critica – che è sempre anche critica sociale[1] – ha fatto seguito una sua sconcertante irrilevanza. Più è radicale meno è efficace. Più è radicale, però, più è contenta di sé.
Gli effetti di questa irrilevanza sono, almeno per chi ci tiene agli intenti emancipativi di ogni sapere (come chi scrive), duplici: da una parte un arroccamento sdegnoso e sdegnato, pessimista sul presente e nostalgicamente attaccato alle identità politiche di un tempo, a quel Novecento che non c’è più, ma che viene pietrificato, ossificato, trasformato in fossile (orientalizzato, direbbe Edward Said, ma qui sto cadendo nel tranello dell’intellettualismo che vorrei criticare), ossia escluso dalla storia, rivendicato come il tempo delle vere contrapposizioni, delle vere identità politiche, delle vere lotte per l’uguaglianza, dei veri movimenti antagonisti. Come se ci fosse un passato che non muta al mutare del presente che lo segue. Il Novecento come preistoria.
Dall’altra, una incapacità di provare entusiasmo, felicità, speranza per ciò che si mostra, ciò che continua ad accadere nella realtà (perché le cose accadono, la storia si muove) e che ha dell’emancipativo, del positivo, del nuovo. Insomma, una sorta di atteggiamento dogmaticamente sospettoso verso tutto, perché dietro ogni manifestazione del nuovo si può nascondere il Satana multiforme del neoliberismo: Greta Thunberg è una ragazzina eterodiretta, l’esempio lampante di un essere umano trasformato in marchio dal capitale. I Fridays for future sono solo l’espressione giovanile di una cultura mediatica completamente inconsapevole delle vere dinamiche di sfruttamento della natura fatta dalle grandi corporation. Le Sardine un fenomeno nato sui social, effimero, buonista, moderato, inconsistente e privo di qualsiasi agenda politica. Manca a queste istanze, secondo il sopracciglio aggrottato del critico o della critica, la serietà, la cattiveria, la preparazione, la consapevolezza. Non ci può essere politica seria senza un sapere critico serio.
Sarà per questi motivi (ma altri potrebbero essere elencati) che, come afferma Mariano Croce, anziché farsi portatrice di una spinta trasformativa, la critica sarebbe paradossalmente connivente con un mantenimento ambiguo dello status quo: “la critica per un verso oscura e travisa i fenomeni che osserva e per l’altro accentua (o persino determina) le storture sociali che denuncia”[2]. Detto altrimenti, l’apparente immobilità dell’oggi se da una parte ha avuto i suoi gloriosi rappresentanti nei teorici della fine della Storia e nei celebratori dell’eterno presente della prosperità occidentale, dall’altra essa sembra essere appunto sostenuta da coloro che attraverso l’esercizio costante e pervasivo di un atteggiamento critico e sospettoso, cinico e distaccato, inibiscono atteggiamenti affettivi differenti, positivi e propositivi, riconducendoli tutti, sempre e comunque, alla cornice di un regime di potere/sapere neoliberale che mira a investire, per sfruttarli, gli aspetti più intimi, emotivi, relazionali della soggettività.
Certo il neoliberismo esiste, così come esiste un “realismo capitalista”[3] che predica ormai da un trentennio che “there is no alternative” a questo mondo del consumo, della competizione come modello relazionale, dell’economia estrattiva, della medicalizzazione del disagio e della psicologizzazione della devianza (ecco che ricado nel gergo, ma detto semplicemente ciò significa: “se sei sfigato è per colpa tua, se sei povero è perché non hai voglia di lavorare, se sei un ‘loser’ è perché non hai rischiato abbastanza”), della diffusa solitudine che si trasforma in estraniazione e necessariamente in infelicità.
Noi che aderiamo all’ipotesi – ma più che un’ipotesi è una sfida – della postcritica siamo convinte e convinti che non si combatte il neoliberismo con le vecchie armi della critica. Essa rischia, pericolosamente, di confermare l’ipotesi thatcheriana del “there is no alternative”. Ci chiediamo, dunque, se sia possibile abbandonare il piglio scettico, sospettoso, incattivito e nostalgico, proprio di un certo discorso critico prevalente nella teoria sociale e politica, senza rinunciare ad una tensione trasformativa. Anzi, siamo convinte (e convinti, perché ad una differenza teniamo, quella sessuale) che proprio abbandonando il mood scettico-sospettoso e contrarista della critica possiamo recuperare tensione trasformativa, abbracciando un’erotica del cambiamento. Proprio perché il discorso critico ha bandito dal suo registro discorsivo modalità affettive diverse da quelle del sospetto, del “le cose non sono così come sembrano”, si è condannata all’irrilevanza. E proprio perché non vogliamo essere irrilevanti, aderiamo alla postcritica. Che pure non è una scuola, un progetto, un partito, un movimento, ma un atteggiamento. Forse anche un ritmo. Una bossa nova, che, come la musica brasiliana ideata da Jobim, è un innesto vivificante del nuovo sul vecchio, una sua raffinata e molto sensuale rivisitazione.
Dunque è un mood affettivo quello che guida la postcritica: uno dei suoi intenti è far riaffiorare gli affetti, che da sempre muovono l’agire. Non si tratta però di dire in che cosa consistano gli affetti, se sono veri e autentici oppure se sono eterodiretti, sfruttati dal ‘sistema’ per fare profitto. Si tratta piuttosto, per chi fa un lavoro intellettuale, di situarsi, su un piano di orizzontalità, insieme agli attori sociali, per capirne le motivazioni senza pretendere di spiegare a loro il senso del loro stesso agire. Nessuna avanguardia, nessuna direttiva teorica. Situandosi affettivamente nell’intreccio delle relazioni umane, ci si immerge nel tessuto del reale e, al massimo, si cerca di stabilire connessioni, di fare da ‘leganti’ . Ogni presa di posizione è un situarsi entro un fascio di energie: tale energia, “si può utilizzare per un arroccamento distante, sospettoso, presago di mali a venire per noi e per tutti. Essere critici nel senso più deleterio”, oppure ci si pone nella “linea delle connessioni in modo tale che l’energia eserciti la forza incrementale della moltiplicazione.”[4]
Certo è che gli affetti da incrementare e moltiplicare sono gli affetti aggregativi, erotici, generativi e non quelli già troppo moltiplicati virtualmente e realmente dell’odio, del risentimento, della paura, dei panini calpestati.
La novità della postcritica risiede quindi anche (e soprattutto) in un atteggiamento, che, come dice Rita Felski, si congeda dal cinismo, dal disincantamento, dalla pretesa che il lavoro intellettuale debba coincidere con il “dire no” piuttosto che con il “dire sì”. A questo congedo corrisponde invece una attenzione e una considerazione per affetti positivi e riparativi, propri di ambiti semantici di parole come “ispirazione, invenzione, riconoscimento, conforto, riparazione, passione”[5].
La forma di energia proposta dalla postcritica – nel cui fascio il teorico, la teorica si può situare, cercando di stabilire connessioni – permette agli affetti generativi e propositivi che la filosofia da tempo fatica a cogliere, di guadagnare la superficie, di affiorare. Perché essi insistentemente si affacciano sul teatro dell’accadere, in forme carsiche, sconnesse, prive di scopi grandiosi eppure reali, concretamente attive, dinamiche, produttrici di senso per chi le agisce, indipendentemente dagli scopi che possono raggiungere. I Fridays for future, le Sardine, ma anche le piccole comunità di associazionismo, sia sociale sia culturale, che popolano i nostri territori di provincia ma raramente guadagnano visibilità. Vale la pena, mi pare, di cogliere, “a partire dalla posizione nella quale sto” (che poi è una nobile postura femminista, il “partire da sè”), le linee di energia dentro cui posso inserirmi, per tessere legami, avviare connessioni, potenziando quell’erotica del legame che il nostro tempo ha dimenticato trasformando ogni erotica in consumo osceno di corpi.
Uno dei principali elementi generativi della postcritica è proprio questa apertura all’accadere, senza sospetto, estranea ad ogni postura ‘preventiva’ che rifiuta la realtà. Penso che ‘accadere’ sia proprio una parola postcritica – sono felice che esista questa parola, interrompe l’autoreferenzialità della filosofia come critica, la silenzia. Permettetemi di fare una connessione, forse forzata: accadere si dice in inglese “to happen”, ed è proprio la happiness del to happen che dovremmo essere in grado di saper cogliere, senza sospetti di infiltrazioni delle spie neoliberiste, quando le persone si ritrovano insieme – in piazza, in una stanza, in un corteo, un’assemblea, una riunione. La felicità pubblica dello stare insieme viene prima di ogni rivendicazione, di ogni progetto, di ogni agenda politica, di ogni conflitto. C’è un elemento sorgivo, direbbe Adriana Cavarero, nel ritrovarsi insieme in una piazza, che testimonia di una origine non utilitaristica della politica, bensì innanzitutto affettiva[6]. Gli scopi dell’agire politico (comune, collettivo, plurale) sono sempre secondari rispetto al piacere, alla gioia, alla felicità dello stare insieme. Come dice Hannah Arendt, chi fa la rivoluzione scopre la libertà nell’atto stesso della liberazione[7]. Non è la liberazione (e la violenza che la accompagna) il momento decisivo della rivoluzione, ma la libertà, l’accadere miracoloso dell’iniziare qualcosa di nuovo insieme ad altri, l’accadere partecipativo che abbiamo ormai scordato di chiamare politica. Se non prestiamo occhi ed orecchi a questa erotica che sta al fondamento della democrazia, faremo vincere altri affetti, assistendo inermi alla polarizzazione fra un affetto dell’incattivimento incrementale e un affetto del cinismo compulsivo, del disincantamento come unico accesso alla verità.[8]
Postcritica è un venire dopo la critica, perché di necessità, come dice ancora Felski, “è una questione di modi di pensare che non ci sorprendono più, e allo stesso tempo bloccano altri percorsi in quanto ‘insufficientemente critici’. Ad un certo punto la critica non ci porta più da nessuna parte”[9].
Farò, in conclusione, un esempio di come possa funzionare la postcritica come prospettiva analitica e affettiva ad un tempo, facendo riferimento ad una ricerca di stampo sociologico ed etnografico che ho di recente supervisionato. La ricerca si occupa delle procedure per la richiesta del diritto d’asilo a migranti LGBTQ, condotta anche sul campo, con operatori del settore e richiedenti, e mette in evidenza come il dispositivo di accoglienza umanitaria sia – come tutti i dispositivi giuridici – spesso duro e violento nel suo funzionamento. I metodi dell’intervista fatta dalle commissioni territoriali al fine di capire se il richiedente dice la verità e ‘merita’ la protezione internazionale sono spesso approssimativi, mettono in atto una violenza simbolica nei confronti dei richiedenti asilo che porta a rendere ancora più vulnerabili i richiedenti stessi. Il ricercatore, la ricercatrice può, in una prospettiva critica, elencare tutti i luoghi in cui la violenza simbolica si attua, analizzare con precisione il funzionamento dei dispositivi giuridico-istituzionali che rendono il processo di richiesta d’asilo un percorso sofferente, ingiusto, violento appunto. Ma se la ricerca si limita a questo approccio critico che ne sarà di quei soggetti che proprio al dispositivo di asilo fanno riferimento per riappropriarsi di una vita vivibile? Che ne sarà degli investimenti affettivi dei richiedenti stessi, delle loro speranze, delle loro aspirazioni future? La prospettiva postcritica cerca invece di tessere legami, di mettere in connessione i soggetti e i processi che li determinano. La postcritica, in altre parole, non considera i dispositivi di potere, le istituzioni, come oggetti alieni calati dall’alto, verità rivelate, ma prodotto umano, dentro il quale gli umani agiscono, si muovono, modificano quelle stesse istituzioni. Al fine di non feticizzare i dispositivi di governo come entità sovrannaturali contro le quali si può solo agire la critica e resistere, e proprio perché soggetti e poteri stanno assieme in una dimensione relazionale, è indispensabile prendere atto delle potenzialità creative e propositive che tale relazionalità ci consegna. Possono esserci storie di accoglienza e di rifiuto, e la ricercatrice, il ricercatore che si trova davanti a tali storie può in maniera postcritica, far emergere non solo al violenza e la discriminazione, ma anche le potenzialità creative che emergono quando sono in gioco i corpi, i loro affetti, i loro desideri. Ci sono storie di connessioni possibili, appunto fra corpi e desideri, che anche un processo violento e ingiusto come quello dell’intervista e della richiesta d’asilo fanno accadere.[10] Abbiamo il dovere – perdonatemi, questo è ancora un moralismo che risente molto della critica – di farci moltiplicatrici e moltiplicatori di tali connessioni.
Post-scriptum: concludevo questo testo il 27 febbraio 2020. Reputo necessaria una postilla a quanto detto. Il dilagare della pandemia da Covid-19 ci ha messo di fronte in maniera inaudita alla concretezza del nostro essere connessi, interrelati, reciprocamente dipendenti (nel bene e nel male). Abbiamo visto incarnarsi, al di là di ogni immaginazione, concetti che la critica ha, negli anni passati, usato prepotentemente, ma sempre e solo in senso metaforico (contaminazione, contagio, ibridazione, immunità). Una riflessione postcritica si chiede appunto se i nomi esauriscano le cose, se le metafore dicano, possano dire, tutta la verità sui processi, o se invece siano dispositivi che a volte anziché svelare occultano, selezionando porzioni di realtà a loro piacimento. Cosa intendevano dire quei concetti, prima della pandemia? Erano trasfigurazioni, eleganti e apparentemente efficaci, di processi biologici in processi politici. Erano concetti ‘critici’ che speravano di svelare verità nascoste. Forse lo hanno fatto, sono stati efficaci strumenti di comprensione della società, del potere (il paradigma immunitario, la nuda vita, la biopolitica, e di converso la contaminazione, l’ibridazione come auspicabili orizzonti trasformativi dell’eurocentrismo di certa teoria). Oggi la pandemia esaurisce del tutto la pretesa non tanto che quei concetti possano funzionare, quanto che possano essere usati metaforicamente. E il loro essere oggi “nome vero della cosa” – nel senso in cui Guido Calogero definiva il “pensiero arcaico” parlando dei presocratici – ribalta, capovolge del tutto la loro funzione critica. Oggi dicono cose diverse, quelle parole.
Qualsiasi cosa la parola autorevole del filosofo sentenzi, c’è una realtà molecolare che pretende ascolto: ci sono – realmente – alveoli polmonari colpiti dal virus che devono essere ossigenati lentamente e costantemente al fine di rendere ancora possibile il respiro. Questi alveoli sono parti essenziali di corpi che occupano letti di terapia intensiva, i quali non sono sufficienti per tutti. Si decide quindi l’isolamento per evitare il sovraffollamento dei reparti di emergenza, per scongiurare l’impossibilità di permettere ai polmoni di tutti i malati di venire ossigenati. Si decide quindi la restrizione di libertà per poter curare delle vite, per non dover scegliere tra vite degne di essere vissute e vite sacrificabili. Chi può stabilire quali vite siano degne e quali no? Una – forse inevitabile, in assenza di lockdown – distinzione tra chi è sacrificabile e chi no ci avrebbe avviato sulla pericolosa strada, quella sì, della selezione biologica, della nuda vita.
La materialità corporea – quel corpo che noi tutte e tutti siamo – sembra ora rifiutare le metafore che lo trasfigurano. Alveoli polmonari, questi sconosciuti – la loro fame d’aria è l’orizzonte di senso nel quale dobbiamo per ora muoverci, senza trasfigurare. Così come immunità è ora condizione auspicabile, realtà anticorpale a cui tutti vorremmo avere accesso. E ibridazione o contaminazione sono invece condizioni da rifuggere, perché estremamente pericolose per l’organismo. Ma l’orecchio critico non è disposto ad ascoltare il richiamo dell’organico, e per questo fallisce nel cogliere il nuovo della pandemia, lo riporta a schemi noti, orizzonti rassicuranti (stato di eccezione, biopolitica, nuda vita).
La prospettiva postcritica suggerisce altresì che nella risposta umana – quindi culturale, sociale, politica – a questa pandemia limitarsi alla critica significhi abdicare a una responsabilità verso il mondo, per amore, fedeltà, attaccamento verso le proprie griglie interpretative. Singifica, come direbbe Heinrich Blücher, mantenersi codardamente solo nell’orizzonte del pessimismo. Certo è implicita nell’attuale situazione la potenziale risposta autoritaria, il rigurgito fascista sempre latente nelle società spoliticizzate della tarda modernità: società indifferenti alla partecipazione politica, fatte di persone per la maggior parte politicamente disinteressate, che sono il prodotto, direbbe ancora Hannah Arendt, di un modello di pensiero che già dalle sue origini, in Platone, presuppone una distinzione necessaria tra governanti e governati, tra chi comanda e chi obbedisce, con conseguente adorazione consapevole e inconsapevole per il conducator.
Tuttavia, nell’attuale situazione è implicita anche un’altra tendenza – chi la definisce sdolcinata, chi patetica, chi retoricamente patriottica, allontanando criticamente da sè come una “peste” qualsiasi possibile adesione a sentimentalismi popolari – un’altra risposta. È la risposta di solidarietà, di comunanza, di vicinanza fisicamente sospesa ma emotivamente prossima delle molte istanze di aiuto, di cura, di canto e di poesia che in questi giorni di lockdown abbiamo visto fiorire. Si potrebbe dire, parafrasando Benjamin, che l’umano diventa significativo nelle “stazioni del suo decadere”, come la storia del mondo nel Trauerspiel tedesco (qui sto sprofondando nella citazione di maniera, ma non resisto alla pulsione). E le stazioni del suo decadere sono i momenti del fallimento, della sofferenza, della percezione di una vulnerabilità indifferibile. Purtroppo – e questo è un segno altrettanto chiaro della nostra abitudine critica – tale somiglianza siamo disposti a riconoscerla in tutta la sua nuda incontrovertibilità solo nel “caso serio” della morte, nella sua ravvicinata possibilità. Oggi più che mai questa categoria – la vulnerabilità – si è materializzata, si è fatta carne, come il Cristo. Oggi più che mai tale categoria è una condizione comune (perché tutte e tutti abbiamo alveoli polmonari). Ma proprio perché la morte non rimanga l’unico orizzonte in cui ci percepiamo uguali (“‘a livella”) auspico che questo momento faccia emergere l’occasione per trasformare, come la riflessione femminista dice da anni, tale vulnerbailità in risorsa, azzardando una torsione positiva della comunanza, e magari provando a considerare altre cornici per dire l’uguaglianza e la libertà (la nascita, la felicità pubblica, la democrazia sorgiva). Le connessioni possibili oggi sono molte, e la postcritica ci aiuta a immaginarle, a dare loro voce e dignità teorica. Le canzoni dai balconi non sono una dolciastra e patetica espressione dell’italiano medio, ma, come ha detto Bonnie Honig, una “serenata per la democrazia”[11]. E se ogni serenata è un canto all’amata che non c’è, così anche il nostro cantare, insieme ma lontani, dai balconi come dalle bacheche di Facebook, esprime il desiderio di relazione, il desiderio di toccarci e di parlarci, il desiderio democratico di stare insieme proprio nel momento in cui la relazione è impossibile. Chi avrebbe mai detto che le nostre società spoliticizzate e individualiste, comsumiste e neoliberiste, avrebbero scoperto, proprio nel divieto della relazione e della socialità, l’insostituibile “pleasure in the company of others”? In ogni avvenimento collettivo la dimensione erotica della socialità fa la sua comparsa, balugina, ma la forma che prenderà non è mai scontata: essa può diventare generatività democratica ma può anche de-generare nella pusione totalitaria.
Sta ovviamente a noi, a tutte e tutti noi, trovare le parole che dicano questo desiderio, per immaginare forme nuove in cui esso possa diventare per tutte e tutti – non solo per alcuni, in genere coloro che si autconvocano nella posizione di comando – piacere.
[1] Cfr. Natascia Tosel, “La vita bassa. Per una postcritica molecolare”, prossimamente in questa indagine.
[2] Mariano Croce, “Etnografia della contingenza: postcritica come ricerca delle connessioni”, Politica e società, 1, 2017: 81-104, p. 82.
[3] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018.
[4] Mariano Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 82.
[5] Rita Felski, The Limits of Critique, The University of Chicago Press, Chicago 2017, p. 17.
[6] Adriana Cavarero, Democrazia sorgiva, Cortina, Milano, 2019.
[7] Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino, 2009.
[8] Ho trattato di questo argomento in “Illusione e realtà nell’epoca della post-verità”, in Giulia Bistagnino, Carlo Fumagalli (a cura di) Fake news, post-verità e politica, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019, pp. 33-52.
[9] Felski, The Limits of Critique, cit., p. 9.
[10] Olivia Guaraldo, “Fra corpi e storie: ambiguità e potenzialità del dispositivo SOGI”, in Massimo Prearo, Noemi Martorano (a cura di), Migranti LGBT. Pratiche, politiche e contesti di accoglienza, ETS, Pisa, 2020.
[11] Bonnie Honig, In the Streets a Serenade, 14/03/2020 http://politicsslashletters.org/uncategorized/in-the-streets-a-serenade/
[Immagine: Auguste Dupin recupera la Lettera rubata].
LA MORTE DELLA “CRITICA DELL’A RAGION PURA”, UNA “CORONA FERREA” PIENA DI “VIRUS”, E LA LETTERA RUBATA …
“[…] Difficile rendere il senso di un dibattito più che centenario, eppure il succo sta tutto qui. Al fondo, c’è poco altro. Ovvero migliaia di pagine di metafisica, ontologia, teoria sociale, antropologia, e altre discipline che piegano il confronto nelle modalità più variopinte. […] Il giudizio tuttavia non spetta a chi scrive. Si apra piuttosto l’indagine. Abbiamo allora bisogno di testimoni pronte/i a rilasciare dichiarazioni su fatti dei quali esse/i abbiano avuto conoscenza, e che sono oggetto della presente indagine preliminare. Le/i nostri testimoni saranno autrici e autori che esercitano in diversi campi del sapere e che di certo sapranno vagliare le ragioni di critica e postcritica senza animosità né pregiudizio” (Mariano Croce e Olivia Guaraldo, “Chi ha ucciso la critica. Un’indagine indiziaria”: Mariano Croce, “Presentazione di un delitto” – sopra).
LA PAROLA RUBATA. Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali : Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli – https://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/appelli/parolarubata24022004.htm);
EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES ( https://www.alfabeta2.it/2019/03/31/marcel-detienne-memorie-felici-e-concetti-indelebili/#comment-639175);
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL “FAR WEST” E IL “SAPERE AUDE” DELLA “CRITICA DELLA RAGION PURA” : JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO “TOLEMAICO” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5190);
PER IL “RISCHIARAMENTO” (“AUFKLARUNG”) NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
Federico La Sala
Gentile Olivia Guaraldo,
potrebbe argomentare e addurre prove del fatto che Greta Thunberg sia “una ragazzina eterodiretta, l’esempio di un essere umano divenuto il marchio del capitale”?
Sono poco documentata, ma mi sembra un giudizio che la liquida in maniera troppo sommaria. Medesima impressione per l’inconsapevolezza che a suo dire spinge i FFF. Ne è davvero così sicura e su quale base?
Grazie e buon primo maggio,
Alessandra
Cara Alessandra il mio era un riferimento a chi definisce Greta così (etetodiretta) non certo la mia opinione
Io appunto volevo mettere in evidenza come spesso la critica attacchi ingiustamente importanti esempi di attivismo sociale come Greta e i FFF 3 che sono invece da valorizzare. Il senso del mio articolo sta tutto in questo. Spero di averlo espresso in modo chiaro
“ Mercoledì 19 giugno 1996 – Quello che mi ha « rovinato » non è stata certo la critica letteraria, ma la critica della letteratura. La critica della letteratura è qualcosa che, nel mio ricordo, è cominciato una trentina d’anni fa, facciamo trentacinque. (È cominciato presto) (Per la verità io sono convinto che la critica della letteratura, in un certo senso, ci sia sempre stata, anche quando ero molto piccolo. Mi ricordo certi ricchi, certe signore, certe risate, certe automobili, certi culi… Soprattutto d’estate. La letteratura per me era sempre d’inverno, i banchi di legno nero con i graffi chiari come ferite, i grembiulini neri e il fiocco di squillante blu, i cappelli di paglia nera lucida della nonna, le sue velette – nere -, l’inchiostro, nero, blu, che macchiava le dita – di viola. Le notti, nere, piene di incredibili meravigliosi sogni. A colori). Critica della letteratura erano i miei nuovi amici, tutti iscritti ad architettura – ma, va detto, anche parecchi di quelli vecchi, che poi hanno fatto ingegneria o farmacia o fisica o testamento, ma lettere no, se non erano donne. Critica della letteratura furono certe facce, che fin dall’inizio mi sembrarono troppo – troppo facce. Critica della letteratura fu una tizia che mi fece sapere di avere bruciato tutte le mie lettere e che poi vende quadri. Critica della letteratura è andare troppo al cinema, dove i romanzi sono solo nei titoli. Critica della letteratura è arrossire se l’Unità scriveva « Vergogna! ». Critica della letteratura è arrivare al punto di pensare di voler fare il fotografo. Critica della letteratura è fare viaggi – pochi. Critica della letteratura è cambiare casa – quattordici. Critica della letteratura è sentirsi addosso il malocchio cioè la critica della letteratura. Critica della letteratura è frequentare la poesia « visiva ». Critica della letteratura è mettersi i baffi. Critica della letteratura è togliersi i baffi. Critica della letteratura è leggere La montagna incantata lasciando che ti chiamino « beniamino della vita » come se fossero Claudia Chauchat invece che, al massimo, Patti Pravo -, come se tu fossi Hans Castorp invece che, al massimo, uno studente fuori sede e fuori corso. Critica della letteratura è leggere Herzog, in the peak of the summer, a Maratea, a Tropea, a Scalea, con quel caldo, alla fine degli anni Sessanta. Critica della letteratura è uno – di Bologna – che suona la chitarra sulla spiaggia con i capelli lunghi e ricci ed è del tutto più giovane di te: per questo a lei piace e tu passi una notte nera di gelosia come non ti accadeva dal ‘51 massimo ‘52. Critica della letteratura è scoprire che a lei non piaceva nemmeno quello con i capelli lunghi e ricci. Critica della letteratura è Cofferati che cita da un’autorevole barba Tex Willer, o Nicolini che alcuni anni fa disse, e io presi nota, che: « Un tempo in Campidoglio si incoronavano i poeti (ma) noi affermiamo l’appartenenza del comic alla cultura contemporanea. È finita l’epoca dei professori che rimproveravano gli alunni perché leggevano i fumetti. ». Critica della letteratura è perdere tempo insegnando letteratura ciociara all’università di Ladispoli o di Sperlonga o di Sezze guadagnando peraltro benino. Critica della letteratura è perdere il tempo (degli altri) (della letteratura). Critica della letteratura è sentirsi ganzo a rispondere a Fortini che quello di « alluminar chiamato è in Parisi » è Oderisi (d’Agobbio), come se fosse Lascia o raddoppia, come se fosse il ‘58. Critica della letteratura è sentirsi « felice come una Pasqua »: con Franco Lattes. Se la letteratura non sa più che cos’è, la critica della letteratura continua a saperlo benissimo. Lo sa sempre. L’ha sempre saputo. (Critica della critica della letteratura è arrestare Gigi Sabani? Francamente non credo) (Al peggio non c’è mai fine, cioè: c’è qualcosa di peggio della critica della letteratura) “.
Ho letto con interesse l’introduzione (brillante!) di Mariano Croce e il primo intervento, molto chiaro, di Olivia Guaraldo.
Benché la mia simpatia vada, spontaneamente, piuttosto alla postcritica che alla critica, la perplessità è la seguente:
Con la critica ci troviamo di fronte a un atteggiamento di fondo – il sopracciglio inarcato dell’eterno sospetto – che finisce per diventare fastidioso, ma che non si esaurisce nell’atteggiamento, e anzi dispone di solidi apparati concettuali che a loro volta fanno riferimento a macrostrutture innegabilmente reali. Insomma la critica ha prodotto nel tempo una massa di baluardi e fortificazioni, ideologiche se vogliamo, ma che vanno oltre i critici in quanto persone, durano nel tempo e restano a disposizione.
La postcritca, per come appare nell’intervento di Guaraldo, sembra invece qualcosa, mi si perdoni l’espressione, di carne e di sangue, persone vere che riempiono le piazze e cantano dai balconi – e questa è una cosa molto bella, ma si ha l’impressione che passata la circostanza scatenante e richiuse le porte-finestre il fenomeno sia concluso – cioè che non vada oltre le possibilità fenomeniche degli individui, ed evidenzi le caratteristiche dell’individuo, in particolare contemporaneo e ondivago: incostanza, spontaneità volubile, marcata impermanenza. Non si tratta di sospettare che dietro Greta Thunberg ci sia l’anti -Greta Thunberg, ma di chiedersi quanti di quegli studenti che hanno partecipato ai green friday si prenda poi la briga, a scuola (quando ancora ci si andava), di separare la carte dalla plastica e non trovi più comodo buttare tutto nel primo bidone che gli capita a tiro. Cioè: lasciando anche da parte il problema di quanto ci sia di narcisistico, teatrale e artefatto nella cosiddetta spontaneità, quanto si può far conto su comportamenti spontanei, per loro natura intermittenti e molto probabilmente incostanti?
Grazie, Olivia. Adesso mi è tutto più chiaro.
Prima di parlare dell’assassinio della critica sarebbe anche giusto parlare di quello della letteratura, tanto per procedere con ordine: “ 18 ottobre 1987 – Dire che la letteratura è morta è poco. Bisognerebbe dire che è stata uccisa, ma è poco anche questo. Quello che bisogna dire è: come. “.